Alla Turchia il comando della crociata anti-pirati

I paradossi della Storia. Un tempo, le cristianissime nazioni d’Europa mobilitavano le flotte navali in nome della libertà di navigazione nel Mediterraneo e contro i pirati “turchi”. Oggi l’Occidente affida la guida e il coordinamento della campagna militare contro la pirateria nelle acque del Golfo di Aden alla Turchia, paese membro della NATO che non trova però ospitalità nella UE per i bassissimi standard in materia di diritti umani ed i ricorrenti massacri del popolo kurdo.

Domenica 3 maggio, la V Flotta USA ha trasferito il comando delle operazioni di guerra contro i pirati somali alla fregata turca lanciamissili “TGC Giresun”. Sarà così l’ammiraglio Caner Baner a dirigere la Combined Task Force (CTF) 151, la flotta aereonavale multinazionale attivata nel gennaio 2009 dal Comando dell’US Navy in Bahrein, a cui partecipano 50 unità da guerra di una quindicina di nazioni di Africa, Asia, Europa e nord America. La CTF-151 opera in un’estesissima area geografica compresa tra il Corno d’Africa e l’Oceano Indiano, congiuntamente con le flotte navali dell’Unione Europea (“EUNAVFOR Atalanta”) e dalla NATO (“Standing Naval Maritime Group One – SNMG1”).
 
È la prima volta da quando ha preso il via la crociata anti-pirati che il comando generale delle operazioni non è affidato agli Stati Uniti d’America. La fregata “TGC Giresun”, con a bordo 263 militari, un team di sommozzatori-assaltatori e due elicotteri per la lotta anti-nave e anti-sottomarini, aveva lasciato il porto egeo di Marmaris lo scorso mese di febbraio per trasferirsi nel Golfo Persico. Come è stato segnalato da alcuni osservatori, la Turchia non aveva mai partecipato ad operazioni navali out-of-area per periodi così lunghi. Poca dimestichezza con i complessi scenari del Corno d’Africa, dunque, ma un’indiscutibile fedeltà al grande alleato d’oltreoceano. Motivo sufficiente perché Washington promuova Ankara alla guida della task force internazionale.
 
Intanto la NATO ha deciso di prorogare fino al 28 giugno la presenza nelle acque del Corno d’Africa dello “Standing Navale Maritime Group One”, il gruppo di pronto intervento navale a cui partecipano Canada, Olanda, Portogallo e Spagna. Costituito nel 2006 come componente navale della Forza di Intervento Rapido (NRF) della NATO, il gruppo navale è stato prontamente dirottato dal Pakistan al Golfo di Aden per proseguire i pattugliamenti anti-pirati e la scorta dei mercantili. Nei piani di Bruxelles lo SNMG1 avrebbe dovuto lasciare il porto di Karachi per una missione a Singapore e in Australia. Ma al summit NATO dello scorso 4 aprile, i capi di Stato dei paesi membri si sono detti concordi a che l’alleanza militare assuma un “ruolo a lungo termine” nella lotta alla pirateria, annullando così la crociera delle unità da guerra in Estremo Oriente e in Oceania.
 
Altre due importanti novità si registrano intanto all’interno della coalizione internazionale che ha dichiarato guerra alla pirateria. Il 25 febbraio 2009, il Consiglio federale della Svizzera ha autorizzato l’impiego dell’esercito in appoggio alle operazioni della flotta “EUNAVFOR Atalanta” dell’Unione Europea. La partecipazione di personale militare (30 persone al massimo per una durata di un anno) sarà limitata alla protezione dei mercantili battenti bandiera svizzera e alle navi del Programma alimentare mondiale (PAM) delle Nazioni Unite. Per quella che sarà la prima operazione militare navale della storia della Svizzera, sono stati stanziati 9,8 milioni di franchi.
 
Nel lontano Giappone, la Camera bassa ha approvato un disegno di legge anti-pirateria che permetterà alla Marina militare nipponica di usare le armi durante la scorta delle imbarcazioni straniere al largo delle coste somale. Il Giappone aveva inviato due cacciatorpediniere nel Golfo di Aden per partecipare alle operazioni della “Combinated Task Force CTF-151”, ma non era stata autorizzato l’uso della forza per sventare i sequestri. Da oggi anche il Giappone potrà partecipare ad eventuali operazioni di combattimento in mare o in territorio somalo.
 
Tutto lascia ormai pensare che si faccia imminente l’attacco contro le basi terrestri dove, secondo il Pentagono, si nasconderebbero i pirati. Negli Stati Uniti sono sempre più numerosi i servizi giornalistici e radiotelevisivi che equiparano “terrorismo islamico” e “pirateria somala”, descrivendo improbabili legami strategico-operativi tra i gruppi di combattenti che si oppongono all’occupazione alleata dell’Iraq e dell’Afghanistan e gli autori degli assalti ai mercantili. L’Associated Press, in un recente articolo a firma della giornalista Lolita C. Baldor, riporta le dichiarazioni di alcuni funzionari dell’esercito e dell’anti-terrorismo USA, secondo i quali “sta crescendo l’evidenza che gli estremisti stanno fuggendo dal confine Pakistan-Afghanistan tentando d’infiltrasi in Africa orientale, portando con loro le sofisticate tattiche terroristiche e le tecniche di attacco acquisite durante sette anni di guerra contro gli Stati Uniti e i loro alleati”.
 
“L’allarme è che la Somalia si appresti a divenire il nuovo Afghanistan, un santuario dove I gruppi legati ad al-Qaeda potrebbero addestrarsi e pianificare gli attacchi contro il mondo occidentale”, aggiungono le fonti militari. Il numero di estremisti islamici giunti in Corno d’Africa sarebbe ancora abbastanza piccolo, non più di 24-36 persone, “ma una cellula di queste dimensioni è stata responsabile dei devastanti attentati dell’agosto 1998 contro le ambasciate USA in Kenya e Tanzania che causarono la morte di 225 persone”. Il generale William “Kip” Ward, capo di Africom, il Comando statunitense per le operazioni nel continente africano, ha confermato all’Associated Press, l’“inquietudine” delle forze armate USA per quanto starebbe accadendo in Somalia. “Quando hai a disposizione ampi spazi territoriali, che sono senza governo, riesci ad avere un rifugio sicuro per le attività di sostegno e per quelle di addestramento”, ha dichiarato Ward. “E i combatterti stranieri che si stanno trasferendo in Africa orientale accrescono la minaccia terroristica nella regione”.
 
Secondo il Pentagono, il rischio terrorismo in Somalia proverrebbe dal gruppo islamico Al-Shebab, i cui uomini controllano ormai buona parte del paese, e dall’organizzazione militare nota con l’acronimo EEAQ. “Anche se ancora non viene considerata come una cellula ufficiale di al-Qaeda – scrive l’Associated Press – l’EEAQ ha legami con i maggiori leader terroristici ed è stata implicata negli attentati del 1998 in Tanzania e Kenya”. Secondo Washington, EEAQ ed Al-Shabab potrebbero decidere di addestrasi ed operare congiuntamente, “favorendo l’ingresso delle fazioni terroristiche di al-Qaeda tra le migliaia di miliziani che vivono in Somalia, organizzati prevalentemente su basi claniche e impegnati fino ad oggi in diatribe interne”.
 
Anche all’interno dell’Alleanza Atlantica non mancano i sostenitori della tesi sulla penetrazione di al-Qaeda in Corno d’Africa. In un’intervista al quotidiano on line Il Velino, un “alto ufficiale di provenienza NATO” ha dichiarato che la Somalia è “al momento utilizzata per reclutare e addestrare guerriglieri da inviare nelle aree ‘calde’”. “Presto però, si passerà ad altro come gli attacchi terroristici”, ha aggiunto l’anonimo interlocutore. Ricordando il sanguinoso attentato suicida del 12 ottobre del 2000 contro la fregata statunitense USS Cole, ancorata nel porto di Aden, l’ufficiale ipotizza che le flotte militari internazionali anti-pirateria potrebbero essere il prossimo bersaglio di un atto terroristico.
 
Con uno schema propagandistico già sperimentato alla vigilia dell’attacco all’Iraq di Saddam Hussein, gli alti comandi USA e NATO descrivono minuziosamente alleanze e minacce diaboliche, senza fornire però elementi concreti che provino quanto dichiarato. Basta però a creare un clima d’insicurezza generale e legittimare i piani d’intervento militare in Somalia.

Articolo pubblicato in Agoravox.it il 4 maggio 2009

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