Da Minneapolis alle piazza italiane, la longa manus della polizia d’Israele
Non
riesco a respirare. Non
riesco a respirare. Non riesco a
respirare. Le ultime parole dell’afroamericano George Floyd, barbaramente
trucidato da un agente di polizia a Minneapolis, hanno prodotto una lacerante
ferita nella coscienza degli Stati Uniti d’America che non potrà mai più essere
rimarginata. Non è la prima volta che un crimine efferato, marcato dal razzismo
xenofobo e classista, è stato ripreso da una telecamera e trasmesso in modo
virale da tv e social network. La novità, forse, sta nelle difficoltà narrative
del potere nel giustificarne le ragioni di “ordine pubblico” e “difesa della
proprietà privata” sino a tentare in extremis la colpevolizzazione del singolo
per salvare l’intero sistema polizial-repressivo Usa.
Acuti osservatori e le
associazioni che lottano in difesa dei diritti del popolo palestinese hanno
fatto osservare come le immagini di Minneapolis sono del tutto identiche a
quelle che vengono registrate quotidianamente a Gerusalemme, West Bank, Gaza,
Golan, Libano, ecc., dove impunemente operano le forze di polizia e i militari israeliani
nel “contenimento” delle proteste e nella repressione di ogni forma di
opposizione alla violenza strutturale del regime sionista di occupazione. La
rassomiglianza dei corpi schiacciati sotto scarponi, pistole e mimetiche non è
casuale, purtroppo. Si tratta infatti di tecniche
d’intervento apprese negli stessi centri di “formazione” dagli stessi
“addestratori”: le scuole di polizia e delle forze armate dello Stato d’Israele
e le innumerevoli agenzie-aziende private sorte ovunque con investimenti e
personale-veterano provenienti dal complesso militare-industriale israeliano.
Negli Stati Uniti d’America
la criminal connection Tel Aviv –
polizie locali, distrettuali e interdipartimentali è notoria da tempo ed è
stata documentata e denunciata anche da Amnesty International. In un report dell’agosto
del 2016, l’ong poneva l’indice su un’incomprensibile omissione del Dipartimento
della Giustizia Usa, che pur stigmatizzando le “diffuse violazioni
costituzionali, l’aumento delle discriminazioni e la cultura di ritorsione”
all’interno del Dipartimento di Polizia di Baltimore (responsabile di crimini
analoghi a quello commesso a Minneapolis), non ne aveva ricordato gli
strettissimi legali con Israele. “La polizia nazionale, i militari e i servizi
d’intelligence israeliani hanno addestrato la Polizia di Baltimora al controllo
della folla, all’uso della forza e alla sorveglianza”, scriveva Amnesty
International. “Gli ufficiali e gli agenti di polizia di Baltimora, insieme a
centinaia di altri provenienti dalla Florida, dal New Jersey, dalla
Pennsylvania, dalla California, dal Connecticut, da New York, dal Massachusetts, dal
North Carolina, dalla Georgia, dallo Stato di Washington così come la polizia
della capitale, si sono recati in Israele per attività addestrative. Migliaia
di altri poliziotti sono stati addestrati da ufficiali israeliani negli Stati
Uniti. Molti di questi viaggi sono stati finanziati con fondi pubblici mentre
altri da privati. A partire del 2002, l’Anti-Defamation League, l’American
Jewish Committee’s Project Interchange e il Jewish Institute for National
Security Affairs hanno pagato la formazione in Israele e nei Territori occupati
dei capi della polizia e dei sottoposti. Ciò nonostante Amnesty International,
altre organizzazioni dei diritti umani e lo stesso Dipartimento di Stato abbiano
citato la polizia israeliana per aver eseguito esecuzioni extragiudiziarie e
altri omicidi illegali, utilizzato trattamenti disumani e la tortura (anche
contro bambini), soppresso la libertà di espressione ed associazione ed ecceduto
nell’uso della forza contro pacifici manifestanti”.
A cooperare con Tel Aviv per
l’addestramento alla “gestione dell’ordine pubblico” di unità d’élite e di polizia
ci sono anche numerosi paesi latinoamericani, Cile, Colombia e Brasile in
testa. E l’Italia, storico partner politico-strategico d’Israele? In verità
assai poco si sa in merito e le uniche notizie trapelate sui media si son
soffermate sull’uso da parte di Polizia di stato, polizie locali e Arma dei
carabinieri di mini-droni e di sofisticate tecnologie di videosorveglianza,
intelligence e informatiche prodotti nei distretti industriali e accademici
israeliani. Eppure fra il Governo della
Repubblica italiana e quello dello Stato di Israele
esiste un Accordo
in materia di pubblica sicurezza, sottoscritto a Roma
il 2 dicembre 2013 dal’allora ministro dell’Interno, Angelino Alfano, e dal ministro
di Pubblica sicurezza israeliano, Yitzhak
Aharonovitch L’Accordo, ratificato dalle Camere
con voto bipartisan il 19 maggio 2017, copre una ampio spettro di attività di
interscambio e collaborazione tra le forze di polizia dei due stati. “I Governi di Italia e Israele – si legge nella
lunga premessa all’Agreement -
riconoscono il reciproco interesse a cooperare al fine di proteggere dalle
minacce i propri popoli, beni ed interessi, contrastando la criminalità in
genere al fine di garantire la sicurezza pubblica; (sono) consapevoli che i
fenomeni criminali connessi con la criminalità organizzata, la migrazione
illegale, la tratta di esseri umani, il commercio illecito di stupefacenti,
sostanze psicotrope e precursori di droghe, colpiscono in modo considerevole
entrambi gli Stati, pregiudicando sia la sicurezza, che l’ordine pubblico che
il benessere e l’incolumità fisica dei propri cittadini; (sono) desiderosi di
agevolare e sviluppare la cooperazione fra di loro, anche attraverso lo scambio
di conoscenze, esperienze, informazioni e tecnologie”.
L’articolo
2 dell’Accordo elenca i settori di “prevenzione e repressione” a cui dovrebbero
collaborare il Dipartimento della Pubblica sicurezza del Ministero dell’Interno
e il Ministero della Pubblica sicurezza israeliano: “contro” la criminalità
organizzata transnazionale e i trafficanti di persone, droghe, armi, munizioni
ed esplosivi; i reati contro il patrimonio, compresa la tutela dei beni di
valore storico e culturale; i reati economici e il riciclaggio; la criminalità
informatica e, dulcis in fundo, il “terrorismo”, termine utilizzato
indiscriminatamente a livello globale per reprimere ogni forma di dissenso al
modello neoliberista.
L’art.
3 elenca invece le forme di cooperazione
bilaterale: “lo scambio delle informazioni su reati, organizzazioni criminali,
il loro modus operandi, le loro strutture e i loro contatti; i tipi di
stupefacenti, i luoghi e i metodi di produzione, i canali e i mezzi utilizzati
dai trafficanti, le tecniche di occultamento, nonché i metodi di funzionamento
dei controlli antidroga alle frontiere e l’impiego di nuovi mezzi tecnici; i
metodi per il contrasto alla migrazione illegale; i passaporti ed altri
documenti di viaggio, visti, timbri di ingresso ed uscita; le infiltrazioni
criminali nelle società che partecipano a procedure di appalto per lavori
pubblici; la formazione e l’aggiornamento professionale e lo scambio di
esperienze relative alla gestione dell’ordine pubblico in occasione di grandi
eventi e manifestazioni di massa; i metodi scientifici e gli strumenti
tecnologici applicati nel settore della pubblica sicurezza; le unità
artificieri, i metodi e le tecnologie impiegate nell’individuazione di ordigni
e materiali esplodenti; i sistemi adottati per la protezione di infrastrutture
e obiettivi sensibili; lo svolgimento di operazioni congiunte quale supporto
alle iniziative di carattere info-investigativo e allo scambio dei dati sui
soggetti sospettati di essere implicati in attività criminali, ecc.”. Settori
tutti delicatissimi e in cui sono sterminate le informazioni condivise con la
polizia partner che poi avrà piena autonomia e pieni poteri per farne ciò che
vuole. E di certo non ridimensiona timori e inquietudini quanto si legge
all’art. 8 dell’Accordo in materia di
pubblica sicurezza, secondo cui “ciascuna Parte garantisce un livello di
protezione dei dati personali acquisiti conforme a quello assicurato dall’altra
Parte e adotta le necessarie misure tecniche per tutelarli dalla distruzione
accidentale o illecita, dalla perdita, dalla diffusione o dall’alterazione
accidentali, dall’accesso non autorizzato o da qualsiasi tipo di trattamento
non consentito”. Ampie inoltre le garanzie di impunità e di azione che
potrebbero essere assicurate ai criminali-terroristi
“amici” o agli agenti segreti in missione speciale. L’art. 5, infatti, prevede
che “la richiesta di assistenza può essere rifiutata in tutto o in parte se l’Autorità
competente osserva che la sua esecuzione potrebbe compromettere la sovranità,
la sicurezza interna, l’ordine pubblico o altri interessi fondamentali del
proprio Stato”.
Si
prevede anche l’istituzione di un Gruppo
di Lavoro Congiunto a cui affidare il compito di discutere e approvare
ulteriori programmi di cooperazione e “concordare” scambi di delegazioni e il
“distacco” di esperti per la sicurezza, soprattutto per quanto attiene allo
scambio di informazioni e all’adempimento di richieste di assistenza. L’Accordo
del 2 dicembre 2013 ha durata illimitata, ma attribuisce alle due Parti la
facoltà di sospenderne temporaneamente l’attuazione “se tale provvedimento
risulta necessario per garantire la sicurezza dello Stato e dell’ordine
pubblico, oppure la sicurezza e la salute dei suoi cittadini”. Da ciò che si
evince dall’ultimo paragrafo, con l’entrata in vigore dell’agreement bilaterale
veniva a decadere infine un accordo tra il Governo italiano e quello di Israele
“sulla cooperazione nel contrasto del traffico illecito di sostanze
stupefacenti e psicotrope, il terrorismo ed altri reati gravi”, firmato il 10
febbraio 2005 a Gerusalemme.
A
porre le basi del nuovo e più ampio modello di collaborazione tra le forze di
polizia italiane e quelle israeliane era stata la missione a Tel Aviv e
Gerusalemme, il 18 e 18 gennaio 2010, dell’allora
Capo della Polizia, prefetto Antonio Manganelli, prematuramente scomparso tre
anni dopo. “Rafforzare la cooperazione e intensificare lo scambio
di informazioni per lottare insieme contro il terrorismo e i crimini
informatici: sono questi gli argomenti principali su cui sono incentrati gli incontri
operativi che il dott. Manganelli ha avuto in Israele”, si legge sul sito
istituzionale della Polizia di Stato, l’unico che ha documentato l’evento con
dovizia di particolari. “L’obiettivo è quello di dar vita a un gruppo di
esperti che possa rendere permanente lo scambio di esperienze in questi settori
(…) Il prefetto Manganelli ha incontrato alti funzionari della sicurezza locali
e discusso con loro delle strategie comuni da intraprendere e il ministro
israeliano della Sicurezza interna, Yitzhak Aharonovitch”. Quest’ultimo,
come abbiamo visto, avrebbe poi apposto la propria firma all’Accordo insieme al
ministro Alfano. Già generale e comandante in capo della polizia di confine, Aharonovitch
ha guidato a fine anni ’90 le forze di polizia schierate in West Bank;
lasciata la vita politica, riveste oggi l’incarico di presidente di IMI Systems
(ex Israel Military Industries), uno dei maggiori gruppi industriali
israeliani produttori di mezzi da guerra terrestri, armi e munizioni,
recentemente acquisito dall’holding Elbit Systems.
“Nella stessa mattina, il capo della Polizia italiana
si è recato a Tel Aviv per incontrare il direttore generale del ministero della
Difesa, Oudi Shami, che è anche responsabile della protezione delle
infrastrutture industriali e strategiche”, prosegue la nota della Polizia di
Stato. “L’obiettivo è lo scambio di informazioni sui sistemi di contrasto della
criminalità cybernetica e di servizi di polizia informatica. Un settore nel quale - ha rimarcato
Antonio Manganelli – l’Italia, con la
specializzazione raggiunta dalla polizia postale, può vantare un ruolo
riconosciuto di leadership mondiale al fianco di Usa, Gran Bretagna e Canada”.
Nel
corso della missione in Israele, l’allora capo della Polizia italiana si
incontrava pure con l’omologo responsabile delle forze di polizia israeliane
Dudi Cohen, il vice capo Ilan Franko e il direttore generale della Pubblica
sicurezza del ministero dell’Interno, Hagai Peleg. “Fra i temi specifici
affrontati non è stato tralasciato neanche quello - molto attuale - della
possibile introduzione del body scanner
negli aeroporti internazionali”, aggiungeva l’ufficio stampa della Polizia. Uno strumento delicato, ha dichiarato il
Prefetto, la cui efficacia dipende
soprattutto da un contesto di cooperazione internazionale e dall’individuazione
di una best practice comune”.
Alla
“storica” visita del prefetto Manganelli, il sito istituzionale della Polizia
di Stato italiana dedicava un altro articolo in data 21 gennaio 2010. “Non
solo di sicurezza e lotta al terrorismo si è parlato nei due giorni di
incontri che il capo della Polizia
italiana ha avuto con i vertici della sicurezza israeliani; ma anche di
tecniche di protezione delle personalità di Governo e dei pentiti e di lotta al
traffico di droga, di esseri umani e al riciclaggio di denaro sporco oltre che
di temi di attualità come la sicurezza dei viaggiatori”, vi si legge. “L’intenzione
è di attivare al massimo comuni sinergie
in tutti questi settori e dare vita ad un gruppo di lavoro congiunto
italo-israeliano capace di rendere efficace lo scambio di informazioni e di
esperienze rafforzando così la cooperazione tra i due Paesi, già stabilita con
un accordo firmato nel 2007 (Si tratta di un altro agreeement oltre a quello firmato
invece il 10 febbraio 2005 a Gerusalemme? Nda)”.
“Nei colloqui con i vertici
della sicurezza israeliana sono stati individuati gli obiettivi specifici su
cui poter lavorare insieme, ma soprattutto sono state messe in evidenza le
migliori esperienze operative di ciascun Paese che possono esser messe a
fattore comune per una collaborazione sempre più proficua”, prosegue l’articolo
della Polizia di Stato. “L’Italia può mettere a disposizione l’esperienza
maturata sul fronte del contrasto della criminalità organizzata, a cominciare
dai programmi di protezione dei testimoni
e di gestione logistico-amministrativa
dei collaboratori di giustizia; lo Stato ebraico a sua volta può
condividere la sua pratica nel settore della protezione individuale delle personalità e in generale delle tecniche di lotta al terrorismo, anche
attraverso l’intensificazione dei programmi di addestramento comuni già avviati
dai Reparti speciali della polizia italiana, i Nocs, con i loro colleghi
israeliani…”.
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