Centroamerica, movimenti sociali e Trattato di libero commercio

La violenta repressione contro le organizzazioni che si oppongono al TLC tra i paesi centroamericani e gli Stati Uniti. Il protezionismo di Washington a difesa degli interessi delle grandi imprese statunitensi. Le politiche neoliberiste dell’Unione europea in America latina.

Marzo 2005. Dipartimento di Huehuetenango, Guatemala. A pochi chilometri dalla frontiera con il Messico, la polizia antisommossa interviene brutalmente contro una pacifica manifestazione di protesta a cui partecipano un migliaio di contadini indigeni. Vengono sparati gas lacrimogeni ad altezza d’uomo. I manifestanti fuggono disordinatamente dando le spalle alle forze dell’ordine. Qualcuno reagisce lanciando pietre contro gli agenti. Un ufficiale della polizia è fotografato da tre turisti italiani mentre imbraccia una pistola. Vengono sparati numerosi colpi d’arma da fuoco. E’ il caos. Si odono lamenti, urla, imprecazioni. Sul terreno giacciono privi di vita i corpi di tre persone. Altre nove giungeranno in ospedale in gravi condizioni.

Si paga con il sangue l’opposizione popolare al Trattato di Libero Commercio Centroamerica-Stati Uniti (CAFTA - Central American Free Trade Agreement) ratificato dal Congresso guatemalteco quasi all’unanimità (120 voti a favore, 14 contrari, 20 astenuti).

Nei giorni precedenti al voto parlamentare le principali città del Guatemala erano state sede di cortei, sit-in, volantinaggi, blocchi simbolici. Nel dipartimento settentrionale del Quiché, i manifestanti erano stati dispersi brutalmente con i gas tossici e i manganelli; nella capitale si erano vissuti giorni di tensione con le forze antisommossa a presidiare minacciosamente i luoghi simbolo del potere. Davanti al Congresso gli scontri tra agenti e manifestanti avevano perfino costretto ad una sospensione di 48 ore del dibattito parlamentare.

La mobilitazione generale contro l’applicazione delle norme del Trattato è stata lanciata e nei prossimi mesi si moltiplicheranno le lotte. Organizzazioni sindacali, associazioni di base indigene, gruppi ambientalisti e di difesa dei diritti umani, studenti, cattolici, tenteranno di costringere il governo a sospendere l’applicazione degli accordi che segnano la completa apertura commerciale ai prodotti agricoli ed industriali degli Stati Uniti.

Il Guatemala è stato il secondo paese centroamericano (dopo El Salvador) ad aver ratificato il TLC, il cui testo finale era stato firmato il 28 maggio 2004 a Washington nella sede dell’OEA, l’Organizzazione degli Stati Americani. In realtà gli Stati Uniti puntavano ad un accordo di libero commercio che comprendesse dal 2005 l’intero continente e i paesi dei Carabi - Cuba esclusa - (il cosiddetto ALCA, l’Accordo per il Libero Commercio delle Americhe). L’aperta ostilità del Venezuela e le forti perplessità di Brasile, Ecuador, Argentina ed Uruguay hanno però convinto Washington a limitare per adesso le proprie pretese, accontentandosi di abbattere le barriere doganali dei debolissimi e fedelissimi paesi centroamericani.

Secondo gli analisti economici, con l’entrata in vigore del TLC, da qui ad un anno il Guatemala cancellerà ogni imposta su circa l’81% delle mercanzie USA, mentre per il restante 19% dei prodotti le tariffe doganali saranno eliminate in un periodo massimo di venti anni. In verità il processo di “liberalizzazione” era stato avviato da tempo e gli Stati Uniti avevano già ridotto le imposte sull’importazione dei prodotti agricoli centroamericani (monoculture caratterizzate dal forte sfruttamento della manodopera, dall’uso intensivo di pesticidi e dallo scarso valore aggregato).

Allo stesso modo si erano comportati i governi centroamericani con i prodotti agricoli ed industriali provenienti dal Nord America. Già prima del TLC, ad esempio, il Guatemala applicava dazi non superiori al 5-20% a più della metà dei beni importati dagli Stati Uniti. Queste misure doganali accanto al differente rapporto di forza tra le due economie avevano però causato l’invasione massiccia del mercato guatemalteco da parte dei prodotti nordamericani, compresi quei beni alimentari (mais, riso, fagioli, uova, ecc.) che costituivano la prima voce di produzione interna e di esportazione. Ciò aveva accelerato la crisi economica e sociale delle campagne, generando una forte pressione migratoria delle popolazioni, interna ed esterna.

Gli accordi di “libero commercio” sono stati definiti dai mass media come “storici” ed “essenziali” per “promuovere lo sviluppo del continente”. Un’ampia bibliografia ha già dimostrato come proprio le politiche liberiste abbiano contribuito ad allargare i divari tra “paesi sviluppati” e “paesi sottosviluppati”; poco si è scritto invece per svelare cosa si nasconda dietro la facciata del “libero mercato”. L’accesso dei prodotti ai mercati non è determinato infatti solo dalle barriere tariffarie, ma vi concorrono interventi governativi, regole, norme, ecc. che nei paesi possono ostacolare e persino impedire l’importazione e/o l’esportazione di certi prodotti. Come sottolineato dalla studiosa di economia Chiara Vighi - autrice di una ricerca su “Le conseguenze del TLC in Guatemala” pubblicata nell’ambito del Progetto CISS-CEDEPEM “Desarrollo en la Diversidad” finanziato dall’Unione europea nel dipartimento di Quetzaltenango, Guatemala - “un’analisi delle strutture tariffarie esistenti prima dell’entrata in vigore del Trattato dimostra che (…) le tariffe applicate dagli Stati Uniti salvo per alcuni casi specifici, non hanno costituito un ostacolo fondamentale per l’accesso dei prodotti dell’economia guatemalteca.

Una delle limitazioni più grandi è stata costituita invece dalle barriere non tariffarie e dalle misure di sostegno interno vigenti negli Stati Uniti”. Tra le “barriere non tariffarie” l’autrice segnala in particolare le misure sanitarie e fitosanitarie (le quali hanno limitato pesantemente l’ingresso di carne, frutta e verdure); tra le “misure di sostegno interno” si annoverano principalmente i sussidi all’esportazione assegnati ai produttori dal governo di Washington ed i cosiddetti “programmi di aiuto alimentare”.

Ebbene, sono stati proprio questi sussidi e queste barriere ad impedire la crescita delle esportazioni dei prodotti centroamericani. “L’evoluzione del commercio con gli Stati Uniti – aggiunge Chiara Vighi – che pure si sarebbe dovuto beneficiare del regime preferenziale accordato dal Sistema Generalizzato delle Preferenze (SGP) e dall’Iniziativa della Conca dei Caraibi (ICC), non è stata in grado di contrastare il ritardo delle trasformazioni economiche nei settori tradizionali”. Oggi la beffa più grande sta nel fatto che Washington è riuscita ad imporre l’esclusione dai negoziati del TLC di qualsivoglia regolamentazione delle barriere interne “non tariffarie” e delle “misure di sostegno” ai produttori agricoli ed industriali. Con l’entrata in vigore del Trattato di Libero Commercio, i paesi centroamericani dovranno affrontare una competitività ancora più aggressiva da parte degli Stati Uniti, ed i piccoli produttori nazionali resteranno senza alcun sistema di protezione di fronte i megaconcorrenti del Nord che specie nel settore tessile ed agricolo continueranno a beneficiare di sussidi miliardari da parte del governo.

Il TLC non potrà che avere gravi implicazioni dal punto di vista sociale, economico ed ambientale per le debolissime economie locali. Le conseguenze più immediate per milioni di cittadini centroamericani saranno certamente la trasformazione strutturale delle produzioni e del commercio; la pressione sulle risorse naturali esistenti e danni irreparabili alla biodiversità; lo sfruttamento di nuove risorse rinnovabili e non rinnovabili; la ridistribuzione delle aree e delle tipologie delle coltivazioni; le repentine trasformazioni sociali e il conseguente peggioramento delle condizioni di vita delle popolazioni delle aree rurali ed in particolare delle regioni a forte maggioranza indigena.

Ci si attenderebbe un qualsivoglia attestato di solidarietà con gli oppositori al TLC Centroamerica-Stati Uniti da parte delle cancellerie dei paesi membri dell’Unione europea. Invece Bruxelles non nasconde la sua ostilità ai fermenti che attraversano la società civile latinoamericana. Non è difficile comprenderne la ragione: l’Unione punta a firmare analoghi accordi di “libero commercio” con i paesi centroamericani nel tentativo di non perdere terreno con le economie concorrenti del Nord America. In gioco ci sono gli interessi delle grandi società europee particolarmente attive nello sfruttamento delle risorse naturali e soprattutto nel processo di privatizzazione delle fonti idriche e dei servizi.

Secondo quanto denunciato da numerose ONG internazionali, la Commissione europea continuerebbe a “far pressione sui paesi in via di sviluppo per ottenere l`apertura dei loro mercati nei servizi idrici, offrendo in cambio maggiori opportunità di esportazione al proprio interno in altri settori”. Una politica neoliberista che deve essere osteggiata, pena la fine delle utopie di una Europa dei Popoli e della Cooperazione.

Articolo pubblicato in  Bollettino CISS -Palermo, febbraio-marzo 2005

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