Con le “armi autonome letali” alla conquista del continente africano
Un killer robot, occhi di vetro e cuore di acciaio, a cui i moderni dottor Stranamore intendono delegare l’ultima decisione sulla vita e la morte dell’umanità intera. Se uccidere, quando uccidere, come uccidere.
In
gergo tecnico-bellicista vengono definite LAWS
(Lethal Autonomous Weapons), cioè armi
autonome letali e sono dispositivi in grado di operare autonomamente, selezionando
e colpendo un bersaglio senza controllo o indicazione umana. Intelligenze
artificiali, super-sensori di movimento, apparati elettronici per il
riconoscimento facciale, droni armati del tutto indipendenti. Il complesso
militare-industriale-scientifico-accademico sta pensando a tutto mentre i
governi delle grandi e medie potenze militari scelgono di non capire e non
vedere. Però intanto finanziano la ricerca a suon di miliardi di dollari.
Il 2
dicembre 2021 il Gruppo di esperti della Convenzione
delle Nazioni Unite sulle Armi Convenzionali si è dato appuntamento per
decidere se avviare i negoziati sui sistemi d’arma autonomi. In vista
dell’appuntamento Amnesty International e Campaign
to Stop Killer Robots, la coalizione di 160 organizzazioni non governative di
65 paesi che promuove le iniziative per mettere al bando le LAWS, hanno lanciato una petizione che
chiede a tutti i Governi l’adozione di norme internazionali per vietarne la
produzione e l’uso. A sostenere l’iniziativa anche il Segretario Generale
delle Nazioni Unite, il Comitato internazionale della Croce Rossa e
numerosi premi Nobel per la pace e la ricerca scientifica.
“I killer robot potrebbero uccidere esseri umani senza alcun coinvolgimento
umano nella selezione degli obiettivi e nell’impiego di una forza letale”,
spiegano i promotori del campagna. “Le Lethal Autonomous Weapons somigliano ai droni armati, ma nell’impiego
di questi ultimi sistemi c’è ancora un chiaro e significativo
coinvolgimento umano. Affidare a delle macchine la gestione dell’uso della
forza renderà più facile decidere di entrare in guerra. Inoltre le macchine non
possono fare scelte di tipo etico in situazioni imprevedibili sul piano bellico; impiegarle
in guerra così come in operazioni di polizia o nel controllo delle frontiere
potrebbe avere conseguenze disastrose”.
Si
prospettano dunque scenari da incubo.
“Permettere a delle macchine di prendere decisioni in materia di vita o di
morte potrebbe causare violazioni gravissime delle leggi di guerra e dei
diritti umani e intensificare la de-umanizzazione digitale della
società, riducendo le persone a dati da processare”, denuncia Riccardo Noury,
portavoce di Amnesty International Italia. Ma le nuove tecnologie letali rischiano di avere una ricaduta pericolosamente destabilizzante sulle
strategie e i processi di riarmo nucleari. Burgess Laird, ricercatore
della Rand Corporation (uno dei più autorevoli think tank statunitensi), autore
di un saggio sui Rischi dei sistemi
d’arma autonomi per il futuro confronto USA-Russia, scrive che le LAWS “possono cambiare radicalmente le
percezioni del dominio strategico, accrescendo il rischio degli attacchi
nucleari preventivi e l’uso combinato di armi chimiche, biologiche,
radiologiche e nucleari”.
La
richiesta di negoziati per l’adozione di norme internazionali che impediscano
l’escalation globale delle armi autonome
letali è fortemente osteggiata dalle superpotenze nucleari come Stati
Uniti, Russia, e Cina e dalle potenze emergenti come Israele, Corea del Sud,
Australia, India e Turchia. Sono state destinate ingenti risorse finanziarie ad
aziende, università e centri scientifici pubblici e privati per la ricerca e lo
sviluppo di questi sistemi. Solo il Pentagono ha destinato alle armi autonome 18 miliardi di dollari tra
il 2016 and il 2020 e sul mercato esistono oggi più di 130 sistemi militari che
possono tracciare autonomamente i bersagli e, in alcuni di essi, le
intelligenze artificiali sono in grado di ordinare gli strike.
Le LAWS hanno già fatto il loro debutto
negli scenari reali di guerra: secondo un recente report del pool di esperti
delle Nazioni Unite che monitorano il conflitto in Libia, il
27 marzo 2020 uno sciame di mini-droni ha attaccato le forze fedeli al generale
Haftar causando alcune vittime. “La novità che riguarda questo attacco è legata
al tipo di droni utilizzati, ovvero gli Stm Kargu-2, del tutto autonomi, privi
di un operatore umano che li pilota da remoto o che decide se e quando fare
fuoco”, scrive il quotidiano Domani.
Il Kargu-2 rientra tra i
cosiddetti droni kamikaze, cioè i mini-velivoli senza
pilota che al posto di telecamere e visori imbarcano bombe ed esplosivi;
avvistato l’obiettivo si lanciano in picchiata e si fanno esplodere al momento
dell’impatto. Per questo i droni kamikaze vengono classificati anche
come loitering munitions, cioè
munizioni che esplodono quando raggiungono l’obiettivo.
Il Kargu-2 impiegato nel
conflitto libico è stato prodotto in Turchia dall’azienda privata STM. La
Repubblica presieduta da Recep Tayyp Erdogan è
una delle principali produttrici mondiali di droni, loitering munitions e sistemi semi-automatizzati, con ben 536
aziende attive nel settore. Dopo averli sperimentati dal vivo contro la
popolazione e le milizie kurde, le armi disumanizzate turche vengono esportate
a innumerevoli clienti internazionali, specie in Caucaso e nel continente
africano. L’Asia centrale e l’Africa sono le destinazioni prioritarie anche
degli innumerevoli sistemi di morte indipendenti
made in Israele. Le holding industriali di Ankara e Tel Aviv stanno pure
esternalizzando in Africa la produzione di armi
letali, puntando in particolare sul Regno del Marocco. “Rabat si sta specializzando nello
sviluppo dei droni kamikaze, apparati relativamente semplici da costruire ma
dagli effetti devastanti, grazie ad Israele”, riporta Africa Intelligence. Sarebbe il potente gruppo aerospaziale IAI - Israel Aerospace Industries a fornire al paese
nordafricano il know how e le tecnologie necessarie alla realizzazione dei
velivoli auto esplodenti, attraverso la controllata BlueBird Aero Systems,
specializzata nella produzione di micro e minidroni e UAS (Unmanned Aerial Systems) tattici.
Il
Marocco si è lanciato in un frenetico e dispendioso shopping di droni killer per
potenziare le capacità di attacco contro il
Fronte Polisario, l’organizzazione dei saharawi che lotta dal 1973 contro
l’occupazione illegale dell’ex Sahara spagnolo. A metà settembre le forze armate marocchine avrebbero ricevuto i primi velivoli senza pilota
Bayraktar TB2 acquistati in Turchia dall’industria privata “Baykar”, il
cui presidente è Selçuk
Bayraktar, genero del presidente Erdogan. I
Bayraktar sono droni tattici che volano a medie altitudini e per lungo tempo
(sino a 27.000 piedi d’altezza e per 27 ore consecutive). Dal 2014 vengono
usati mortalmente in Kurdistan dalle forze armate turche e, più recentemente, dall’Azerbaijan
in Nagorno Karabakh e nella guerra in Donbass.
Lo scorso aprile le forze marocchine hanno impiegato
droni killer per uccidere un leader del Fronte Polisario. L’attacco è stato attribuito a uno dei tre velivoli cinesi
Wing Loong ceduti al Marocco dalle
forze aeree degli Emirati Arabi che li avevano impiegati in Libia a supporto
delle forze del generale Khalifa Haftar. Il 3 novembre altri droni armati sono stati impiegati
nell’ex Sahara occidentale per colpire un auto che transitava sulla
strada tra Nouakchott a Ouargla. L’attacco ha causato la morte di tre ignari cittadini
algerini, accrescendo le tensioni diplomatiche e militari tra Rabat e Algeri.
L’uso
di droni e armi autonome letali è
massiccio anche nella guerra esplosa in Tigray lo scorso anno. Così come fatto
dal Marocco, il regime etiope del premier Abiy si sta rifornendo in Turchia di droni kamikaze (ancora i famigerati Stm
Kargu); inoltre è stato firmato qualche settimana fa un
contratto con l’industria “Baykar” per la fornitura di droni “Bayraktar TB2”. I
sistemi d’arma semi-autonomi sarebbero già stati impiegati sul campo. Il 4 ottobre 2021 le unità del Fronte
Popolare di Liberazione del Tigré hanno
reso pubbliche le immagini di frammenti rinvenuti nell’area di Mersa e Haro,
molto probabilmente appartenenti a una bomba a guida laser MAM-L prodotta
dall’industria turca Roketsan per i
droni tattici modello “Bayraktar” e “Karayel”.
Come
evidenziato dal ricercatore Giovanni Esperti di IRIAD (Istituto di
Ricerche Internazionali dell’Archivio Disarmo), nei cieli d’Africa si assiste
all’uso crescente e intensivo di droni armati da parte delle forze africane o degli
eserciti stranieri presenti nel continente. “Le
zone in cui i velivoli senza pilota sono aumentati in maggior numero sono
l’Africa del nord, la regione del Sahel e il Corno d’Africa”, scrive Esperti. “Essi
vengono impiegati ininterrottamente dal 2007, nell’ambito della guerra condotta
dalle forze statunitensi in Somalia. L’esercito americano è ricorso all’uso di
droni non armati per contrastare le milizie dell’Islamic Courts Union,
l’organizzazione affiliata ad Al-Qaeda di cui oggi rimane solo la milizia
al-Shabaab”. I droni killer USA sono stati impiegati nel conflitto in Libia a
partire del 2011 e dal 2016 il governo italiano ne ha autorizzato il decollo
dalla base siciliana di Sigonella. “Dalla base di Niamey, capitale del Niger,
partivano droni in grado di raggiungere il Mali e la Libia, oltre a occupare i
cieli del Niger stesso sempre nell’ottica della guerra globale al terrorismo”, conclude il ricercatore di IPIAD. Droni
killer sono schierati anche in Algeria, Tunisia, Mauritania, Nigeria, Ciad,
Sudan, Egitto, Gibuti, Somalia, Camerun, Repubblica democratica del Congo.
Adesso il continente nero si
candida a fare da grande laboratorio-poligono sperimentale per le LAWS di produzione mondiale.
Articolo pubblicato in Adista Segni Nuovi, n. 42 del 27 novembre 2021
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