Cosa nostra prende il treno

I lavori per il raddoppio della tratta ferroviaria Messina-Palermo: la storia di centinaia di milioni di euro finiti nelle mani delle imprese di mafia. Ma soprattutto una sequela di stragi, omicidi eccellenti, lupare bianche, attentati incendiari.

Una cruenta guerra tra le cosche per accaparrarsi subappalti e commesse, combattuta con la complicità di ampi settori istituzionali. Nel solo decennio 1983-1992 tra Barcellona, Falcone e Milazzo si sono contati più di un centinaio di omicidi ed una ventina di sparizioni forzate. Le vittime torturate, arse vive nei copertoni d’auto, fatte a pezzi e disperse nei greti dei torrenti.

Era il 1981 e le Ferrovie stipulavano il primo contratto con le imprese dei cavalieri di Catania (Costanzo e Graci) per ammodernare uno dei binari più vecchi e lenti d’Italia. Da Patti a Messina, il progetto prevedeva una spesa di oltre 1,800 miliardi di lire. Venticinque anni dopo i lavori non si sono ancora conclusi, i tempi di percorrenza sono quelli di sempre, mentre è scemata la sicurezza per i viaggiatori. Si spara molto di meno ma la ferrovia resta comunque Cosa nostra. Una conferma del controllo mafioso dei lavori è venuta dall’inchiesta "Eris" dei carabinieri del Ros di Messina: a fine settembre sono stati emessi due mandati di cattura ed una ventina di avvisi nei confronti dei boss vecchi e nuovi del barcellonese, dei contigui subappaltatori, di due direttori dei lavori di Italferr, società di engineering di Trenitalia e di ben quattro capocantiere delle imprese committenti, la Ing. Nino Ferrari Costruzioni di Genova e la IRA di Catania, società rilevata dalla stessa Ferrari dopo il crollo dell’impero Graci.

A tessere le trame criminali sulla Messina-Palermo, Carmelo Bisognano, capo della cosiddetta frangia dei "Mazzarroti", alleata dei mafiosi barcellonesi. Bisognano si sarebbe fatto consegnare ingenti somme di denaro da Ferrari e IRA a fronte di sovrafatturazioni per lavori eseguiti dalla ditta di movimento terra "Teresa Truscello", intestata all’ex convivente. Sempre Bisognano, avrebbe costretto le imprese che eseguivano i lavori ad acquistare materiale inerte dalle ditte "F.lli Torre” e “Cogeca”, amministrate dall’imprenditore di Terme Vigliatore, Antonino Torre.

Nel lungo elenco degli indagati compaiono poi i nomi di altri “eccellenti” delle cosche locali: Giovanni Rao e Salvatore Ofria, indicati quali presunti componenti della Commissione mafiosa che governa Barcellona; Nunziato Siracusa (personaggio legato al boss di Terme Vigliatore, Domenico Tramontana, recentemente assassinato); Beniamino Cambria, inseparabile braccio destro di Carmelo Bisognano. Indagato è pure il rappresentante provinciale di Cosa nostra, Sebastiano Rampulla, originario di Mistretta e fratello di Pietro Rampulla, l’artificiere della strage di Capaci. Dall’inchiesta emerge che Rampulla è capace di incidere pesantemente sulle attività che si sviluppano pure nelle province limitrofe a quella peloritana. Egli deve infatti rispondere anche per un’altra estorsione compiuta ai danni dell’IRA, durante i lavori per la costruzione della superstrada Camastra-Gela (anni 2002-2003). Allora i “collettori” del pizzo si erano sentiti scavalcati dal mistrettese e gli esponenti di Cosa nostra ennese, Filippo La Rocca e Raffaele Bevilacqua, erano dovuti intervenire sul Bisognano per reclamare direttamente dall’IRA il denaro arretrato. Il ROS ha pure rilevato che il Rampulla rivendicava il diritto di pretendere denaro dall’IRA per i lavori che l’impresa stava realizzando nella zona di Castelbuono, relativi all’autostrada Messina-Palermo. Unitamente a Carmelo Bisognano, il boss aveva già ottenuto cospicui pagamenti per i lavori autostradali nella zona di S. Stefano di Camastra.

Il sistema estorsivo era perfettamente noto ai manager delle grandi imprese. “L’operazione estorsiva ai danni dell’IRA, per tutta la Sicilia, è condotta direttamente dall’organizzazione mafiosa catanese, mediante un sistema di sovraffatturazioni, il quale a sua volta si distribuisce alle famiglie mafiose delle varie province”, scrivono gli inquirenti. “Si evince altresì che di tale sistema sono al corrente, oltre a Galeazzi Alberto, presidente del consiglio di amministrazione dell’IRA, a Ferrari Francesco, vicepresidente del Cda, ed a Miceli Vincenzo, dipendente dell’IRA addetto alla contabilità, anche l’ing. Tata, direttore generale dell’IRA in Sicilia”. Nessuno degli uomini di vertice delle società “estorte” figura tra gli indagati; gravissime sono però le dichiarazioni rese a giustificazione della discutibile gestione degli appalti ferroviari. “A partire dalla metà del 2003 - ha elegantemente spiegato l’ing. Tata - il sistema è stato unificato, nel senso che come a Catania, anche a Messina l’azienda ha optato per una soluzione che importa il pagamento di una tangente più consistente, ma che le consente di operare con libertà di movimento, nel senso che, mentre in precedenza la ditta era evidentemente vincolata nella scelta di taluni fornitori, con il nuovo sistema poteva muoversi liberamente sul mercato, optando per le soluzioni più convenienti”. Il denaro destinato al pagamento del pizzo? Contabilizzato dalle imprese con fatture gonfiate, grazie alle frodi nell’esecuzione delle opere ferroviarie e conseguente grave rischio per la sicurezza dei passeggeri (si parla di “evidenti difetti di livello nelle vie di corsa per i treni, uso di manicotti e gabbie di ferro di dimensioni ridotti, ecc.”). Per alcuni è così scattata l’imputazione, oltre che di frode nell’esecuzione dei contratti d’appalto, di “attentato alla sicurezza dei trasporti”.

È ancora vivissimo nella memoria quanto accaduto a Rometta il 20 luglio del 2002: la rottura di un giunto provvisorio sul quale non era stata effettuata la dovuta manutenzione causò il deragliamento dell’Espresso Palermo-Venezia. Otto morti e 47 feriti il bilancio di quella strage. Il giunto, secondo i periti, sarebbe “stato sostenuto da due e non da quattro morsetti come richiesto dalle norme di sicurezza”. I lavori di manutenzione erano stati appaltati ad un consorzio in cui compariva una piccola aziende di Corleone, la Lavorfer, amministrata da tale Stefano Alfano, nipote di Michelangelo Alfano, rappresentante di Cosa nostra a Messina sino al suo recente “suicidio”. Per decenni le Ferrovie dello Stato gli avevano affidato la pulizia delle vetture in Sicilia. Nel 2002 la Questura aveva segnalato la Lavorfer come una delle società “nell’orbita di Michelangelo Alfano”, ma il Tribunale non ne aveva tenuto conto nel provvedimento di sequestro dei beni del mafioso. Poi la gara per i lavori a Rometta e il deragliamento. Quattro anni più tardi, i viaggiatori sulla Messina-Palermo continuano a rischiare l’inferno.

Articolo pubblicato in Terrelibere.org il 30 novembre 2006

Commenti

  1. Salve
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