Quando i Santapaola misero gli occhi sul calcestruzzo per il Ponte sullo Stretto
Alle forniture di calcestruzzo per la costruzione del Ponte
sullo Stretto di Messina ci avrebbero dovuto pensare i fratelli Pietro “Piero”
e Vincenzo “Enzo” Santapaola, stretti congiunti e presunti rappresentanti della
famiglia mafiosa del boss catanese Benedetto “Nitto” Santapaola per la
provincia di Messina. A riferirlo è stato il collaboratore di giustizia Carmelo
Bisognano, già a capo del potente clan di Mazzarrà Sant’Andrea, nel corso della
sua deposizione come teste al processo Beta
sulle trame affaristiche e immobiliari del gruppo Romeo-Santapaola e di alcuni
professionisti e imprenditori messinesi “contigui” all’organizzazione
criminale.
“Piero o Enzo Santapaola, ma direttamente Piero, sono stati i
garanti per ciò che concerneva il montaggio da parte della Calcestruzzi S.p.A.
di Bergamo, all’epoca retta per la Sicilia da Franco Librizzi, di un impianto
di calcestruzzo che facemmo montare sulla Panoramica in una cava che all’epoca
o tutt’oggi, ancora non so, era di proprietà o è di proprietà di un certo
Puglisi che era socio con la buonanima di Rotella Michele”, ha dichiarato
Bisognano. “Essi furono i garanti affinché questo impianto fosse montato e
desse la tangente direttamente a Piero. Però non lo so se avvenne, poi io fui
arrestato. E questo impianto fu montato dalla Calcestruzzi S.p.A.; nel contempo
c’era stato il progetto preliminare per la costruzione del Ponte affinché la
Calcestruzzi subentrasse di nuovo su Messina per le forniture di calcestruzzo.
Difatti mi ricordo che all’epoca fece un contratto di circa centomila metri
cubi di materiale con questa cava dove aveva montato l’impianto”.
Quegli scivoloni della
Calcestruzzi S.p.A. in Sicilia
Utile rispolverare alcune delle vicende giudiziarie che hanno
interessato certe attività della società leader in Italia nella produzione di
cemento e calcestruzzo. Fondata alla fine degli anni cinquanta dalla famiglia
Ferruzzi di Ravenna, nel 1997 la Calcestruzzi S.p.A. fu acquistata
dall’allora Gruppo Italcementi in mano alla famiglia lombarda dei Pesenti,
per essere definitivamente trasferita tre anni fa al colosso tedesco HeidelbergCement
che vanta un fatturato annuo di 17,3
miliardi di euro e poco meno di 70.000 dipendenti sparsi in tutto il mondo.
Nel novembre 2005,
nell’ambito del procedimento Odessa relativo
alla riorganizzazione della famiglia
di Riesi, la Procura della Repubblica di Caltanissetta ordinava l’arresto di
una quarantina di persone, tra i quali Giuseppe Giovanni Laurino, al tempo capo
zona per la Sicilia orientale della Calcestruzzi S.p.A di Bergamo, ritenuto
dagli inquirenti uomo d’onore affiliato alla cosca locale, per conto della
quale avrebbe operato nell’impianto di calcestruzzo gestito a Riesi. Nel luglio
2006 l’operazione antimafia Doppio Colpo fornì
ulteriori elementi sul sistema di penetrazione economica delle cosche nissene
nella gestione degli appalti e della fornitura di materiali ai cantieri edili. Sotto
inchiesta insieme a Laurino ed alcuni boss locali finirono altri due dipendenti
della Calcestruzzi, Fausto Volante (allora direttore regionale per la Sicilia)
e l’autotrasportatore Salvatore Paterna. Alla sede centrale della società
controllata da Italcementi venne notificata un’informazione di garanzia:
secondo la Procura la Calcestruzzi aveva “svolto attività di favoreggiamento
nei confronti di Cosa Nostra”. Contestualmente la Procura emise
un decreto di sequestro preventivo degli impianti posseduti nella provincia di
Caltanissetta.
A fine gennaio 2008
la Calcestruzzi S.p.A. rimase coinvolta in una nuova inchiesta della Procura nissena
che ordinò il sequestro preventivo della
società e l’arresto dell’allora
amministratore delegato Mario Colombini per “truffa, inadempimento di contratti
di pubbliche forniture e intestazione fittizia di beni con l’aggravante di
avere agevolato l’attività della mafia”. Assieme a
Colombini finirono in manette anche l’ex direttore generale per la Sicilia e la
Campania Fausto Volante e due suoi ex predecessori alla guida della
Calcestruzzi, Francesco Librizzi e Giuseppe Giovanni Laurino. Stando
agli inquirenti, la gestione del comparto produttivo di Calcestruzzi, “carente
di adeguate direttive e di dovuti controlli, sarebbe stata affidata a figure
aziendali di dubbia lealtà ed alcune addirittura organiche a Cosa Nostra che avrebbero consentito di
curare gli interessi della consorteria criminale e, contestualmente, avrebbero
garantito adeguati introiti alla holding”. Qualche mese dopo l’intero
capitale sociale dell’azienda bergamasca fu però dissequestrato e decadde
l’accusa di favoreggiamento della mafia ed intestazione fittizia di beni.
In un nuovo filone d’indagine del
2010 denominata Doppio Colpo 2, i Carabinieri e la Guardia di
Finanza di Caltanissetta arrestarono 14 persone per associazione a
delinquere e frode in pubbliche forniture. Secondo l’accusa, la Calcestruzzi
S.p.A., al tempo sotto amministrazione giudiziaria, aveva assunto un ruolo da “monopolista”
nella fornitura di calcestruzzo in Sicilia grazie a presunti accordi stipulati con alcune consorterie
criminali. Anche stavolta però buona parte delle accuse vennero smontate dalla
difesa in sede processuale: in particolare fu rilevato dalla società come dei circa 250 impianti di
produzione di calcestruzzo esistenti in Sicilia solamente sette erano sotto il
suo controllo e pertanto non era possibile “insinuare alcuna posizione di
monopolio”. Nel dicembre 2013 il Tribunale
di Caltanissetta, su richiesta del Pm titolare delle indagini, prosciolse gli
indagati coinvolti nell’operazione. Al processo di primo grado sulle presunte forniture di
calcestruzzo depotenziato per la costruzione di importanti opere pubbliche in
Sicilia, tra cui pure lo svincolo autostradale di Castelbuono sulla
Messina-Palermo (secondo l’accusa grazie ad una peggiore qualità dei materiali,
l’azienda avrebbe ottenuto i fondi per pagare il pizzo a Cosa Nostra), l’ex amministratore Mario Colombini fu invece condannato
a 4 anni di carcere e seimila euro di multa per frode in pubbliche forniture. Sei
anni e 10 mesi furono inflitti invece all’ex direttore Fausto Volante e 3 anni
e sei mesi all’altro capo area della Calcestruzzi S.p.A., Giuseppe Giovanni
Laurino, divenuto intanto collaboratore di giustizia (Laurino era stato già
condannato a 10 anni per associazione mafiosa al processo scaturito
dall’operazione Odessa). Al processo
d’appello (sentenza del 30 settembre 2014), i giudici della Corte di
Caltanissetta hanno ridotto la condanna per Mario Colombini a 2 anni e 6 mesi, mentre hanno
assolto Volante e Laurino. Nell’aprile 2017 l’ex dirigente della Calcestruzzi
Fausto Volante è stato assolto ancora una volta a Caltanissetta al processo che
lo vedeva imputato di concorso esterno in associazione mafiosa (il Pm
aveva chiesto la condanna a 9 anni ritenendolo “vicino” alla famiglia di Riesi).
Una
cava sulla Panoramica per i grandi affari del Ponte
Se alla fine la società bergamasca e quasi
tutti i suoi responsabili locali uscirono indenni dalle pesanti inchieste che
li aveva visti coinvolti in Sicilia, le attività d’indagine e le
intercettazioni ambientali hanno provato come uno degli interessi strategici
delle alleanze realizzate nell’Isola dalla Calcestruzzi S.p.A. erano
finalizzate proprio alla compartecipazione ai lavori di realizzazione del Ponte
di Messina.
“La Calcestruzzi aprì un impianto
a Messina in previsione della costruzione del Ponte sullo Stretto; del resto
Impregilo, ex Girola, ha sempre lavorato con la Calcestruzzi”, ha riferito ai
giudici di Caltanissetta Salvatore
Paterna, già dipendente della società al tempo in cui era in mano al gruppo
Pesenti. A seguire l’evoluzione dell’impianto
peloritano c’era allora Francesco Librizzi, l’ex capo zona menzionato
dal collaboratore Carmelo Bisognano all’ultima udienza del processo Beta (anche Librizzi è stato assolto a
Caltanissetta). In quegli anni il capo zona di Calcestruzzi era in contatto con
il capo della famiglia mafiosa di
Caltagirone, Francesco “Ciccio” La Rocca, storico alleato dei Santapaola e delle
cosche dei Nebrodi (clan Rampulla). Secondo quanto appurato dagli inquirenti, il
29 novembre 2002 a San Michele di Ganzaria si tenne un incontro a cui
parteciparono Francesco La Rocca e Francesco Librizzi insieme a Giovanni
Giuseppe Laurino, Alfio Mirabile e altri esponenti di spicco delle mafia
catanese e nissena per discutere sulle forniture di calcestruzzo in Sicilia. All’ordine
del giorno del meeting pure la produzione di un nuovo impianto Calcestruzzi nella
città dello Stretto e la realizzazione di un piano di urbanizzazione nel
quartiere di Santa Lucia a Contesse. “Dal tenore dei dialoghi – riportano gli
inquirenti – appare chiaro il riferimento alla pianificazione di alcuni lavori
ed alla relativa fornitura di conglomerato cementizio che sarà a cura di un
impianto della Calcestruzzi. Gli elementi, naturalmente, convergono ad
individuare l’impianto di Messina che sono dei locali di Messina, ci dicono come soprannome l’arancino”.
Successivamente i magistrati sono stati in grado di accertare
che dietro lo pseudonimo di arancino
utilizzato nei colloqui tra gli indagati si celavano i fratelli Nicola e Domenico
Pellegrino, “persone che senza essere inserite nella struttura organizzativa di
un sodalizio e costituire un autonomo gruppo criminale, hanno operato
nell’ambito della loro attività imprenditoriale d’intesa con esponenti mafiosi”
(i due boss messinesi Luigi Sparacio, poi collaboratore di giustizia,
Giacomo Spartà, ecc.). Ai fratelli Pellegrino,
originari del villaggio della zona sud di Santa Margherita, attivi nel settore
della movimentazione terra, dell’edilizia e della produzione di calcestruzzo, sei
mesi fa sono stati confiscati in via definitiva i beni patrimoniali per un
valore di 50 milioni di euro. Il ruolo di dominus assunto dalle aziende in mano ai fratelli
Pellegrino nelle opere pubbliche della città di Messina è confermato dalla
rilevanza dei lavori ottenuti in appalto: la demolizione di alcune palazzine
del complesso “Casa Nostra” di Tremonti; lo smantellamento dei padiglioni
all’interno di alcune caserme militari; le operazioni di sbaraccamento di Fondo
De Pasquale, nel quartiere di Giostra; la costruzione dell’approdo di
Tremestieri utilizzato per il traghettamento dei Tir nello Stretto e un grande centro
commerciale nel villaggio di Contesse.
C’è stato un altro ex funzionario
della Calcestruzzi S.p.A., tale Francesco Staiti, a fornire ai magistrati
nisseni ulteriori elementi sull’interesse suscitato dallo stabilimento creato a
Messina in vista dei lavori del Ponte. Nel corso di un’udienza del processo Odessa contro le cosche di Riesi, Francesco
Staiti ha dichiarato di essere stato raggiunto nella città dello Stretto da
Francesco Librizzi e Giovanni Giuseppe Laurino che gli proposero di curare la
realizzazione di un impianto di calcestruzzi. “La costruzione dello stabilimento
di Messina iniziò nell’agosto 2002 e già due mesi dopo, ad ottobre, esso era
operativo”, ha spiegato l’ex dirigente. Francesco Staiti fu nominato responsabile
dell’impianto, ma il suo rapporto
fiduciario con Laurino e Librizzi si incrinò dopo gli arresti ordinati a fine
2005. L’agosto successivo Staiti fu sospeso dall’azienda su pressione dei due,
subendo pure danneggiamenti e minacce telefoniche da parte di misteriosi terzi.
Francesco Staiti ha rivelato agli inquirenti di avere avuto dei
conflitti con Laurino perché quest’ultimo non condivideva il modo con il quale
egli seguiva le regole di gestione, curava la riscossione dei crediti aziendali
e controllava la qualità degli inerti forniti. A far precipitare le cose,
l’intenzione del responsabile di mettere seriamente in discussione “per la sua
scarsa qualità”, la fornitura alla Calcestruzzi del materiale da cava da parte
dell’A.G.P. S.r.l. di Messina, “società che vedeva titolari gli
autotrasportatori Michele Rotella e Giacomo Lucia”. Il primo era noto negli
ambienti criminali barcellonesi con il soprannome u baruni. Arrestato nell’ambito dell’inchiesta Vivaio sulle infiltrazioni mafiose nella gestione delle
discariche di rifiuti di Mazzarrà Sant’Andrea e Tripi e nei lavori di raddoppio
della linea ferroviaria Messina-Palermo, a seguito di un malore Michele Rotella è deceduto nel febbraio 2016 nel
carcere di Catanzaro dove stava scontando la condanna definitiva a 8 anni di
reclusione per quel procedimento.
Ma anche Salvatore Paterna ha fatto ai giudici i nomi dei
piccoli imprenditori-auto trasportatori del messinese. “Michele Rotella e
Giacomo Lucia, in compagnia di Francesco Librizzi, si presentarono un giorno
dal direttore Volante per discutere di questioni commerciali e ad un certo momento
Rotella gli consegnò dodicimila euro avvolti in carta di giornale”, ha riferito
l’ex dipendente Calcestruzzi. “Si trattava della sovrafatturazione destinata
alle famiglie di Cosa Nostra locali.
Il Volante ritenne quel gesto un modo per incastrarlo magari al fine di essere
scavalcato in carriera da Librizzi; quindi, preoccupato di ciò, denunciò il
tutto… Fu Laurino a riferirmi i particolari e a dirmi che Librizzi per tali
ragioni venne licenziato”.
A seguito dell’inchiesta su mafia e cemento, Fausto Volante
fu sospeso dalla Calcestruzzi. Prima di lasciare l’incarico, Volante concesse
senza esserne previamente autorizzato un fido di 258 mila euro ed una comoda
dilazione di pagamento ad una società cooperativa a responsabilità limitata
denominata “Giostra”, operante a Messina. L’operazione fu duramente commentata
nel corso di una conversazione telefonica tra l’allora amministratore delegato
Mario Colombini e Ioannis Karidis, la persona chiamata a sostituire Volante in
Calcestruzzi. “Ma chi sono i partecipanti alla SCARL?”, chiede Colombini. “Boh!”,
risponde Karidis con un’ironica risata. “Ecco, cerchi di appurare chi sono
questi, perché sa, queste SCARL sono una consuetudine abbastanza diffusa sul
mercato e l’importante è vedere chi c’è dietro... Magari sono
azionisti che conosciamo, affidabili, perché mi meraviglia che abbiamo
dato 250 mila euro se dietro non ci sono aziende solvibili...”. “È una società
consortile tra Demoter e AIA S.p.A.”, precisò alla fine il funzionario
siciliano. I lavori oggetto di discussione erano quelli rilevati dalla Demoter
del potente costruttore Carlo Borrella (tra gli imputati chiave del processo Beta) per il completamento degli
svincoli autostradali di Giostra e Annunziata, progettati la notte dei tempi proprio
in vista della connessione dell’A-20 Messina-Palermo con Capo Peloro e il Ponte.
Il 19 settembre 2006, il nuovo responsabile Calcestruzzi Ioannis
Karidis veniva intercettato mentre analizzava con un ingegnere le strategie
aziendali tra la società madre Italcementi e la controllata Calcestruzzi nei
mesi in cui si faceva sempre più probabile l’avvio dei lavori per il Ponte
sullo Stretto. Argomento centrale l’apertura di nuovi impianti a Catania (Piano
Tavola e Primo Sole) e nella provincia di Messina. In quest’ultima,
Calcestruzzi sarebbe stata orientata ad abbandonare il presidio presso la cava
di Messina gestita dall’A.G.P. S.r.l., alla luce dei problemi amministrativi
riscontrati e delle pretese incalzanti della locatrice, per rilanciare il
vecchio opificio in disuso a Villafranca Tirrena, sotto sequestro per
violazioni di carattere ambientale. “Ci sono grossi problemi di bonifica,
proprio un casino – affermava uno degli interlocutori – ma così abbiamo modo di
occupare tutto il mercato dal capoluogo sino a Milazzo”.
Soffermandosi sull’impianto di Messina, i due dirigenti
rilevavano come la sua gestione registrasse perdite finanziarie stimate
nell’ordine di 120 mila euro l’anno. Ciò, però, non sembrava preoccuparli,
anche perché la cessione del cemento tra Italcementi e Calcestruzzi rendeva
assai remunerativo lo stabilimento. Scrivono in merito gli inquirenti nisseni: “I
calcoli effettuati evidenziano che l’impianto di Messina attesterà nel 2006 una
produzione di calcestruzzo pari a 16.000 metri cubi .
Data la percentuale di stima di utilizzo delle polveri di cemento di circa il
30% per ogni metro cubo di calcestruzzo prodotto, gli interlocutori concordano
su un quantitativo di cemento impiegato nella produzione pari a 4.800
tonnellate. La vendita di tale legante al prezzo di 80 euro la tonnellata
permetterà di incamerare alla Italcementi una somma complessiva di 384.000
euro. Applicando la percentuale di margine operativo lordo determinata dalla
citata società nel 30%, gli interlocutori ottengono un ricavo stimato a circa
115.000 euro”. La perdita derivante dalla cessione di calcestruzzo veniva
pertanto compensata con i relativi ricavi ottenuti con la cessione delle
polveri di cemento. Considerato poi che per i lavori del Ponte era stata
prevista la fornitura di oltre un milione e centomila tonnellate di cemento e
860 mila metri cubi di calcestruzzo, si può comprendere come mai l’impianto di
Messina dovesse essere comunque mantenuto in vita.
La presenza di Michele Rotella e Giacomo Lucia all’interno dell’A.G.P. Aziende Generali Puglisi S.r.l.,
la società con oggetto la produzione, lavorazione e vendita di inerti e
manufatti in cemento che
secondo Carmelo Bisognano sarebbe stata attenzionata dai fratelli Santapaola
per i lavori del Ponte, è stata accertata dagli inquirenti della Direzione
Investigativa Antimafia nel corso dell’inchiesta Vivaio e riportata dal Gip del Tribunale nella relativa ordinanza
di custodia cautelare dell’8 aprile 2008. Anche il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale
di Reggio Calabria a pag. 830 dell’ordinanza di applicazione di misure
cautelari della cosiddetta operazione Gioco
d’azzardo (6
maggio 2005) si sofferma sulla stessa società. “Sempre riconducibile al Puglisi Antonino Giovanni è
poi l’A.G.P. - Aziende Generali Puglisi S.r.l., ditta che gestisce in questa
contrada Fosse Minaia una cava di sabbia con capitale ripartito fra Bonanzinga
Elisabetta, Lucia Giacomo, Rotella Angelo, Puglisi
Adele figlia di Antonino Giovanni, Di Pietro Maria, Scalisi Vincenzo”, annota
il Gip di Reggio. “A partire dal 10 febbraio 2003, rappresentante legale della
società è Madaudo Dino, marito della Bonanzinga Elisabetta, esponente di
rilievo del P.S.D.I., deputato nazionale, già Sottosegretario alle Finanze e
alla Difesa”. Il Rotella Angelo non è
altro invece che il figlio di Michele Rotella ‘u baruni.
Ancora una prova
documentale dunque della veridicità delle dichiarazioni rese dal collaboratore
Bisognano al processo Beta.Articolo pubblicato in Stampalibera.it il 17 aprile 2019,
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