Le mani nel pallone. Calcio e mafia a Messina

Storia recente del vecchio Messina calcio. Affari sporchi, criminalità organizzata, presidenti discutibili. E, sullo sfondo, le estorsioni, il controllo degli appalti ed una città indifferente e senza memoria.
Sui commercianti piovono bombe

Il nome di Lorenzino Ingemi fa la sua apparizione in modo eclatante nelle cronache giudiziarie dei primi anni Settanta, legato ad alcuni attentati dinamitardi da addebitarsi al racket delle estorsioni e del gioco d’azzardo. La prima volta è subito dopo l’attentato dinamitardo al Motel Faro dell’allora assessore Valore: Ingemi è uno dei principali indiziati, ma l’accusa cade in sede processuale per insufficienza di prove. Il 18 maggio del 1972, Ingemi viene comunque diffidato dall’autorità di Pubblica Sicurezza; a seguito della successiva proposta del 28-3-73, viene poi sottoposto alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale di P.S., con obbligo di soggiorno nel Comune di Guidonia (Roma).

Il 20 giugno del 1972 esplode una bomba in via U. Bassi, davanti al Circolo “Ariston”; è uno degli attentati più gravi dell’epoca, sicuramente riconducibile alla lotta tra i gruppi che gestiscono in città le bische clandestine. Due dei presenti al circolo vengono feriti gravemente. Il 31 maggio del '73 vengono arrestati con l’accusa di concorso in strage, porto e detenzione di materiale esplosivo Lorenzino Ingemi e colui che viene ritenuto il “suo braccio destro”, Francesco Molonia inteso “Francu ‘u Puddicinu”. Secondo gli inquirenti il “gruppo facente capo ad Ingemi” avrebbe gestito la bisca interna al “Gabinetto di lettura”, contrapponendosi alla banda diretta da Benito Taglieri, “protettore” del Circolo Ariston, poi arrestato nell'82 per un traffico di eroina tra la Siria e Milano. Precedentemente all’attentato si erano verificati alcuni gravi episodi al Gabinetto di lettura: l'intrusione non gradita di un gruppo guidato dal Taglieri, che avrebbe preteso di giocare ai tavoli senza saldare i debiti contratti, e una misteriosa aggressione ai danni della convivente di Domenico Gatto “uno degli organizzatori del Gabinetto di Lettura”, successivamente indiziato come “mandante degli attentatori” (La Tribuna del Mezzogiorno 1-6-73). Al processo tenutosi nel maggio ‘75, depone il boss Nicola Mazza: “Ingemi si sarebbe vantato di aver messo lui l’ordigno esplosivo al circolo Ariston”. I giudici non gli credono e assolvono Lorenzino Ingemi con formula dubitativa (Gazzetta del Sud 8-5-75).

Il 16 luglio del 1973, Ingemi veniva nuovamente denunciato per tentata estorsione, in concorso con Gaetano Costa, Alessandro De Tullio e Nicola Mazza. Il processo tenutosi a Messina nel febbraio 1977 li assolverà con formula dubitativa. Costa volerà al vertice dell’organizzazione mafiosa messinese affiliandosi alla ‘ndrangheta, mentre il Mazza resterà ucciso nell'ottobre del '79 in un agguato davanti al circolo “Andrea Costa” di Gazzi.

Quindici giorni prima dell’arresto di Ingemi per l’esplosione al circolo Ariston (maggio '73), l’imprenditore palermitano Nicola Ancione, titolare di un'impresa che esegue lavori in un tratto autostradale della Messina-Patti subisce un grave attentato intimidatorio: la sua auto viene fatta esplodere con alcuni candelotti di gelignite, materiale esplosivo particolarmente utilizzato in quegli anni da parte dei gruppi dell’estrema destra operanti all'interno dell'Università di Messina. Ancione fa verbalizzare che alla vigilia dell’attentato il suo cantiere era stato “visitato” da alcuni malavitosi che gli avevano chiesto il pagamento del “pizzo” (Gazzetta del Sud 27-6-73). A fine agosto del 74 vengono arrestati come presunti responsabili Lorenzino Ingemi, Domenico Barrese (vecchio “uomo di rispetto” di Giostra, già condannato per il tentato omicidio di Diego Bongiorno nel 1960) e Felice Bilardo. Anche stavolta l'accusa contro Ingemi cadrà per insufficienza di prove.

Di Lorenzino Ingemi si torna a parlare nel gennaio ‘79, subito dopo l’agguato a Tanino Milano, noto pluripregiudicato messinese, già appartenente al gruppo specializzato in furti di Nicola Mazza. Vengono arrestati immediatamente quali presunti esecutori Vincenzo Bitto “figura non secondaria interna della malavita locale” (successivamente condannato al maxiprocesso del 1987 contro le cosche mafiose del messinese) e Gioacchino Nunnari (recentemente arrestato per l’omicidio del metronotte Sofia durante una rapina del 1990 sull'Autostrada Me-Pa eseguita da una banda di “Cursoti” di Catania). Ingemi viene invece arrestato con l’accusa di aver decretato la condanna a morte per vendicarsi di uno sgarbo subito. Qualche giorno dopo l’agguato viene arrestato anche Giuseppe Leuzzi, pregiudicato ritenuto vicino a Gaetano Costa, già implicato nell’omicidio del magliaro Giuseppe Romano il 15-8-1978. Ad accusare Ingemi e Leuzzi lo stesso Tanino Milano: “li ho bastonati in carcere”. Da sottolineare la definizione che il cronista Stelio Vitale Modica fa dell’Ingemi: “un grosso personaggio della malavita messinese. Arrestato più volte, era ritenuto una sorta di ‘padrino’ dagli uomini della Mobile. Capace cioè di imporre all’ambiente una sua scelta. Ha sempre fatto il commerciante ortofrutticolo lavorando in un box del mercato di via Consolare Valeria a Contesse. Un uomo certamente irrequieto. Implicato il alcuni clamorosi casi di tentata estorsione. Assolto. Da qualche anno, comunque, da quando cioè era riuscito a venir fuori dall'ultimo imbroglio giudiziario, non faceva più parlare di sé. Pareva si fosse completamente ritirato dal malaffare e che pensasse solo a crescersi i figli” (Gazzetta del Sud 15-1-79). Per l’ennesima volta il giudice istruttore proscioglierà per insufficienza di prove (aprile del ‘79) i presunti mandanti Ingemi e Leuzzi, rinviando a giudizio solo Nunnari e Bitto.

Appena un mese dopo il proscioglimento, il 14 maggio ‘79 Ingemi subisce un processo per favoreggiamento nei confronti di un gruppo di estortori. I giudici (Presidente Cucchiara) derubricano il reato in falsa testimonianza, dichiarando di conseguenza l’estinzione del reato per amnistia. I fatti risalivano al settembre del 1972 quando il commerciante Letterio Briguglio fu oggetto di un tentativo estortivo con relativo attentato dinamitardo. In seguito il Briguglio prendeva contatto con l’Ingemi, “ritenendo che egli potesse in qualche modo dissuadere gli estortori”. L’interessato, dopo un incontro con gli estortori assicurò al Briguglio di aver sistemato ogni cosa. Scattata l’inchiesta, l’Ingemi viene interrogato dagli inquirenti ma si rifiuta di rivelare i nomi degli estortori: “Sono stato vivamente pregato e pressato per intervenire: ma ho avuto solo danno”. (Gazzetta del Sud 15-5-79).

C’è chi parla di un “clan Ingemi”

Trascorre un anno e l'11 giugno 1980 Ingemi è vittima di un agguato mentre si trova all’interno del mercato ortofrutticolo. Ignoti killer gli sparano ma Lorenzino ne esce illeso. Gli inquirenti sostengono che l’Ingemi potrebbe aver riconosciuto gli attentatori e lo denunciano per favoreggiamento; il proscioglimento di rito avverrà nella primavera dell’82. Quattordici giorni più tardi del misterioso attentato, i Carabinieri lo controllano “mentre si trovava con Marotta Antonino, Marotta Giovanni e Garalli Giuseppe”.
Sempre nel giugno dell’81 la polizia sequestra nei pressi della sua abitazione una pistola preventivamente abbandonata. Gli inquirenti ne accertano la provenienza e Ingemi viene condannato per “detenzione illegale di pistola”, in concorso con Alessandro De Tullio (pregiudicato sospettato di legami con la 'ndrangheta) e l’avvocato catanese Salvatore Di Mauro. Per il “commerciante” dell’Ortofrutticolo è la seconda condanna: nel giugno del '74 Ingemi era stato processato per un reato analogo, e la condanna era ormai passata in giudicato. Ad Ingemi dispiace il tono dell’articolo di cronaca che racconta l'episodio e in una lettera alla Gazzetta del Sud pubblicata l’8-7-81, lamenta di essere stato definito un “pregiudicato”, si dichiara del tutto innocente e definisce il porto d’arma “un reato non infamante”.

Trascorre un mese dalla lettera al quotidiano locale e Ingemi viene arrestato con l’accusa di associazione per delinquere, nell’ambito della nota “operazione dei 69” scaturita da una denuncia dei Carabinieri contro “due associazioni delinquenziali dedite ad estorsioni, rapine e controllo di bische clandestine, capeggiate la prima da Gaetano Costa e da Domenico Di Blasi e la seconda da Placido Cariolo e da Letterio Rizzo” (agosto 1981). Ingemi, accusato di “far parte” della famiglia Costa, viene tuttavia scarcerato per “non aver commesso il fatto”.

L’intensificarsi in città delle estorsioni con tanto di attentati dinamitardi contro i commercianti spinge la Procura della Repubblica ad emettere il 12-10-1982 alcuni ordini di cattura, quali provvedimenti precauzionali in attesa di destinazione al soggiorno obbligato contro 9 persone, “ritenute pericolose e sospettate di vivere dei proventi di crimini (dato il tenore di vita che conducono e la lussuosità delle auto sulle quali viaggiano, pur non godendo di entrate note da lavoro o da attività imprenditoriali lecite)”. Tra di essi Lorenzino Ingemi, Placido Cambria, Gioacchino Nunnari, Alessandro Cutè. Ingemi verrà colpito dal divieto di soggiorno in Sicilia e Calabria, ma goderà del diritto di risiedere a Messina “per motivi di salute” (Gazzetta del Sud 13-10-82).

Il 7 dicembre 1983 Lorenzo Ingemi, Antonino Costa, Placido Cambria e Antonino Licciardello vengono arrestati con l'accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso ed estorsione ai danni di alcuni commercianti cittadini. Per la prima volta viene applicato a Messina l’art. 416 bis. Ingemi viene ritenuto dai Carabinieri “uno dei maggiori esponenti della malavita locale e capo cordata del racket delle estorsioni” (Gazzetta del Sud 8-12-83). Il processo si tiene a partire dal 24 gennaio 1985. Il cronista annota che tra i testimoni è stato chiamato “Michelangelo Alfano, l’ex presidente del Messina, ricercato in seguito ad un mandato di cattura emesso dal giudice istruttore di Palermo e legato all’Ingemi per avergli affidato, allorché presiedeva l'Acr Messina, la gestione delle maschere all’ingresso del campo Celeste”. È la prima volta che i nomi di Alfano e di Ingemi s’intrecciano in un’aula giudiziaria. Pm al processo l’attuale sindaco di Messina Franco Providenti. Scrive ancora il cronista: “Ingemi. Gessato blu, grandi occhiali, vistoso anello alla mano destra; è considerato la mente di questa presunta organizzazione (...). Ad un certo punto ha dovuto sedersi: è molto dimagrito e da quando è detenuto ha subito due operazioni per l’innesto di by pass nell’intestino”. Nel corso dell’interrogatorio emerge il ruolo di Ingemi come “portacambiali” da scontare utilizzando i favori dei commercianti estorti. Nello sfondo fa l’apparizione anche il “genero” inviato dal mobiliere Lupattelli per “cambiare un assegno”. Lorenzino Ingemi non muta l’atteggiamento difensivo di fronte ai giudici, autodefinendosi “vittima” della sua disponibilità con gli “amici”. “Quando gli portavo delle cambiali da scontare” risponde al Presidente del Tribunale Piccolo “era lui che ci guadagnava perché mi corrispondeva una somma sempre nettamente inferiore all’importo dei titoli. Una volta per esempio gliene diedi una da 25 milioni e in cambio ne ricevetti 12-13”. “Ma perché non andava in banca?”, gli chiede il Presidente. E Ingemi: “Per cortesia, per reciproca cortesia”. Diversa la versione della “vittima”, il titolare del mobilificio Lupattelli: “Mi propose di recuperare crediti inesigibili in cambio di un fitto mensile, ma io rifiutai”. Il primo febbraio 1985 la sentenza: 7 anni e mezzo per Ingemi, 4 anni per gli altri imputati. La sentenza riconosce per la prima volta che a Messina “agiva una associazione a delinquere di stampo mafioso che si è avvalsa della forza intimidatrice del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e omertà per commettere più estorsioni”. Due anni più tardi la Corte d’Appello ribalta la sentenza: assoluzione per Ingemi e i suoi coimputati.

Il padrino del boss Gaetano Costa

È comunque al famoso maxiprocesso contro le cosche mafiose messinesi (1986-87) che la figura di Ingemi acquisisce notorietà e “prestigio”. Il commerciante infatti vi giunge da imputato quale presunto capo della terza cosca cittadina, un clan composto da 16 componenti.

Il maxi scaturisce innanzitutto dalle dichiarazioni di Giuseppe Insolito, il primo “pentito” di mafia della città, che ai giudici ricostruisce l’organigramma e gli affari illeciti di due grosse organizzazioni criminali, “facenti capo, rispettivamente, a Gaetano Costa e a Placido Cariolo”. La “famiglia” Costa, secondo Insolito, “si avvaleva, talvolta, per il compimento di azioni delittuose di altra piccola organizzazione facente capo ad Ingemi Lorenzo, persona che fino agli inizi degli anni settanta reggeva le fila della delinquenza messinese”. Il gruppo di Ingemi (uomo indicato come “molto vicino” ai Bonaffini, nota famiglia di commercianti di pesce), “agisce a Messina con notevole efficacia, con collegamenti e appoggi nella ‘ndrangheta calabrese e con la mafia catanese”. Insolito poi chiariva la specificità del “clan Ingemi”: “si tratta di una piccola organizzazione, priva di regole e di gerarchia fra gli aderenti”. “Ingemi - continua Insolito - è stato il padrino di Gaetano Costa, quando quest’ultimo non aveva ancora compiuto il salto di qualità che lo portò a costituire una famiglia; è affiliato da parecchio tempo ad una cosca calabrese. In particolare ho sentito da Di Blasi “Occhi i bozza” dei legami fra il clan Ingemi con un boss calabrese, un tale Zito, il quale aveva come luogotenenti i fratelli Di Stefano. La sua organizzazione è nata nei primi degli anni ‘70, quasi contemporaneamente al sorgere in provincia della famiglia di Carmelo Milone. La principale attività è quella delle estorsioni. Tra i fatti commessi vi sono anche grosse truffe ai danni di aziende commerciali ed industriali, tanto di Messina che di altre città vicine. Altro settore, il traffico di moneta falsa: il denaro falso veniva acquistato a Catania o a Milano e quindi veniva smerciato in loco. Il clan dispone anche di armi ed esplosivi; specialisti nella confezione di ordigni sono Angelo Bonaffini e Luigi Caputo (cognato di Enzo Bitto)”.

Sempre per Insolito “Ingemi godeva nell’ambito della malavita messinese, di prestigio ed autorità che poi man mano cominciò a perdere con l’affermarsi di Gaetano Costa”, ed accenna ad “alcuni contrasti” tra Ingemi e lo stesso Costa e “che durarono un anno e mezzo”; per ciò che riguardava le estorsioni Insolito aggiunge che “Ingemi prediligeva il settore dell’edilizia e quello del mercato ortofrutticolo in cui rivestiva un ruolo primario anche perché vi gestiva uno stand per la vendita all’ingrosso”.

Aggiungeva Giuseppe Insolito che il clan Ingemi “faceva da tappa buchi, nel senso che dava una mano alla “famiglia” Costa, dalla quale era autonoma, fornendole, all’occorrenza, uomini e mezzi”. Oltre alle truffe ed alle estorsioni “la piccola organizzazione dell’Ingemi era dedita alle rapine, i cui proventi andavano a favore degli affiliati. Quando si doveva effettuare qualche “colpo grosso” poteva accadere che la “famiglia Costa” associasse all'impresa appartenenti al “clan Ingemi” e viceversa; in tali occasioni, i proventi venivano divisi fra le due associazioni, forse in parti uguali” (Tribunale di Messina, Sentenza nella causa penale a carico di Antonuccio Aldo + 251, 3 aprile 1987).

Insolito descriveva l’organizzazione interna del gruppo: “Pur non avendo una vera struttura gerarchica, il clan ha due vice capi: Peppino Bonaffini, e poi Domenico Di Dio; entrambi sono in grado di prendere decisioni in mancanza o in caso di impedimento di Ingemi. Altri esponenti in vista e sempre in grado di adottare importanti decisioni sono: Benedetto Bonaffini (fratello di Peppino) e Giovanni Calarese (zio di Pippo Leo) ora deceduto. Il gruppo trova anche forza nei saldi vincoli di collaborazione con Carmelo Milone, dal quale riceve appoggi nella zona di Barcellona e Milazzo, e con la mafia palermitana, specialmente per merito dei fratelli Bonaffini che vantano autorevoli amicizie a Palermo e a Trapani” (L’Ora 14-5-86)

Parlano i pentiti del maxi

Nelle sue dichiarazioni, Insolito si sofferma altre volte sulla figura di Lorenzino Ingemi. Facendo riferimento alla lotta apertasi a Messina tra i clan guidati da Costa e da Cariolo, il pentito specifica che “in quel periodo si cercò di stringere di più i legami con i catanesi, i quali più volte offrirono il loro appoggio materiale alla nostra famiglia (...). Ricordo che nel febbraio 1981 furono arrestati a Messina, nei pressi del tribunale, Di Tullio, Lorenzino Ingemi ed un avvocato catanese a nome Di Mauro, che furono trovati in possesso di un'arma. Va precisato che l'avvocato Di Mauro è il fratello o il fratellastro del pregiudicato Paolo Di Mauro, entrambi legati saldamente prima al clan dei Ferlito e successivamente, all’epoca dei fatti di cui ci occupiamo, passati al clan dei Santapaola che allora erano nostri alleati” (L’Ora 15-4-86).

Infine, nell’elencare le attività criminali dei clan messinesi, Insolito si sofferma sul riciclaggio della moneta sporca, “sporadicamente praticato nell’ambito della collaborazione con le cosche calabresi e napoletane”. “Denaro siffatto - aggiunge Insolito - viene opportunamente riciclato utilizzando le sale da gioco clandestine. Mi risulta che a Messina si è occupato di riciclaggio di moneta sporca anche Lorenzino Ingemi e Melchiorre Cagarella” (L’Ora 28-4-86).

Durante il maxiprocesso, altri pentiti parlano di Lorenzino Ingemi. Patrizio Insollitto, fratello di Giuseppe Insolito, accennava “all’esistenza nel messinese, di quattro organizzazioni criminali facenti capo, rispettivamente a Costa Gaetano, Cariolo Placido, Ingemi Lorenzo e Milone Carmelo”. Giuseppe Scriva, che aveva raggiunto il massimo grado all’interno della ‘ndrangheta calabrese, specificava che “nel 1970-72 esisteva a Messina, una organizzazione delinquenziale di modesta entità che agiva quale promanazione della ‘ndrangheta calabrese e di cui l’esponente più in vista era Ingemi Lorenzino; di tale organizzazione la ‘ndrangheta si serviva per ottenere aiuto in favore dei propri latitanti, segnalazione di notizie utili e manodopera per alcuni fatti criminosi, dando alla stessa, in cambio, prestigio, armi e denaro”. Secondo Scriva, solo successivamente era emerso a Messina un nuovo gruppo criminoso, quello capeggiato da Costa e Di Blasi, “pure intimamente legato alla ‘ndrangheta”.

Ancora più inquietanti le dichiarazioni dell'imputato, poi pentito, Rosario Iannelli, cognato del boss di Mangialupi Salvatore Surace. Dopo aver fatto menzione al gruppo criminoso di Lorenzino Ingemi, “dedito principalmente alle estorsioni”, Iannelli riferiva sull’oscuro attentato dinamitardo verificatosi ai danni della “Gazzetta del Sud” nei primi anni ‘80: “Ho appreso da un giovane a nome Maurizio Romeo, che abita nelle casette di via Taormina, che aveva saputo nell’ambiente della malavita che i mandanti dell'attentato sono stati Antonino Romano e Lorenzino Ingemi, per uno sgarro che il direttore della “Gazzetta del Sud” aveva fatto al Romano, e forse anche all’Ingemi. (...). A maggiore precisazione, dichiaro che Maurizio Romeo è il fratello di Antonino Romeo, già condannato per l’omicidio di un sindacalista e detenuto nelle carceri di Messina” (L’Ora 22-5-86).

Nel descrivere gli affiliati al clan Costa, Iannelli aggiungeva: “In base alle notizie assunte in carcere e dall’atteggiamento che ho potuto constatare da parte dei detenuti del gruppo cellulare, ritengo che Lorenzino Ingemi, Antonino Romano, Antonino Licciardello e Antonino Ingemi siano legati alla “famiglia” Costa, e che anzi Lorenzino Ingemi e Antonino Romano sono tra i capi della stessa “famiglia”. Costoro in prevalenza si occupano del giro delle estorsioni”.

“Tra i discorsi dei detenuti ascoltati nel reparto cellulare, ricordo in particolare quanto si diceva a proposito del fatto che Lorenzino Ingemi con Antonino Romano, Nino Costa, Mimmo Cavò ed altri, con l’aiuto del presidente del Messina Calcio Michelangelo Alfano, facevano estorsioni alle ditte che si erano aggiudicati i lavori per la ricostruzione del campo sportivo “Celeste”, della Villa Mazzini e della Villa Dante, perché volevano appropriarsi dei relativi appalti. Essi inoltre volevano, e non so se poi sono riusciti nel loro intento, ottenere i subappalti dalle imprese palermitane che stavano costruendo case in cooperativa nella zona vicina al nuovo deposito dell’Atm” (L’Ora 23-5-86). Ancora una volta s’intrecciano le vicende di Ingemi e di Alfano...

“Sembra uscito da un romanzo di Puzo”

 Va altresì aggiunto che il presunto ruolo ricoperto da Lorenzino Ingemi all’interno dei clan messinesi poteva trovare alcuni riscontri che andavano aldilà del racconto dei pentiti. Intanto la dichiarazione spontanea del teste Rosa Cucinotta, che affermava che “del gruppo delinquenziale cui apparteneva il marito - Giuseppe Insolito - faceva pure parte Lorenzo Ingemmi”. Il 17 giugno del 1985 era invece giunto alla Procura della Repubblica di Messina un rapporto dell’Arma dei Carabinieri che confermava l’esistenza e gli organigrammi delle “quattro associazioni per delinquere capeggiate da Costa, Cariolo, Ingemi e Milone”. Agli atti del processo veniva inoltre acquisita una lettera del 27 gennaio 1982, scritta in carcere da Gaetano Costa alla moglie che “invitava a rivolgersi allo “zio Sandro” (De Tullio Alessandro) ed al “compare Lorenzino (Ingemi Lorenzo) per procurare ad Affè Salvatrice - sorella della moglie - e ad Affè Orazio due licenze di commercio, una per mettere su un deposito all’ingrosso di generi alimentari e l’altra per aprire un negozio di cosmetici e di profumeria, rassicurandola che avrebbe provveduto egli stesso a fare arredare tale negozio e ad introdurre Affè Orazio in “centinaia di negozi” per fargli collocare la merce del deposito di generi alimentari, merce che egli stesso avrebbe fatto acquistare allo stesso a buon mercato, presso altri commercianti all’ingrosso”. Come scrive il Tribunale di Messina nella sua sentenza, “dalla lettera si evince l’autorevolezza e l’influenza del Costa, ma anche “la disponibilità di notevoli somme di denaro “sporco” che, attraverso attività lecite, veniva così riciclato”. Ingemi, evidentemente, godeva della massima fiducia da parte del Costa (lo chiama appunto “compare”), ma soprattutto era l’entratura migliore per “procurare” le licenze di commercio.

Ecco come descrive il giornalista Francesco Cucinotta l’apparizione di Lorenzino Ingemi alle udienze del maxi: “L’aria stanca ed il viso profondamente provato dalle sofferenze (il Tribunale ha disposto il ricovero al Policlinico), sembra essere uscito dal romanzo di Puzo e si atteggia, quasi uscito dalla scuola della “primula rossa” di Corleone Luciano Liggio, a uomo d’onore, sempre ossequioso e riverente verso l'Autorità non tralasciando mai una punta di ironia che certamente non guasta”. Ingemi nega qualsiasi legame con la malavita: “I collegamenti con la ‘ndrangheta in Calabria? Io ho preso il traghetto solo per recarmi al soggiorno. Il mare mi fa male...”; e alla domanda dei giudici che gli chiedono se è vero quanto raccontato da Insolito, che avrebbe fatto spogliare suo genero della divisa di agente di custodia, risponde: “Non odio carabinieri e poliziotti, dal più piccolo al più grande ho stima per tutti. Ho cercato di inserire i miei figli in polizia, nei carabinieri e perfino nei pompieri ma non li hanno voluti perché dicono che sono figli di mafioso. Mio genero, di nome Plasmati, si è congedato per venire a lavorare al mercato con me come ragioniere e solo dopo 2 anni che era sposato con mia figlia; aveva vinto un concorso per usciere giudiziario a Pavia e non voleva lasciare la famiglia” (Il Soldo 24-5-1986). Lorenzino nega di conoscere tutti i coimputati del maxi “eccetto Antonino Licciardello, in passato mio autista” e di essere mai stato fatto segno di colpi d’arma da fuoco al mercato ortofrutticolo.

La sentenza del maxi arriva nella primavera dell’87. Il Tribunale di Messina (Presidente Cucchiara), pur definendo “concorde” l’indicazione dell’imputato “come promotore ed organizzatore di una, pur sia piccola, associazione criminosa, indicazione proveniente da Insolito e Iannelli”, e il contenuto della richiamata lettera inducono ragionevole ed insormontabile sospetto in ordine alla responsabilità dell’imputato relativamente al delitto di cui all’art. 416 c.p.”, per le ragioni “evidenziate nella motivazione della sentenza”, la formula assolutoria nei confronti di Lorenzino Ingemi “non può essere quella dubitativa, bensì quella della insussistenza del fatto”. Nella assai singolare sentenza si sottolineava inoltre che “se un’organizzazione criminosa capeggiata da Ingemi Lorenzo è esistita, essa certamente ha avuto i caratteri dell'associazione per delinquere di tipo comune e non certa di quella di tipo mafioso”, in quanto, sempre secondo i giudici “per la configurabilità di un’associazione di tipo mafioso è necessario che l’organizzazione criminosa (...) esprima quella particolare capacità d'intimidazione diffusa e generalizzata e determini quell’assoggettamento e quella omertà non ravvisabili nella associazione asseritamente facente capo all’Ingemi Lorenzo”. Poiché comunque la Corte non ravvisava elementi “sufficienti, per affermare che i singoli imputati si siano associati a delinquere”, tutti coloro che erano stati accusati di appartenenza al clan Ingemi, debbono essere assolti, perché i fatti non sussistono” (Tribunale di Messina, Sentenza nella causa penale a carico di Antonuccio Aldo + 251, 1987).

Per la cronaca gli imputati accusati e assolti di aver “militato” nel cosiddetto “Clan Ingemmi” oltre a Lorenzino furono Domenico Di Dio, Antonino Romano, Benito Taglieri, Antonino Barbera, Benito Barcellona, Angelo Bonaffini, Filippo Buta, Antonino Ingemi, Antonino Licciardello, Giacomo Maressa, Rosario Mazzeo, Antonino Musicò, Fortunato Taglieri, Rosario Urso, Giovanni Vitale.

Il presidente Alfano Michelangelo da Bagheria

Si accennava ai legami tra l’ex Presidente dell’Acr Messina Michelangelo Alfano e Lorenzino Ingemi, consolidati dall’assegnazione al “padrino” di Costa della gestione delle maschere del Celeste. Ex calciatore, un figlio che veste la casacca giallorossa, Ingemi è un autentico patito del pallone. Nei primi anni Ottanta, eccolo vicino al mondo dorato del calcio di vertice messinese. Un ruolo presumibilmente mantenuto da Ingemi anche quando la presidenza dell’Acr deve essere ceduta da Alfano per le note vicende giudiziarie che lo coinvolgono a partire dal 1984 (viene indagato, e poi prosciolto, per associazione mafiosa dai giudici del pool di Palermo, dopo che il pentito Totuccio Contorno lo aveva definito “persona vicina al capo mandamento di Bagheria Leonardo Greco”).

Il 20 giugno 1987 un grave fatto di sangue turba l’ambiente del football messinese: il noto telecronista sportivo Mino Licordari, viene ferito gravemente nei pressi del suo studio legale. Sette anni più tardi vengono rinviati a giudizio l’ex presidente dell'Acr Messina Alfano, e i due presunti esecutori Carmelo Romeo e Carmelo Calafiore. Secondo i magistrati a ordinare l’esecuzione sarebbe stato il boss Domenico “Mimmiceddu” Cavò “per fare un favore a zio Angelo”

Sono ancora alcuni pentiti a chiarire i contorni di quell’agguato. Secondo Umberto Santacaterina l'Alfano avrebbe dato incarico al Cavò “per infliggere una punizione al giornalista Licordari, reo di aver parlato male di lui in più occasioni”. Concordante l’indicazione dell’ex boss Gaetano Costa: “Allorché all’inizio del 1987 Mimmo Cavò esce dal carcere, lo stesso ottenne grazie all’intervento di Michelangelo Alfano la rappresentanza dei salumi Vismara. (...). Seppi da Salvatore Pimpo (...), che il Cavò aveva inteso dare una lezione al giornalista della Rtp a nome Mino Licordari”. Costa accenna anche ad un tentativo di depistaggio in cui rispunta l’anziano padrino Ingemi: “Il Pimpo mi spiegò che per coprire il vero movente della lezione si fece spargere la voce, all’interno del nostro ambiente, che il Licordari non aveva voluto assoggettarsi ad una richiesta estorsiva e che poi la stessa era stata comunque aggiustata grazie all’intervento di Lorenzino Ingemi che, ponendosi come intermediario tra il Cavò ed il Licordari, aveva indotto quest’ultimo a pagare la somma di lire 50 milioni a somma di una richiesta iniziale di 150/200 milioni. In realtà il vero movente dell’aggressione era stato quello di fare una cortesia all’Alfano che era irritato nei confronti di Licordari in quanto questi nella sua attività di giornalista lo aveva messo in cattiva luce con l’opinione pubblica”. Evidentemente nel 1987 poteva essere credibile tra gli ambienti di mafia l’ipotesi estorsiva a firma Ingemi...

Ancora più inquietante il movente del tentato omicidio delineato da uno degli attentatori, Carmelo Romeo: “...il Licordari, a dire del Cavò, era a conoscenza che i calciatori dell’Acr Messina si erano “vendute” alcune partite e che egli, nonostante sapesse ciò, non aveva fatto niente per pubblicizzare la questione. Nella circostanza, il Cavò mi disse pure che era necessario “gambizzare” anche qualche calciatore ma di questa incombenza se ne sarebbe occupato egli ed il Pimpo Salvatore...”. Romeo chiarisce che dopo l’attentato fu riavvicinato dal Cavò che gli disse di avere “incontrato Alfano il quale gli aveva detto “che bastava così” e che non era più necessario “dare una lezione” ai calciatori dell’Acr Messina”.

Alcune considerazioni. Innanzitutto i due principali protagonisti della vicenda, la vittima e il carnefice. “Rapporto alterno” è stato ritenuto da molti cronisti quello tra l’imprenditore di Bagheria e il giornalista televisivo. “All'inizio della sua avventura al vertice dell’Acr, Alfano aveva litigato aspramente ma poi era “scoppiata” la pace, e i due erano diventati molto amici. Un’amicizia alla quali il giornalista televisivo diceva di tenere molto” (Gazzetta del Sud 26-3-95). Si può uccidere allora un “amico” per qualche partita truccata? Negli ambienti della tifoseria e del giornalismo sportivo era certamente forte il timore delle combine e perfino del totonero. “Mino Licordari aveva promesso con una martellante campagna giornalistica importanti rivelazioni proprio per domenica 21 maggio” annotano i cronisti. (Gazzetta del Sud 11-12-94). O forse non è meglio oggi una rilettura, di quanto scritto dalla Gazzetta del Sud il giorno successivo l’agguato? Licordari veniva definito “Una bocca che avrebbe potuto influenzare, orientare certe correnti d’opinione e forse certe decisioni importanti attorno alle quali si muovono interessi economici di rilievo come mai è accaduto a Messina” (Gazzetta del Sud 21-6-87).

È da tempo che si accenna a certi presunti affari a nove zeri come una delle possibilità per spiegare la necessità dell’imprenditore di Bagheria di legittimarsi attraverso la guida della prima squadra calcistica come “uomo-simbolo” della Messina che conta. Un binomio che a Messina potrebbe legare il calcio alla gestione di alcuni grossi appalti di edilizia pubblica e privata. “Una delle ultime incursioni giudiziarie che avevano sfiorato Michelangelo Alfano” - scrive L’Isola - sono legate ancora una volta all’ombra dei Greco di Bagheria che a Messina, alla fine degli anni settanta si allunga attraverso una sigla: Sicis. Un’impresa dei fratelli Bruno di Bagheria che sbarca a Messina sbaragliando la concorrenza nei due più grossi appalti di edilizia privata banditi in quel periodo: la costruzione del complesso “La Casa Nostra” e del “Consorzio Peloritano Case”” (L’Isola 28-4-95).

Sotto il calcio maturano appalti ed interessi

Ci sono poi gli appalti pubblici. Al maxiprocesso del 1986 il PM Providenti riferiva che l’imputato Giovanni Vinci, gestore della cassa delle cosche dopo la morte di Melchiorre Zagarella, sarebbe stato presentato proprio dall’ex presidente dell'Acr Messina Alfano “alla ditta catanese Molinaro che stava costruendo la facoltà di Farmacia all’Annunziata” (Gazzetta del Sud 17-6-86). Il settimanale “L’Isola” accenna anche ad una telefonata in mano agli inquirenti tra il presidente Alfano e il boss Domenico Cavò, qualche giorno prima dell’omicidio di Luciano Sansalone, “in cui il mafioso e il presidente parlerebbero di un certo appalto all'Università di Messina”. Sansalone, consigliere dell’Associazione universitaria democratica e Grifone dell’Università di Messina, socio dell’agenzia immobiliare “Studio 4” e fondatore del periodico “Il Calabrone”, era stato ucciso la sera del 6 dicembre 1984 nei pressi della sua abitazione in via Palermo. Da mesi era sospettato dagli inquirenti di “truccare le aste pubbliche promosse dall’Università” con la complicità proprio di Michelangelo Alfano e di Domenico Cavò.

“Michelangelo Alfano era uomo d’onore di Cosa Nostra. Fu lui a “battezzare” Domenico Cavò e a farne il referente delle cosche palermitane a Messina” racconterà Gaetano Costa deponendo al processo per l’omicidio dell’avvocato Nino D’Uva, ucciso a Messina nei giorni del maxiprocesso (febbraio 1986). “Si fidava di lui perché era conosciuto come persona intelligente e riflessiva” (Gazzetta del Sud 21-7-95). Pesante il sospetto che proprio Alfano avrebbe spianato la strada alla ditta di pulizie controllata da Cavò per un paio di grossi appalti. Il boss assai vicino a Gaetano Costa verrà ucciso in un agguato il primo marzo 1988: dentro un borsello ritrovato accanto al cadavere venivano rinvenuti dei documenti riguardanti l’appalto per la pulizia dell’ospedale psichiatrico “Mandatari”, vinto pochi mesi prima dall’impresa “Ma.Ri.Va.”, presumibilmente controllata dal Cavò. (L’Isola 28-4-95).

Infine il calcio. Così il pentito Antonino Cariolo ricostruisce ai giudici i primi contatti tra il Cavò e l’Alfano: “Michelangelo Alfano ebbe a conoscere il Cavò in occasione di una estorsione subita quando il primo era presidente dell’Acr Messina nell’anno 1980-81 ad opera del clan Costa che all’epoca agiva proprio attraverso il Cavò che era libero, mentre Costa Gaetano era detenuto sin dal 1978. L’Alfano individuò nel Cavò il promotore e l’organizzatore dell’estorsione ed ebbe conseguentemente un contatto con il Cavò per avere un chiarimento”. Alfano ottenne la cessazione dell’attività criminosa “e nel contempo coinvolse Cavò e quelli a lui vicini, nei proventi della società di calcio. Fra l’altro consentì l’assunzione di alcuni uomini vicini a Cavò come maschere allo stadio. In conseguenza di tale intesa il Cavò diventò fiduciario dell’Alfano...”. A gestire il servizio maschere Lorenzino Ingemi.

Il gran ritorno di Lorenzino Ingemi

Per sentire parlare nuovamente di Lorenzino Ingemi si dovrà attendere il novembre del 1993 quando verrà arrestato in compagnia di Giovanni Garufi con le accuse di usura, appropriazione indebita, estorsione e falso. Addosso ad Ingemi, descritto ancora dai cronisti come “uomo di rispetto”, vengono trovate 47 cambiali per un importo complessivo di 235 milioni, intestate a un commerciante di Acireale, effetti poi risultati falsificati. Nel corso dell’indagine è stato scoperto un ulteriore episodio di usura ai danni di una assicuratrice di Pace del Mela. In una cassaforte della casa di Ingemi i carabinieri avevano trovato numerosi oggetti d’oro, alcuni ancora provvisti dell’etichetta, probabilmente lasciati in pegno da persone che avevano ottenuto prestiti. Tra questi vengono riconosciuti alcuni preziosi provenienti dalla gioielleria di Nino Lascari, il noto domatore già vittima di attentati estorsivi nei primi anni ottanta, successivamente ucciso in un agguato mafioso il 7-9-90. Il giro di usura sarebbe ammontato a diverse centinaia di milioni e gli interessi praticati sui prestiti avrebbero raggiunto il 300 per cento annuo (Gazzetta del Sud 31-3-94). Il 30-3-94 Ingemi riacquista gli arresti domiciliari per motivi di salute, mentre l’11 agosto ottiene la revoca dell’ordinanza di custodia cautelare.

Trascorrono due anni e mezzo e il 7 marzo del ‘96 Ingemi torna in carcere nell’ambito dell’inchiesta del sostituto procuratore Vincenzo Barbaro sulla As Messina. Con lui finiscono in manette Andrea Lo Presti, impiegato comunale con l’incarico della custodia dello stadio Celeste; Bruno Di Giorgio di Casignana (Rc), laureato in Economia e Commercio assai vicino ad alcune associazioni di studenti universitari calabresi; Antonino Crupi, noto imprenditore, già presidente della Us Peloro, poi vicepresidente con la gestione del gioielliere Aliotta, già vicepresidente dell’Acr Messina di Alfano. La misura interdittiva di sospensione dalle funzioni di soci di minoranza della As viene emessa ai danni di Carmelo Gallina e Carmelo Schirò, quest’ultimo incappato in una disavventura giudiziaria nel giugno 1975, quando fu arrestato per un presunto traffico di armi tra elementi di estrema destra del messinese e delle Puglie. L’eclatante inchiesta sul calcio nostrano, partita da una denuncia sull’“esagerato” valore dato alle quote societarie nella trasformazione della As Messina da associazione sportiva ad Srl, aveva poi individuato un inquietante contorno fatto di ricatti, usura ed estorsioni al fine di “appropriarsi della maggiore squadra calcistica cittadina”. Nello specifico ad Ingemi viene contestato il reato di usura ed estorsione (quest’ultimo insieme al cav. Crupi) ai danni dell’avvocato di Palmi Ettore Saffioti il quale aveva tentato inutilmente nel ‘95 di acquistare la squadra messinese. “Saffioti” scrive la Gazzetta del Sud “aveva proposto, come componente di una cordata, l’acquisto della società sportiva. Lorenzino Ingemi sarebbe venuto a conoscenza delle condizioni onerose previste dalla convenzione stipulata dall’ex presidente La Malfa con una società per la gestione del botteghino, delle maschere e della pulizia dello stadio e si sarebbe presentato al commercialista Antonino Trimarchi (presidente della As sino alla scalata di Ingemi n.d.r.) dichiarandosi disponibile a subentrare nei servizi per un corrispettivo inferiore a quello pagato dalla società.

Sarebbe stato questo il primo contatto con Trimarchi, perché poi Ingemi fece presente di essere interessato anche a rilevare l’As Messina; e per dimostrare le buone intenzioni avrebbe prestato alcuni milioni al presidente per le spese di gestione del campionato. Gli inquirenti sostengono che Ingemi si fece parte diligente nell’allontanamento da Messina dell’avv. Ettore Saffioti che aveva raggiunto una intesa per rilevare la società calcistica (...). Ma le trattative con Saffioti s’interruppero proprio quando Ingemi andò a prelevare il professionista calabrese agli imbarcaderi delle compagnie private di traghettamento lo stesso giorno in cui questi avrebbe dovuto perfezionare l’acquisto dell’As Messina.

Ingemi avrebbe detto al professionista di Palmi che alla società era interessato il fratello e lo accompagnò negli uffici del cavaliere Crupi. Dopo un lungo dialogo, Saffioti sarebbe stato invitato a recedere dai suoi propositi poiché era “persona non del posto” e con argomentazioni che indubbiamente turbarono la sua capacità di autodeterminazione”.

Nel suo interrogatorio l’avv. Saffioti avrebbe confermato le modalità dell'incontro, aggiungendo che in quell’occasione “gli sarebbe stata prospettata dal Crupi l’ipotesi di procedere ad una fusione tra l’As Messina e l’Us Peloro”. Sempre Saffioti avrebbe aggiunto che al ritorno in Calabria avrebbe appreso dalla moglie di una telefonata anonima in cui sarebbe stato consigliato “di farsi i fatti suoi” perché “il paese è del paesano” (Gazzetta del Sud 8-3-96).

Una ventina di giorni dopo l’arresto Ingemi viene raggiunto da un nuovo ordine di cattura: dopo ulteriori accertamenti sulla vicenda As, erano infatti emersi nuovi risvolti legati all'usura. Ingemi sarebbe stato al centro di una “rete di raccolta” di assegni postdatati, che spingeva le vittime a pagare anticipatamente un “premio”. Quando non era più possibile onorare l’impegno “subentrava l’organizzazione usuraia gestita da Ingemi, che anticipando l’importo del titolo richiedeva un consistente interesse mensile” (Gazzetta del Sud 24-3-96). Tra le vittime dell'organizzazione di cravattari, lo stesso presidente della società giallorossa Trimarchi. Al contesto si aggiungeva infine l’avviso di garanzia per l'ex presidente dell’As Pietro La Malfa, già condannato per emissione di assegni senza provvista a favore di alcuni creditori della società sportiva; veniva ipotizzavano il reato di tentata estorsione nei confronti del commercialista Trimarchi.

Al Celeste ci sono da mettere le maschere

A oltre un decennio dalla presidenza Alfano, nulla sembra essere mutato all’ombra del pallone. Eloquente il ruolo esercitato dall'impiegato comunale Lo Presti accusato di estorsione ai danni dell’ex presidente della As La Malfa. Secondo i magistrati egli avrebbe gestito di fatto “un rilevante potere nell’organizzazione della struttura sportiva essendo interessato da anni alla gestione dei servizi di pulizia e di biglietteria”. Su Lo Presti il pentito Iano Ferrara racconta di avere appreso durante il periodo di latitanza che avrebbe incassato soldi facendo il suo nome “al presidente dell’As Messina, in cambio della protezione attorno allo stadio Celeste”. Ferrara nega la circostanza, anzi aggiunge di aver incaricato un suo affiliato per verificare come stavano in realtà le cose. Scoperte le “responsabilità” di Lo Presti, l’ex boss di Messina sud afferma di aver “messo a posto” il custode del campo per poi avvicinare direttamente l’ex presidente La Malfa al quale avrebbe dato la piena disponibilità anche per il reperimento di denaro.

Nel suo interessante racconto ai magistrati, Ferrara ammette che l’Acr Messina gestione Massimino avrebbe pagato la protezione alle cosche mafiose locali capeggiate al tempo da Pippo Leo e Mario Marchese (Gazzetta del Sud 24-3-96).

La “vicinanza” di Ferrara con gli ambienti dell’Acr Messina troverebbe altri riscontri. Il primo è di tipo certamente incidentale. In un’intervista al settimanale “Centonove”, Letteria Palmeri spiega che durante la latitanza del marito Iano, riusciva a mantenere la famiglia “grazie agli introiti del ristorante che mio cognato ha continuato a gestire fino a pochi mesi fa”. “Era molto frequentato - spiega – Ci andavano spesso anche i giocatori della squadra di calcio del Messina” (Centonove 9-4-94). Il boss del Cep era ricercato in mezza Italia ma i calciatori dell’Acr non ritenevano disdicevole il sedersi allegramente ai tavoli del locale gestito dal fratello. Ancora più inquietante la vicenda emersa durante il dibattito organizzato dai Verdi il 15 marzo 1996, subito dopo l’ondata di arresti dell’inchiesta sull’As Messina. Durante la stagione calcistica 1988/89 (l’anno del tecnico Zeman), un giornalista sportivo dell’emittente televisiva Telespazio del gruppo Cuzzocrea, avrebbe fatto un servizio in cui riservava una battuta ironica al calciatore dell’Acr Giacomo Modica, reo di aver calciato malamente un tiro al volo (“Modica tira: Meta!”). Passano un paio di giorni e nei locali dell’emittente si presentano Iano Ferrara con altri componenti il suo gruppo. Si siedono in una stanza con l’incauto giornalista per un “chiarimento”. Il cronista si impegna a chiedere scusa pubblicamente al calciatore e il Ferrara & soci vanno via soddisfatti. Un particolare: in quel periodo sia Alfano che Massimino avrebbero mostrato l’interesse a rilevare la proprietà di Telespazio.

Si accennava alla “protezione” che secondo Ferrara le cosche (ed in particolare quella del Marchese che nel 1991 avrebbe tentato di truccare la partita Avellino-Messina), avrebbero “assicurato” al Messina Calcio dell'imprenditore Salvatore Massimino. Sarà opportuno ricordare che durante il processo “Orsa Maggiore” tenutosi a Catania contro la mafia locale, il pentito Carmelo Grancagnolo ha parlato di un’estorsione a danno dei fratelli costruttori Angelo e Salvatore: “pagavano 500 mila lire al mese di “pizzo” ad un esponente del clan dei “cursoti” per evitare rappresaglie in un loro cantiere in viale Africa. Dopo l’intervento dei vertici di Cosa Nostra, i Massimino furono costretti a pagare tangenti per sei milioni di lire al mese, che venivano divise, in parti uguali, tra i clan Santapaola, Pulvirenti e Cursoti” (Gazzetta del Sud 16-2-96). I Massimino solo estorti? Filippo Malvagna, nipote del boss Giuseppe Pulvirenti ‘U Malpassotu, depone davanti ai giudici: “Ricordo che erano “vicini” alla nostra cosca gli imprenditori catanesi Salvatore Palmeri e Salvatore Massimino, ex presidente del Messina Calcio, e i cavalieri del lavoro Gaetano Graci e Carmelo Costanzo...” (Gazzetta del Sud 26-11-94).

Non fosse altro per chiudere su Lorenzino Ingemi e sulla gestione da parte della mafia locale del servizio maschere del Celeste, è opportuno menzionare che appena un mese fa, in occasione del suo interrogatorio al processo Peloritana 1, anche il “pentito” Luigi Sparacio ha ritenuto opportuno raccontare la sua sul calcio nostrano. “Il giorno della mia affiliazione in Cosa Nostra nel carcere di Gazzi” esordisce Sparacio “erano presenti Placido Cambria, Domenico Di Blasi e un calabrese, Pepè Onorato, che era amico di Lorenzino Ingemi e di Gaetano Costa”. Secondo Sparacio “Ingemi non aveva nessun ruolo nell'associazione, gli avevano affibbiato un clan che non aveva”, però “quello gravitava nella gestione nel gruppo delle maschere”. E subito chiarisce che nella gestione dei biglietti “nell’86 c’era Marchese e anch’io”; “le maschere, ogni settimana prendevano 4 milioni e mezzo - 5 milioni; noi ci prendevamo i soldi dalle maschere, no dalla società. A ‘sti poveracci invece di dargli 50.000 lire di un’ora, gliene davamo 25 (...) e noi ci prendevamo 2 milioni - 2 milioni e mezzo alla settimana”. Dulcis in fundo Sparacio è costretto a parlare di Michelangelo Alfano: “Io l’ho conosciuto nell’88. Sono andato a trovarlo a casa sua tramite suo genero, Fusco Salvatore, che lo conosco da parecchi anni, e sono andato a chiedergli dei posti di lavoro all’interno di un padiglione della Ferrovia dove lui..., e gli ho chiesto..., e mi ha dato, dei posti di lavoro per un mio nipote e per Savona..., non mi ricordo il nome, un ragazzo; sono andato là e mi ha fatto questa cortesia di assumere questo ragazzo qua. Poi, in un’altra occasione sono andato e gli ho chiesto dei soldi per.., che all’epoca avevano arrestato Cariolo Antonio, e aveva bisogno la moglie dell’affitto della casa, perciò io sono andato là spiegando che avevano arrestato un mio affiliato, tutte queste cose qua, e mi ha dato 15-20 milioni”. Ingemi, le maschere, il Celeste, il Messina, Alfano, Ingemi, le maschere, il Celeste, ecc. ecc. ecc.... Passano gli anni ma il calcio resta sempre lo stesso.

Inchiesta pubblicata nel novembre 1996

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