Inferno Afghanistan. Gli orrori e gli errori dell’Occidente

 


E’ nota la recente, triste storia afgana. Ce l’hanno fatta vedere, in piccola parte, i media, le narrazioni dei giornalisti. Storia ampiamente in mani occidentali. Mani americane e mani alleate. Trafficanti esportatori di democrazia. Storia di errori e di orrori, alcuni solo intravisti. Né potevano mancare le sofferenze dei bambini e delle donne. Le cronache continuano, anche dopo il 31 agosto, a essere nere, spietate. L’Afghanistan è stato ed è un tragico girone infernale. Lo sarà ancora, chissà fino a quando, a spesedi milioni di inermi afgani. Mai entrati, veramente, nel cuore e nella mente dei governi occidentali.

Peggio di così non poteva finire la ventennale missione di guerra USA e NATO in Afghanistan. La rapidissima rioccupazione del paese da parte delle milizie talebane; il disordinato esodo da Kabul dei marines e l’abbandono di un immenso arsenale di morte in mani “nemiche”; le immagini dell’aeroporto della capitale con donne e bambini tenuti lontani dagli ingressi a colpi di bastone e manganelli; le autobombe che disseminano morte tra chi spera ancora di essere portato in salvo in Europa o negli States; la vile vendetta occidentale con i missili lanciati dai droni killer contro innocenti famiglie. Vent’anni di attacchi aerei e sangue, tantissimo sangue, in nome della “lotta al terrorismo” e dell’“interventismo umanitario”, conclusisi con un fallimento globale. La sconfitta sul campo di battaglia del modello strategico elaborato a Washington ma su cui si è poi plasmata la nuova NATO: l’imposizione della stabilità e della democrazia a suon di bombe ed il supporto di regimi autoritari, corrotti e privi di alcun sostegno popolare.

Quanto è accaduto in Afghanistan è una dolorosa lezione per l’umanità intera e per le future generazioni, ammesso che gli storici e i politologi vogliano finalmente disintossicarsi dalle zoppe narrazioni e dalle menzogne che sono state diffuse dai vertici militari e dall’establishment occidentale. A partire da quello che è stato un vero e proprio peccato originale: l’aver imputato al regime talebano il sostegno e la protezione delle cellule di Al Qaida e di Osama bin Laden, “rei” - sempre secondo l’amministrazione USA - di aver diretto i sanguinosi attentati terroristici dell’11 settembre 2001, legittimando così l’avvio dell’operazione Enduring Freedom (Libertà duratura) in territorio afgano. Un facile capro espiatorio per l’amministrazione Bush, al tempo sensibilissima agli interessi delle transnazionali energetiche per il controllo degli oleodotti euroasiatici, che consentì contestualmente di occultare l’adesione della famiglia bin Laden (già partner economico dei Bush) al “wahhabismo”, il movimento rigorista sunnita diffusosi in Medio oriente nel XVIII secolo e rilanciato dai sovrani dell’Arabia Saudita, paese alleato di Washington e della NATO nella “lotta al terrorismo”. Peccato però che l’esportazione saudita del pensiero wahhabita abbia dato vita a una pluralità di movimenti islamisti radicali nell’area afghano-pakistana, in Caucaso ed Asia centrale, alcuni dei quali per anni in busta paga della CIA perché schieratisi militarmente contro i “nemici” sovietici (vedi ad esempio i mujahidin in Afghanistan, guidati allora da un giovanissimo Osama bin Laden).

Responsabilità tutta e sola di Joe Biden?

Il via alle operazioni di occupazione militare e politica dell’Afghanistan da parte degli Stati Uniti d’America e dei partner dell’Alleanza Atlantica fu deciso unilateralmente, bypassando le Nazioni Unite e le legittime riserve delle altre potenze del Consiglio di Sicurezza (Russia e Cina). Un secondo peccato originale i cui esiti militari e diplomatici sono oggi sotto gli occhi di tutti. Ci fu in verità una risoluzione dell’ONU (la n. 1386 del 20 dicembre 2001) che provò a ridare un po’ di legalità internazionale all’intervento di Washington, ma l’effetto fu ancora peggiore. Nel gennaio 2002 prese il via la missione ISAF (International Security Assistance Force) a guida NATO, con una forza di intervento internazionale di quasi 60.000 militari a sostegno della fragilissima Autorità provvisoria afgana guidata da Hamid Karzai, membro di una famiglia del gruppo etnico-linguistico Pashtun (Afghanistan sud-orientale), già uomo di contatto tra la CIA e i mujahidin e sostenitore dei Talebani perlomeno sino al 1995.

Nonostante capi di stato, forze politiche e sociali, generali ed ammiragli, grandi network radiotelevisivi abbiano fatto a gara per stigmatizzare l’amministrazione Biden per la decisione e le modalità di ritiro delle truppe dal paese asiatico, non è onesto intellettualmente prescindere dalle altrettanto gravi responsabilità della NATO, l’istituzione che a fianco (o, meglio, troppo spesso al seguito) di Washington, ne ha condiviso la disastrosa disavventura e la debacle finale. E’ stato infatti in ambito NATO che sono state pianificate e decise le missioni di “pacificazione” dell’Afghanistan. Sono stati gli alleati NATO a fornire truppe, aerei e carri armati per le operazioni di guerra, assumendosi anche l’onere dei comandi d’area e dell’addestramento e del riarmo delle ricostituite forze armate e di polizia afgane. E sono stati numerosi i partner NATO ad assicurare a Washington le basi e le installazioni militari nel vecchio continente per gli attacchi aerei - anche con l’ausilio dei famigerati droni killer - che tante vittime hanno mietuto tra i civili afgani e del confinante Pakistan. Infine va sottolineato come la NATO abbia sempre sostenuto pubblicamente e unanimemente il processo di “dialogo” dell’amministrazione Trump con i leader talebani, sancito nel febbraio 2020 con l’accordo sul progressivo ritiro dei militari USA e l’avvio a Doha (Qatar) dei cosiddetti intra-Afghan talks, gli ambigui colloqui “di pace” tra le autorità nazionali e i talebani. Così, sempre in ambito NATO, è stata elaborata la fallimentare exit strategy della Resolute Support Mission (la missione alleata subentrata nel 2015 all’operazione ISAF), poi formalmente assunta dal Consiglio Atlantico il 15 aprile 2021 e che oggi viene ipocritamente imputata solo all’amministrazione Biden.

Un oceano di sangue

In verità né gli Stati Uniti né i propri partner internazionali avrebbero potuto estendere a tempo indeterminato l’intervento armato in territorio afgano, sia per i suoi esiti del tutto fallimentari, sia per gli insostenibili costi umani e finanziari. The Costs of War Project, il database sulle spese del conflitto afgano del Watson Institute della Brown University (Providence, Rhode Island), riporta che dall’invasione statunitense del 2001 all’agosto 2021 sono state almeno 241.000 le persone morte a causa della guerra (174.000 in Afghanistan e 67.000 in Pakistan). Impressionante il numero di civili che hanno perso la vita durante i combattimenti: 71.344, il 40% dei quali minori di età.

Gli ultimi tre anni di conflitto, a differenza di quanto narrato dalle cancellerie e dai commentatori tv, sono stati caratterizzati da un’escalation del numero degli attacchi e delle vittime, civili e militari. Il quadro oggettivo di quanto accaduto è stato descritto dalla Missione di Assistenza in Afghanistan delle Nazioni Unite (UNAMA). “Nel 2020 l’impatto negativo del conflitto sulle donne e sui bambini si è fatto più evidente”, scrive UNAMA. “Donne e bambini, insieme, rappresentano il 43% di tutte le vittime civili (complessivamente 390 donne uccise e 756 ferite, mentre il bilancio per i minori è di 760 morti e 1.859 feriti)”. Mai, in passato, era stato registrato dalle Nazioni Unite un numero così alto di donne tra le vittime del conflitto.

Altro mito da sfatare è quello relativo all’identità “terrorista” dei responsabili dei crimini e delle stragi compiuti a danno della popolazione. Se è vero che nel corso del 2020 il maggior numero di vittime è stato fatto dalle milizie talebane, le forze armate e di polizia del governo afgano e i militari della coalizione internazionale a guida NATO si sono resi responsabili di innumerevoli attacchi contro obiettivi civili con un conseguente sanguinoso tributo di vite umane. Sempre secondo UNAMA, lo scorso anno, i civili colpiti dalle operazioni attribuite all’Afghan National Army sono stati 1.906 (674 morti e 1.232 feriti), un dato del +13% rispetto al 2019. UNAMA ha invece attribuito alle forze militari internazionali la morte di 89 persone e il ferimento di 31. Gli strike aerei dell’Afghan Air Force e delle forze armate straniere sono state la quarta causa di morte di bambini nel 2020: 103 i minori uccisi dall’aeronautica afgana, 36 dalle forze internazionali. Tra le stragi più efferate, quella del 26 ottobre con un attacco aereo USA contro un commando talebano e l’assassinio “incidentale” di tre bambini. Quattro giorni dopo, ancora una volta i missili statunitensi hanno colpito una scuola religiosa uccidendo 12 bambini e ferendo 14 civili.

La tragedia di essere bambini

Altro aspetto meno noto degli ultimi anni è quello del reclutamento forzato di minori da parte di tutti gli attori armati. “Nel corso del 2020 è proseguito il reclutamento dei bambini per le operazioni di guerra e per fini sessuali, particolarmente da parte dei gruppi armati e delle forze di sicurezza afgane (milizie filo-governative e polizia locale)”, scrive UNAMA nel suo ultimo report. Secondo Human Rights Watch, sono migliaia i bambini reclutati sia per ruoli di combattimento sia di supporto agli attori militari, in violazione del diritto internazionale. “I talebani, il gruppo armato estremista dello Stato islamico-provincia di Khorasan (noto anche come ISIS-KP) e altri gruppi armati hanno usato i bambini per compiere attacchi suicidi, piazzare ordigni esplosivi e partecipare alle ostilità”, aggiunge l’Ong statunitense. “Centinaia di bambini sono attualmente detenuti per un presunto coinvolgimento con i gruppi armati e sono spesso vittime di tortura in strutture gestite dalle forze di sicurezza del governo”. Con l’accusa di terrorismo, numerosi minori sono stati condannati fino a 15 anni di carcere o sottoposti a detenzione a tempo indeterminato unicamente a causa della possibile vicinanza dei loro genitori con le milizie armate.

La guerra ha contribuito alla diffusione generalizzata della violenza sessuale a danno dei minori, fenomeno raramente denunciato e inadeguatamente perseguito in Afghanistan. “Nel 2020 – aggiunge UNAMA - ragazzi e ragazze hanno continuato ad essere sottoposti a violenza sessuale da parte di tutti gli attori del conflitto, con pratiche orribili, incluso il rapimento e la bacha bazi (una forma di pedofilia istituzionalizzata diffusa in tutta la regione settentrionale dell’Afghanistan, nda), mai davvero contrastata e repressa anche in tempi recentissimi dato che coinvolge molti appartenenti alle autorità politiche-militari e alle forze di polizia”. I vent’anni di occupazione militare occidentale hanno contribuito pochissimo a migliorare le condizioni di vita dei minori in termini di accesso all’istruzione e alla salute. Secondo l’UNICEF, alla vigilia della controffensiva talebana erano ancora 3.700.000 i bambini che non andavano a scuola in Afghanistan (2 milioni le ragazze), mentre erano oltre 7.000 le scuole prive di edifici ed aule.

Altrettanto insufficienti, secondo Amnesty International, i “progressi” relativi al riconoscimento dei diritti delle donne e alla riduzione delle gravissime discriminazioni di genere. “Le donne e le ragazze continuano ad essere sottoposte a violenze, molestie e intimidazioni in tutto l’Afghanistan, specialmente nelle aree sotto il controllo dei Talebani, dove i loro diritti sono violati e sono sottoposte a punizioni impunite e violente per comportamenti percepiti come trasgressivi dall’interpretazione della legge islamica da parte dei gruppi armati”. Ma anche nelle aree sotto il controllo governativo la violenza di genere è “rimasta cronicamente sottostimata e le donne sono spesso vittime di rappresaglie o perdono il sostegno delle autorità se esse decidono di denunciare”, aggiunge Amnesty. Inoltre la “partecipazione alla vita amministrativa e politica è rimasta del tutto limitata in questi vent’anni, mentre le poche donne con ruoli di governo sono state vittime di intimidazioni e discriminazioni”.

I fallimenti delle trattative

Dopo il rapido crollo del governo e delle forze armate afgane si è aperto un dibattito generale sull’incapacità di Washington e del comando dell’Alleanza di Bruxelles a comprendere in anticipo la portata della sconfitta e del fallimento del processo di “pacificazione” afgano. All’indice ci sono soprattutto i cosiddetti “accordi di Doha” del febbraio 2020 tra l’allora amministrazione Trump e i vertici talebani, in cui fu sancito il ritiro delle truppe USA, lo scambio di prigionieri tra il governo di Kabul e i gruppi armati e l’avvio dei colloqui intra-afgani per una soluzione politica del pluridecennale conflitto. Come già detto, non è corretto imputare solo a Washington l’esito fallimentare di quell’accordo, non fosse altro che non c’è stato governo alleato che ne abbia mai apertamente criticato iter e contenuti. Di contro, specie tra gli analisti indipendenti e le maggiori organizzazioni non governative, non sono mancate le critiche puntuali alla tenuta dell’intero processo. A un anno dall’accordo di Doha, quanto accaduto in Afghanistan ha evidenziato la fragilità di un accordo sbilanciato, modellato sulle esigenze politiche ed elettorali del presidente Donald Trump, alfiere dell’America First anche nel paese centroasiatico, piuttosto che sulle aspettative degli afgani, sulle esigenze del governo di Kabul o su meccanismi e tempi necessari a condurre alla pace”, scrive il ricercatore Giuliano Battiston dell’ISPI - Istituto per gli Studi di Politica Internazionale di Roma. Amnesty International ha invece evidenziato l’assenza nei colloqui dei rappresentanti dei comitati delle vittime del conflitto e delle ONG. “Gli accordi di pace tra gli Stati Uniti e i Talebani non hanno fatto alcuna menzione ai diritti umani o alle donne”, scrive AI. “Inoltre nell’agreement, l’impunità per gravi crimini riconosciuti dal diritto internazionale è stata mantenuta a favore di tutte le parti”.

Se ristrettissimo è stato il numero delle donne ammesse a parteciparvi (solo per conto delle autorità governative), ha certamente minato l’esito delle “trattative” l’estromissione di altri importanti soggetti politici e militari, anche per l’incapacità occidentale di voler comprendere e legittimare realmente la complessità e l’eterogeneità di tutti gli attori coinvolti nel conflitto. Sono stati volutamente tenuti fuori dagli intra-Afghan talks i combattenti di Al Qaeda, stimati dall’intelligence occidentale in 400-600 unità e presenti principalmente nelle province dell’Afganistan sud-orientale. Sempre secondo UNAMA, Al Qaeda “opera prevalentemente sotto gli auspici dei talebani e in congiunzione con altri gruppi anti-governativi”, ma sono diversi gli studiosi che ritengono molto più controversi e conflittuali i loro rapporti con le milizie fondamentaliste tornate oggi alla guida dell’Afghanistan. A rendere ancora più difficoltose e problematiche le interpretazioni sulla vastità del conflitto politico-militare in corso e sui suoi possibili esiti a medio termine, la presunta crescita in territorio afgano delle milizie dell’ISIL-KP (Islamic State in Iraq and Levant – Khorasan Province), insediatosi formalmente a partire del gennaio 2015, dopo la riorganizzazione e il parziale riallineamento ai gruppi filo-ISIS in Siria e Iraq di alcune fazioni dissidenti provenienti dai gruppi talebani, dal Movimento Islamico dell’Uzbekistan e dai Tehrik-e-Taliban del Pakistan. Secondo le Nazioni Unite, attualmente l’ISIL-KP sarebbe presente nell’Afghanistan orientale, prevalentemente nelle province di Nangarhar e Kunar, con una forza militare stimata in 2.500 unità.

L’Afghanistan è stato ed è un tragico girone infernale. E lo sarà ancora chissà per quanto, sulla pelle e il sangue di milioni di inermi cittadini che nonostante i falsi proclami di “assistenza umanitaria” non sono stati mai nei cuori e nelle menti delle transazionali e dei governi dell’Occidente.

 

Articolo pubblicato in Segno, n. 430 , ottobre-dicembre 2021

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