Deportazioni dei pirati. Tramonta l’ultimo barlume di civiltà UE
Chi non riteneva che l’Unione europea potesse fare di peggio di quanto fatto con le recenti misure anti-immigrazione, dovrà ricredersi. Con le deportazioni in Kenya di decine di marinai somali sospettati di atti di pirateria, tramonta infatti ogni barlume di civiltà giuridica e si lascia presagire chissà ancora quali altre barbarie. Ad aprire la strada alle detenzioni “provvisorie” in navi da guerra trasformate in carceri galleggianti ci avevano pensato gli Stati Uniti d’America.
Sempre gli USA avevano individuato la possibilità di deresponsabilizzarsi da istruttorie penali e processi, consegnando al Kenya i “pirati” catturati nel Golfo di Aden, affinché fossero le autorità locali ad emettere sentenze e far scontare condanne. Le deportazioni dell’US Navy hanno però cercato legittimazione in un accordo bilaterale con il governo del paese africano. L’Unione europea ha scelto invece la scorciatoia del carteggio segreto: secondo Bruxelles, per disfarsi dei prigionieri e farli marcire in presidi simili a gironi infernali, bastano un paio di missive dirette ad uno dei governi che eccelle per corruzione e violazione dei diritti umani.
Il 6 marzo 2009, il rappresentante della Commissione europea scrive al governo di Nairobi: “Con riferimento alla mia lettera datata 14 novembre 2008 e alla Sua lettera datata 5 dicembre 2008, mi pregio di confermare l’intenzione dell’UE di concludere con il governo del Kenya uno scambio di lettere allo scopo di definire condizioni e modalità del trasferimento delle persone sospettate di aver commesso atti di pirateria in alto mare fermate dalla forza navale diretta dall’Unione europea (EUNAVFOR), e del loro trattamento dopo tale trasferimento”.
Assicurando che saranno consegnati pure i “beni sequestrati” dalla flotta di guerra, Bruxelles chiede che il Kenya sottoponga i prigionieri “alle proprie autorità competenti ai fini delle indagini e dell’azione giudiziaria”. Le persone trasferite - si annuncia - “saranno trattate in modo umano ed in conformità agli obblighi internazionali in materia di diritti umani, incluso il divieto della tortura o di qualsiasi altro trattamento o pena crudele, disumana o degradante e il divieto della detenzione arbitraria ed in conformità al requisito del diritto a un processo equo”. Omesso il modo e chi lo potrà verificare, ma non importa, basta la fiducia tra le parti.
Vengono poi elencate le “garanzie minime” a cui il deportato avrà diritto: l’essere informato “nel più breve tempo possibile e in una lingua ad esso comprensibile” (niente tempi certi dunque, né uso della lingua madre), della natura dell’accusa formulata; non essere trasferito in un paese terzo “senza un consenso scritto preliminare dell’EUNAVFOR”; la documentazione, “per quanto possibile”, della detenzione applicata, delle condizioni fisiche, dei trasferimenti effettuati, ecc... Il Kenya dovrà notificare al comando della flotta militare europea (che sarà l’unico ente che avrà accesso alle informazioni sui procedimenti), il luogo di detenzione dei prigionieri, il deterioramento della loro condizione fisica e - come si legge testualmente - “le indicazioni di presunto trattamento indebito”.
Nel dubbio per la reale disponibilità delle autorità keniane ad autodenunciarsi per violazione dei diritti umani, i rappresentanti dell’UE si riservano il diritto di accedere ai luoghi dove verranno imprigionati i “pirati”. Come e quando glielo consentiranno le autorità keniane, sarà poi tutto da vedere. Ma Bruxelles sembra voler eccedere in buona fede. Delibera infatti, in nome del partner africano, che “nessuna persona trasferita potrà essere condannata alla pena di morte”. Se è pur vero che il Kenya, da qualche tempo, non applica la pena capitale, essa non è mai stata formalmente abrogata e quando nell’agosto del 2007 fu presentata una mozione per l’abolizione, il Congresso la respinse a grande maggioranza. È stata poi tanta la fretta di fare entrare in vigore le disposizioni anti-pirati (il 6 marzo), che UE e Nairobi hanno deciso di rinviare ad un futuro incerto la regolazione di eventuali “disposizioni di attuazione” dell’accordo postale. Elementi tutt’altro che secondari, relativi ad esempio all’“individuazione delle competenti autorità keniane a cui l’EUNAVFOR può trasferire le persone” o alla identificazione dei luoghi di detenzione.
Memoria corta, anzi cortissima, quella dell’establishment politico del vecchio continente. Il capo che governa il paese a cui si affidano i propri prigionieri di guerra è stato eletto dopo una delle più cruente campagne elettorali della sua storia. Come ricorda un recentissimo rapporto di Amnesty International, la vigilia del voto del 27 dicembre 2007 e i mesi successivi all’ufficializzazione dei risultati, sono stati caratterizzati da inauditi episodi di violenza, con quasi 500 morti, proprietà bruciate e decine di migliaia di persone sfollate dalle città di Eldoret, Kericho e Kisumu.
L’Unione europea ha seguito con insolita attenzione la campagna di terrore. Nel gennaio 2008, fu approvata una risoluzione presentata al Parlamento di Strasburgo da Valdis Dombrovskis Colm Burke, Maria Martens, Filip Kaczmarek e Horst Posdorf. Nel condannare “la violenza politica e la conseguente crisi umanitaria” in Kenya, la mozione affermava che le elezioni presidenziali “non hanno rispettato le basilari norme internazionali e regionali per elezioni democratiche” e che la fase di scrutinio “mancava di credibilità”. Deplorando poi il comportamento omissivo delle autorità di governo, il Parlamento chiedeva al presidente Mwai Kibaki di “acconsentire a una verifica indipendente del voto”, ed eventualmente indire nuove elezioni. Nulla di ciò è stato fatto.
Le autorità di Nairobi hanno scelto di fare orecchie da mercante alle innumerevoli denunce per violazione dei diritti umani, presentate dalle maggiori organizzazioni internazionali. Amnesty International ricorda che nel paese africano sono purtroppo ricorrenti gli abusi della polizia, le limitazioni della libertà politica dei cittadini, la mancata accoglienza di profughi e sfollati (in buona parte somali), e la violenza verso le donne. “La polizia keniota è stata più volte accusata di violare i diritti umani dei cittadini applicando la tortura e l’omicidio non giustificato”, scrive AI. “La polizia è stata accusata di sparare ai sospetti criminali in situazioni in cui era possibile l’arresto. Su questi abusi non sono state aperte indagini e non sono state chieste spiegazioni ai responsabili del corpo della polizia”.
Gran parte delle violenze sono avvenute durante le operazioni di repressione delle proteste post-elettorali, ma altre sono legate alla campagna militare lanciata nel giugno 2008 contro il movimento autonomo dei “Mungiki” (“moltitudine” in lingua kikuyu). Secondo fonti indipendenti, la polizia ha assassinato 73 presunti sostenitori dei Mungiki, mentre gli arresti sarebbero stati quasi 2.500. Altrettanto sanguinoso l’intervento delle forze militari e di polizia nei confronti del “Sabaot Land Defence Force (SLDF)”, un gruppo guerrigliero attivo nell’area del Mount Elgon. Le organizzazioni umanitarie internazionali e la Chiesa cattolica hanno denunciato numerosi casi di tortura e di uccisioni extragiudiziarie di prigionieri dell’SLDF.
Arresti, detenzioni, maltrattamenti e trasferimenti forzati sono stati eseguiti “in assenza di accuse specifiche e accompagnati dalla violazione di diritti civili”, in applicazione delle leggi speciali concepite dal governo keniano per la cosiddetta “guerra al terrorismo”. Ancora Amnesty International ricorda che nel solo periodo compreso tra il gennaio e il febbraio 2007, almeno 85 detenuti sono stati trasferiti illegalmente “dalla Somalia e poi verso l’Etiopia, assieme ad altre persone detenute dalle truppe etiopi in Somalia”.
Nel febbraio 2008, AI ha lanciato un’azione urgente per chiedere alle autorità locali di proteggere nove difensori dei diritti umani keniani (sei uomini e due donne), che avevano ricevuto minacce di morte. Un anno più tardi, esattamente il 5 marzo 2009, a Nairobi sono stati assassinati due di questi attivisti. Uno di essi era Oscar Kamau King’ara, fondatore e direttore esecutivo della Oscar Foundation, organizzazione per i diritti civili che aveva denunciato gli abusi della polizia nelle operazioni contro i Mungiki, incluse centinaia di esecuzioni extragiudiziali nella capitale e in altre località del Kenya. Alcune ore prima dell’omicidio, il portavoce del governo, Alfred Mutua, aveva accusato la Oscar Foundation di “ambigue connessioni finanziarie” con i Mungiki. L’ong aveva pure accusato le forze dell’ordine dell’esecuzione extragiudiziale di 1.721 giovani e della scomparsa di altri 6.542.
Sembra paradossale, ma i “cugini” della NATO hanno mostrato qualche scrupolo in più dell’UE in tema di trattamento dei “pirati” catturati nelle acque del Corno d’Africa. Nel corso di un incontro con gli ambasciatori presso l’Alleanza Atlantica, il portavoce della struttura militare, il neo Segretario Generale, Anders Fogh Rasmussen si è lamentato per la carenza di norme certe in materia. “Non c’è una legislazione internazionale uniformemente applicabile ed alcuni Paesi proprio non hanno norme contro la pirateria”, ha dichiarato Rasmussen. “Ci si arrangia applicando la legislazione della nave sulla quale i pirati sono stati trovati, ma spesso questo non basta. Per affrontare questa vicenda sarebbe interessante valutare la proposta di un tribunale dell’Onu per giudicare questi crimini”.
Sulle cause socio-economiche e le responsabilità internazionali che spingono centinaia di giovani africani a rischiare la vita nel tentativo di sequestro di una nave mercantile, il silenzio di ONU, UE e NATO è invece unanime.
Articolo pubblicato in Agoravox.it il 24 aprile 2009
Sempre gli USA avevano individuato la possibilità di deresponsabilizzarsi da istruttorie penali e processi, consegnando al Kenya i “pirati” catturati nel Golfo di Aden, affinché fossero le autorità locali ad emettere sentenze e far scontare condanne. Le deportazioni dell’US Navy hanno però cercato legittimazione in un accordo bilaterale con il governo del paese africano. L’Unione europea ha scelto invece la scorciatoia del carteggio segreto: secondo Bruxelles, per disfarsi dei prigionieri e farli marcire in presidi simili a gironi infernali, bastano un paio di missive dirette ad uno dei governi che eccelle per corruzione e violazione dei diritti umani.
Il 6 marzo 2009, il rappresentante della Commissione europea scrive al governo di Nairobi: “Con riferimento alla mia lettera datata 14 novembre 2008 e alla Sua lettera datata 5 dicembre 2008, mi pregio di confermare l’intenzione dell’UE di concludere con il governo del Kenya uno scambio di lettere allo scopo di definire condizioni e modalità del trasferimento delle persone sospettate di aver commesso atti di pirateria in alto mare fermate dalla forza navale diretta dall’Unione europea (EUNAVFOR), e del loro trattamento dopo tale trasferimento”.
Assicurando che saranno consegnati pure i “beni sequestrati” dalla flotta di guerra, Bruxelles chiede che il Kenya sottoponga i prigionieri “alle proprie autorità competenti ai fini delle indagini e dell’azione giudiziaria”. Le persone trasferite - si annuncia - “saranno trattate in modo umano ed in conformità agli obblighi internazionali in materia di diritti umani, incluso il divieto della tortura o di qualsiasi altro trattamento o pena crudele, disumana o degradante e il divieto della detenzione arbitraria ed in conformità al requisito del diritto a un processo equo”. Omesso il modo e chi lo potrà verificare, ma non importa, basta la fiducia tra le parti.
Vengono poi elencate le “garanzie minime” a cui il deportato avrà diritto: l’essere informato “nel più breve tempo possibile e in una lingua ad esso comprensibile” (niente tempi certi dunque, né uso della lingua madre), della natura dell’accusa formulata; non essere trasferito in un paese terzo “senza un consenso scritto preliminare dell’EUNAVFOR”; la documentazione, “per quanto possibile”, della detenzione applicata, delle condizioni fisiche, dei trasferimenti effettuati, ecc... Il Kenya dovrà notificare al comando della flotta militare europea (che sarà l’unico ente che avrà accesso alle informazioni sui procedimenti), il luogo di detenzione dei prigionieri, il deterioramento della loro condizione fisica e - come si legge testualmente - “le indicazioni di presunto trattamento indebito”.
Nel dubbio per la reale disponibilità delle autorità keniane ad autodenunciarsi per violazione dei diritti umani, i rappresentanti dell’UE si riservano il diritto di accedere ai luoghi dove verranno imprigionati i “pirati”. Come e quando glielo consentiranno le autorità keniane, sarà poi tutto da vedere. Ma Bruxelles sembra voler eccedere in buona fede. Delibera infatti, in nome del partner africano, che “nessuna persona trasferita potrà essere condannata alla pena di morte”. Se è pur vero che il Kenya, da qualche tempo, non applica la pena capitale, essa non è mai stata formalmente abrogata e quando nell’agosto del 2007 fu presentata una mozione per l’abolizione, il Congresso la respinse a grande maggioranza. È stata poi tanta la fretta di fare entrare in vigore le disposizioni anti-pirati (il 6 marzo), che UE e Nairobi hanno deciso di rinviare ad un futuro incerto la regolazione di eventuali “disposizioni di attuazione” dell’accordo postale. Elementi tutt’altro che secondari, relativi ad esempio all’“individuazione delle competenti autorità keniane a cui l’EUNAVFOR può trasferire le persone” o alla identificazione dei luoghi di detenzione.
Memoria corta, anzi cortissima, quella dell’establishment politico del vecchio continente. Il capo che governa il paese a cui si affidano i propri prigionieri di guerra è stato eletto dopo una delle più cruente campagne elettorali della sua storia. Come ricorda un recentissimo rapporto di Amnesty International, la vigilia del voto del 27 dicembre 2007 e i mesi successivi all’ufficializzazione dei risultati, sono stati caratterizzati da inauditi episodi di violenza, con quasi 500 morti, proprietà bruciate e decine di migliaia di persone sfollate dalle città di Eldoret, Kericho e Kisumu.
L’Unione europea ha seguito con insolita attenzione la campagna di terrore. Nel gennaio 2008, fu approvata una risoluzione presentata al Parlamento di Strasburgo da Valdis Dombrovskis Colm Burke, Maria Martens, Filip Kaczmarek e Horst Posdorf. Nel condannare “la violenza politica e la conseguente crisi umanitaria” in Kenya, la mozione affermava che le elezioni presidenziali “non hanno rispettato le basilari norme internazionali e regionali per elezioni democratiche” e che la fase di scrutinio “mancava di credibilità”. Deplorando poi il comportamento omissivo delle autorità di governo, il Parlamento chiedeva al presidente Mwai Kibaki di “acconsentire a una verifica indipendente del voto”, ed eventualmente indire nuove elezioni. Nulla di ciò è stato fatto.
Le autorità di Nairobi hanno scelto di fare orecchie da mercante alle innumerevoli denunce per violazione dei diritti umani, presentate dalle maggiori organizzazioni internazionali. Amnesty International ricorda che nel paese africano sono purtroppo ricorrenti gli abusi della polizia, le limitazioni della libertà politica dei cittadini, la mancata accoglienza di profughi e sfollati (in buona parte somali), e la violenza verso le donne. “La polizia keniota è stata più volte accusata di violare i diritti umani dei cittadini applicando la tortura e l’omicidio non giustificato”, scrive AI. “La polizia è stata accusata di sparare ai sospetti criminali in situazioni in cui era possibile l’arresto. Su questi abusi non sono state aperte indagini e non sono state chieste spiegazioni ai responsabili del corpo della polizia”.
Gran parte delle violenze sono avvenute durante le operazioni di repressione delle proteste post-elettorali, ma altre sono legate alla campagna militare lanciata nel giugno 2008 contro il movimento autonomo dei “Mungiki” (“moltitudine” in lingua kikuyu). Secondo fonti indipendenti, la polizia ha assassinato 73 presunti sostenitori dei Mungiki, mentre gli arresti sarebbero stati quasi 2.500. Altrettanto sanguinoso l’intervento delle forze militari e di polizia nei confronti del “Sabaot Land Defence Force (SLDF)”, un gruppo guerrigliero attivo nell’area del Mount Elgon. Le organizzazioni umanitarie internazionali e la Chiesa cattolica hanno denunciato numerosi casi di tortura e di uccisioni extragiudiziarie di prigionieri dell’SLDF.
Arresti, detenzioni, maltrattamenti e trasferimenti forzati sono stati eseguiti “in assenza di accuse specifiche e accompagnati dalla violazione di diritti civili”, in applicazione delle leggi speciali concepite dal governo keniano per la cosiddetta “guerra al terrorismo”. Ancora Amnesty International ricorda che nel solo periodo compreso tra il gennaio e il febbraio 2007, almeno 85 detenuti sono stati trasferiti illegalmente “dalla Somalia e poi verso l’Etiopia, assieme ad altre persone detenute dalle truppe etiopi in Somalia”.
Nel febbraio 2008, AI ha lanciato un’azione urgente per chiedere alle autorità locali di proteggere nove difensori dei diritti umani keniani (sei uomini e due donne), che avevano ricevuto minacce di morte. Un anno più tardi, esattamente il 5 marzo 2009, a Nairobi sono stati assassinati due di questi attivisti. Uno di essi era Oscar Kamau King’ara, fondatore e direttore esecutivo della Oscar Foundation, organizzazione per i diritti civili che aveva denunciato gli abusi della polizia nelle operazioni contro i Mungiki, incluse centinaia di esecuzioni extragiudiziali nella capitale e in altre località del Kenya. Alcune ore prima dell’omicidio, il portavoce del governo, Alfred Mutua, aveva accusato la Oscar Foundation di “ambigue connessioni finanziarie” con i Mungiki. L’ong aveva pure accusato le forze dell’ordine dell’esecuzione extragiudiziale di 1.721 giovani e della scomparsa di altri 6.542.
Sembra paradossale, ma i “cugini” della NATO hanno mostrato qualche scrupolo in più dell’UE in tema di trattamento dei “pirati” catturati nelle acque del Corno d’Africa. Nel corso di un incontro con gli ambasciatori presso l’Alleanza Atlantica, il portavoce della struttura militare, il neo Segretario Generale, Anders Fogh Rasmussen si è lamentato per la carenza di norme certe in materia. “Non c’è una legislazione internazionale uniformemente applicabile ed alcuni Paesi proprio non hanno norme contro la pirateria”, ha dichiarato Rasmussen. “Ci si arrangia applicando la legislazione della nave sulla quale i pirati sono stati trovati, ma spesso questo non basta. Per affrontare questa vicenda sarebbe interessante valutare la proposta di un tribunale dell’Onu per giudicare questi crimini”.
Sulle cause socio-economiche e le responsabilità internazionali che spingono centinaia di giovani africani a rischiare la vita nel tentativo di sequestro di una nave mercantile, il silenzio di ONU, UE e NATO è invece unanime.
Articolo pubblicato in Agoravox.it il 24 aprile 2009
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