La Nato va in Somalia

Una flottiglia di navi da guerra, comandate da un cacciatorpediniere italiano, il Durand de la Penne, è arrivata davanti alle coste somale per «scortare» i convogli di aiuti umanitari e en passant combattere contro i pirati. Un nuovo modello di operazione della Nato?

Ha raggiunto le coste della Somalia lo Standing naval maritime group 2 [Snmg2], la forza navale costituita dalla Nato per assicurare la «protezione» delle navi del World Food Programme [il Programma mondiale per l’alimentazione delle Nazioni Unite] che trasportano cibo destinato alle popolazioni somale. Si tratta di sette unità di Germania, Gran Bretagna, Grecia, Italia, Turchia e Stati Uniti: un cacciatorpediniere [l’italiana “Durand de la Penne”, che funge da nave-comando], cinque fregate e una nave appoggio.

A chiedere l’intervento militare a difesa della distribuzione di aiuti umanitari alla Somalia è stato il segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-Moon. La risposta dell’Alleanza Atlantica è stata immediata. Secondo quanto dichiarato dal generale John Craddoock, comandante supremo della Nato, «l’Alleanza coordinerà la sua assistenza con il World Food Program, l’Unione Europea e l’Operazione ‘Enduring Freedom’ guidata dagli Stati Uniti, che sono tutti coinvolti nello sforzo umanitario e per la sicurezza. Lo Standing Naval Marittime Group 2 è una prova dell’abilità della Nato ad adattarsi rapidamente alle nuove sfide…». La forza navale è poi chiamata a condurre non meglio specificate «operazioni anti-pirateria» nell’area del Corno d’Africa ed effettuerà esercitazioni militari in Bahrain, Kuwait, Qatar e negli Emirati Arabi Uniti.

L’intervento «umanitario» in Somalia, caldeggiato dal Palazzo di Vetro, solleva tuttavia più di un giustificato timore. Innanzitutto esso è successivo alla richiesta fatta dagli Stati Uniti ai partner europei di condivisione della «lotta al terrorismo» in Africa. Il «Rapporto sullo stato del terrorismo», presentato lo scorso mese di aprile dal Dipartimento di Stato, ha enfatizzato che «le più serie minacce agli interessi statunitensi sono rappresentate dalle operazioni di al Qaeda in Somalia», prefigurando un’estensione delle «guerre preventive» al continente africano. Ignoto è poi il mandato reale dell’Snmg2 accanto all’agenzia umanitaria delle Nazioni Unite e le eventuali regole d’ingaggio in caso di attacco alle navi destinate al trasporto di aiuti alimentari. In Somalia si registra una rapida escalation del conflitto. Secondo l’agenzia Misna, a causa dei combattimenti, negli ultimi trenta giorni oltre 15 mila persone avrebbero abbandonato Mogadiscio, città che è presidiata dai militari della missione «Amisom», il contingente militare inviato in Somalia dall’Unione Africana. Violenti scontri sarebbero pure in corso nella Bassa Shabelle e nei pressi di Baidoa, nel sud del paese.

C’è poi la questione relativa alla dilagante «militarizzazione» dell’intervento umanitario e all’onnipresenza dei reparti delle forze armate di Stati Uniti e Nato nella gestione diretta di programmi ed interventi di «cooperazione civile» in Africa, tema che non sembra interessere l’Onu [ed anche l’Unione Europea ed i paesi membri], ma che invece è al centro di un serrato dibattito negli Stati Uniti. Alla vigilia dell’istituzione del nuovo comando di Stoccarda per le operazioni delle forze armate Usa in Africa [Africom], il Congresso ha invitato tecnici, esperti e diplomatici a confrontarsi sulle nuove politiche di penetrazione statunitense nel continente africano. Nonostante l’unanime consenso per Africom, persino le istituzioni più conservatrici hanno espresso critiche sull’attivismo a 360 gradi delle forze armate, in quanto esercitazioni militari, addestramenti dei reparti locali e soste di portaerei e sottomarini nucleari sono accompagnati da costruzioni di scuole ed ospedali, screening sanitari delle popolazioni, distribuzione di aiuti alimentari, medicine e vestiario, realizzazione di pozzi e reti idriche, ecc.

Un netto dissenso è venuto pure da Jim Bishop, un vecchio falco repubblicano, già ambasciatore Usa in Somalia, Liberia e Niger e vicesegretario di stato per l’Africa durante l’amministrazione Reagan. Oggi Bishop è vicepresidente di InterAction, organizzazione non governativa statunitense che opera fianco a fianco con le forze armate in Afghanistan ed Iraq nella gestione d’interventi «umanitari». «Noi apprezziamo la partecipazione delle forze militari Usa in risposta ai disastri naturali quando esse possono trasportare equipaggiamenti che non possono essere assicurati immediatamente a livello locale o dalle agenzie internazionali – ha esordito l’ambasciatore – Ma i militari dovrebbero operare in un ruolo di supporto. Sulla base dei rapporti dei miei colleghi che operano sul campo, i programmi di sviluppo condotti dalla “Combined Joint Task Force-Horn of Africa” (CJTF-HOA) e sotto gli auspici della Trans-Sahara Partnership, spesso implementati da soldati che indossano abiti civili, riducono sempre di più le linee tra l’aiuto civile e quello militare. Ciò mette a rischio la sicurezza degli operatori civili nelle aree dove i militari sono visti dalla popolazione e dagli insorti come alleati dei governi nazionali impopolari, ad esempio nella regione etiope dell’Ogaden e nel nord Uganda. Attività lungo il confine tra la Somalia e il Kenya, dove civili innocenti sono stati obiettivo collaterale dei cannoni navali e dei missili cruise, insieme al sostegno Usa dell’invasione etiope in Somalia, hanno provocato conflitti invece di risolverli. Gli operatori umanitari che sono stati assassinati e presi in ostaggio in Somalia stanno costringendo le Ong a ritirarsi dal paese e ciò accrescerà lo spettro della fame».

Jim Bishop ha inoltre posto l’indice sull’altissimo costo in termini economici e sulla dubbia sostenibilità dei progetti «sociali ed umanitari» implementati in Africa dai militari Usa. «Per ciò che so – ha aggiunto l’ambasciatore – nessuna valutazione dell’impatto di questi progetti è stato condotto né a livello tecnico né a livello politico. Si racconta di soldati assegnati a compiti di cui essi stessi hanno scarsa esperienza al punto di dover poi affidare l’intervento a contractor locali. Sono stati scavati pozzi e costruite scuole e cliniche con scarsi benefici e sostenibilità e senza che potesse cambiare il modo con cui il governo degli Stati Uniti è visto dalla popolazione locale».
Intanto, secondo quanto denunciato da Refugees International [altra Ong con sede negli Stati Uniti], tra il 1998 e il 2005 la percentuale dell’assistenza umanitaria gestita direttamente dal Pentagono è cresciuta dal 3,5 per cento al 22 per cento, mentre nello stesso periodo gli aiuti affidati ad Usaid, l’agenzia allo sviluppo degli Stati Uniti, si è ridotta dal 65 al 40 per cento. Ma più di una «militarizzazione» è forse più opportuno di «paramilitarizzazione» della cooperazione Usa in Africa. Una recente ricerca del Dipartimento di Stato ha rivelato come buona parte degli interventi coordinati da Africom nel quadro del cosiddetto «Bureau of African Affairs-Africa Peacekeeping Program» [Africap], sono stati affidati a contractors privati. Due tra questi, le tristemente note società Pae [Pacific Architects & Engineers] e DynCorp International, nel solo 2003 hanno sottoscritto contratti Africap per un miliardo di dollari. Società di sicurezza privata hanno coordinato il trasferimento di truppe di Benin, Mali e Nigeria in Liberia e Sierra Leone, e di militari di Ruanda e Nigeria in Sudan. Sono sempre i contractor a gestire attualmente i campi rifugiati implementati dall’amministrazione Bush in Darfur.

Ciononostante il valore dei beni distribuiti dalle forze armate Usa alle popolazioni è di per sé insignificante in termini finanziari se comparato al costo dell’intervento strategico-militare in Africa e al valore degli «aiuti» in armi alle forze armate nazionali. Inoltre l’intervento «umanitario» è del tutto subordinato agli interessi del complesso militare industriale e delle transnazionali all’assalto delle ricchezze petrolifere, minerarie, idriche ed alimentari del continente africano. E anche se il Comando Africom declami la sua composizione mista «civile-militare», al neocostituito quartier generale di Stoccarda, solo 13 dipendenti su 1.304 non sono membri del Dipartimento della Difesa. E’ significativo, peraltro, che dopo aver cercato invano per più di un anno un paese africano disposto a «ospitare» il nuovo comando del Pentagono, gli Usa si siano accontentati di doverlo piazzare in Germania. Nessuno dei paesi interpellati, nemmeno quelli considerati politicamente più vicini, ha accetto la presenza militare permanente degli Usa.

La missione militare della Nato in Somalia, inoltre, evidenzia due preoccupanti sviluppi della politica di sicurezza dell’Alleanza. Il primo è l’estensione dei modus operandi e delle giustificazioni politiche elaborate per gli interventi contro il «terrorismo» anche ad altri fenomeni, pirateria innanzi tutto. Non a caso il Pentagono, nei suoi documenti di elaborazione strategica, ha iniziato a parlare di «terroristi del mare» per indicare i pirati. Il secondo elemento è la sperimentazione di una politica delle cannoniere aggiornata al XXI secolo. Il fine non è più quello di «mostrare bandiera» davanti alle acque di qualche paese riottoso, ma di controllare direttamente le rotte energetiche e strategiche. Lo stretto che immette il Mar Rosso nell’Oceano indiano è una di queste. Un’altra passa per il crocevia del Golfo di Guinea, una delle frontiere petrolifere in più rapida espansione, dove i ribelli del Delta del Niger [la regione petrolifera della Nigeria] rischiano di essere presto inseriti tra i «nemici pubblici» che giustificano un intervento delle marine da guerra della Nato. Da notare, infine, che la partecipazione italiana a quella che è a tutti gli effetti una nuova missione militare all’estero, è stata decisa senza alcuna consultazione o dibattito con il parlamento. La Marina militare – che ha il comando di questa di missione Nato – era già stata impegnata in azioni di pattugliamento davanti alle coste somale alcuni mesi fa.


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