L’Italia in Afghanistan. Vent’anni di export di disastri umanitari
L’azione di institution building svolta dalla Comunità Internazionale in Afghanistan è stata caratterizzata da un approccio frammentario e da una limitata efficacia. Devastazioni, barbarie, morte in nome della democrazia esportata. Risorse finanziarie che avrebbero potuto risolvere tanti problemi, sociali, umanitari e sanitari, sono stati invece investite nell’intervento armato, bottino quasi esclusivo delle grandi holding del complesso militare-industriale transnazionale. Che sconfiggere i talebani fosse difficile si sapeva fin dall’inizio. I dati testimoniano l’assoluto fallimento della “guerra umanitaria” della NATO.
Vent’anni
di guerra in Afghanistan hanno prodotto un universo di devastazioni, morte e
barbarie. Ignobile e tragico l’epilogo della missione internazionale a guida
statunitense che sino alla fuga dall’aeroporto di Kabul e all’abbandono di milioni
di civili afgani alle rappresaglie talebane, ha ritenuto legittimo “esportare”
la democrazia con i droni, le bombe e i carri armati. E invece di ammettere la
completa debacle ideologica e operativa, i vertici militari e governativi di
Stati Uniti e partner NATO pensano già di ripetere crimini, orrori ed errori in
altre parti del pianeta, Corno d’Africa e Africa sub-sahariana in testa. Certo
qualcuno storce ancora il muso sulle modalità e la “rapidità” con cui è stata
conclusa la disavventura in territorio afgano, ma è ingiusto criminalizzare di
ciò solo l’amministrazione Biden e il Pentagono. Alla fine erano tutti
d’accordo: primo perché consapevoli che non avrebbero mai potuto battere i
talebani sul campo di battaglia; secondo perché i costi umani, sociali e
finanziari delle operazioni belliche non sarebbero stati sostenibili un solo
giorno di più.
Vent’anni
di occupazione e sostegno di governi fantoccio e corrotti a Kabul hanno
prodotto una terribile carneficina: dall’autunno 2001 all’agosto 2021 ci sono stati almeno 241.000 morti per cause di
guerra (174.000 in Afghanistan e 67.000 in Pakistan), di cui oltre 71.000
civili, il 40% minori
di età. Troppo spesso dimenticati gli oltre 4 milioni di sfollati, buona parte
dei quali semidetenuti in campi di fortuna, senza accesso ai servizi base,
acqua, cibo, salute, istruzione. Così come la narrazione mainstream occulta di
ricordare che i “buoni propositi” della coalizione internazionale - la protezione dei diritti umani e la promozione
di migliori condizioni di vita - lasciano oltre il 50% della popolazione
afgana in condizione di indigenza e povertà estrema.
Questi dati testimoniano l’assoluto fallimento della
guerra umanitaria della NATO del
terzo millennio, specie se si confrontano con le risorse finanziarie investite
per l’intervento armato, bottino quasi esclusivo delle grandi holding del
complesso militare-industriale transanazionale. Secondo il “Watson Institute” della Brown University
(Providence, Rhode Island) il Pentagono da solo ha speso più di 2.313 miliardi di dollari in due
decadi di operazioni “anti-terrorismo” in Afghanistan, 837 miliardi direttamente per le attività di
combattimento. Ad oggi non sono state invece quantificate le spese sostenute
direttamente dall’Alleanza atlantica e dai singoli paesi NATO ed extra-NATO membri
della coalizione occupante. Solo con l’Afghan
National Army Trust Fund in vigore dal 2007, la NATO ha elargito alle forze
afgane contributi finanziari del valore di 3,5 miliardi di dollari, di cui 440
milioni per beni e attrezzature militari. Ancora oggi ex generali ed
opinionisti fanno però a gara nei rotocalchi tv nell’enfatizzare il contributo
diretto della comunità internazionale allo “sviluppo economico e alla disponibilità di servizi
sociali a favore della popolazione” che, secondo il ministro della Difesa italiano Lorenzo Guerini, va calcolato
in 76 miliardi
di dollari di “aiuti” che, a conti fatti, non sono neppure il 3% di quanto
sperperato complessivamente dalle forze armate USA.
Neanche gli italiani
brava gente tornano a casa senza macchie, sprechi e vergogne. Il nostro
paese ha ciecamente sostenuto Washington in ogni sua tragica
scelta e per conto della NATO ha pure assunto il Comando delle operazioni
alleate nella regione di Herat, pagando contestualmente un prezzo in termini di
vite umane come non è mai accaduto nella storia della Repubblica: 53 militari uccisi e 723 feriti; una
giornalista, la catanese Maria Grazia Cutuli, vittima di un’esecuzione con
altri tre colleghi mentre transitava in auto nei pressi di Kabul; un cooperante
e blogger, il palermitano Giovanni Lo Porto, assassinato “per errore” da un
drone killer USA al confine tra Afghanistan e Pakistan.
Secondo Milex, l’Osservatorio sulle spese militari promosso
della Rete Italiana Pace e Disarmo, la disastrosa presenza militare italiana è
costata ben 8,7 miliardi di euro (840
milioni in contributi finanziari o sistemi d’arma alle forze armate afgane).
Le immagini ci hanno sempre e solo mostrato i nostri reparti consegnare pacchi
dono ai bambini, alle donne e ai rifugiati, ma anche in questo caso si tratta
di briciole rispetto a quanto è andato in mano alle industrie di morte. Ancora Lorenzo Guerini intervenendo in Senato il 24 giugno 2021 ha snocciolato
un po’ di cifre ad effetto: “ad Herat il nostro personale ha portato a
termine progetti di cooperazione civile-militare che hanno incluso la
costruzione di 82 scuole, 37 strutture medico-ospedaliere, 784 pozzi, più di 100 km di strade ed oltre 30 infrastrutture per le forze di
sicurezza e le varie istituzioni afgane”. Sembra tantissimo ma è quasi zero: i
fondi “volti al miglioramento delle condizioni di vita della popolazione” (così
li ha definiti Guerini nonostante parte di essi abbiano premiato solo le
cricche militari locali), non hanno superato complessivamente i 58 milioni di euro. C’è solo da
vergognarsi come avrebbero dovuto vergognarsi i giornalisti embedded che hanno propinato in tutti
questi anni il volto “buono” della missione tricolore.
Sono
incalcolabili invece i costi “indiretti” della guerra al terrorismo: in Italia dopo l’11 settembre è mutata l’idea
stessa del “modello di difesa” con l’implementazione di un imponente piano di
acquisizione di sistemi d’arma avanzati (cacciabombardieri F-35, portaerei e
sottomarini, carri armati e blindati, ecc.) mentre sono state potenziate
importanti installazioni militari (Aviano, Ghedi, Camp Darby, Sigonella) o
realizzate nuove basi prontamente messe a disposizione delle forze armate USA e
NATO per intervenire in Africa e Medio oriente (Vicenza-Dal Molin, Lago Patria
a Napoli, Niscemi con il MUOS, ecc.). Solo per la grande stazione aeronavale di
Sigonella, oggi centro strategico per le operazioni dei droni delle forze
armate statunitensi e NATO, si è accertato che nell’ultimo ventennio il
Pentagono ha speso oltre un miliardo di dollari in nuove infrastrutture e
comandi. Una devastante militarizzazione dell’economia, della società e dei
territori che ha avuto come prima conseguenza il drastico taglio dei bilanci
statali e regionali destinati alle spese sociali, all’istruzione e alla sanità.
Ipocritamente
lo Stato maggiore della difesa e il suo ministro hanno provato ad autoassolversi
per gli orrori e gli errori della coalizione internazionale, non ultima
l’incapacità di prevedere il crollo in tempi record delle autorità afgane e del
loro esercito, istituito, addestrato e armato dalla NATO. Guerini, in
particolare, si è dichiarato perfino sorpreso e scontento dell’infausta exit strategy alleata dall’inferno
afgano. Eppure ancora alla vigilia del tracollo di Kabul lo stesso ministro aveva
manifestato un cauto ottimismo sul futuro del paese dopo il ritiro occidentale
e sulle capacità di tenuta del governo “legittimo” e delle forze armate. “L’obiettivo dell’impegno alleato
sarà quello di preservare al meglio quanto sino ad ora conseguito, continuando
a contribuire allo sviluppo delle istituzione afgane di difesa e sicurezza”, dichiarava
Guerini in Senato il 24 giugno. Due mesi più tardi, intervenendo in Commissione Esteri e Difesa, il titolare
della difesa esprimeva giudizi diametricalmente opposti. “Nel momento in
cui veniva presa la decisione del ritiro definitivo dal paese, esisteva la
consapevolezza del rischio di una ripresa dell’offensiva talebana”, ha
affermato Guerini. “Ciò nonostante, sia la NATO che la maggior parte degli
analisti internazionali stimavano che la campagna militare talebana sarebbe
stata contrastata con una certa efficacia dalle forze di sicurezza afgane,
numericamente superiori (186.000
militari e 121.000 appartenenti alle forze di sicurezza), certamente ben
equipaggiate e che avevano dimostrato a più riprese negli ultimi anni la loro
capacità operativa di contrastare i Talebani. I fatti avvenuti ci dicono che le cose sul campo sono andate in
maniera radicalmente diversa”.
Il
ministro ha puntato il dito contro i militari afgani e la scarsa, se non nulla, resistenza posta contro gli avversari. “Esse
hanno scelto di fuggire oltre confine o di arrendersi ai Talebani abbandonando,
alla mercè di questi
ultimi, mezzi ed equipaggiamenti”, ha aggiunto Guerini. “Inoltre è emersa la
mancanza di coesione e la scarsa credibilità, causata anche da fenomeni di
diffusa corruzione, di una leadership
credibile da parte delle istituzioni repubblicane afgane che non solo non sono
state in grado di mobilitare un fronte comune, ma hanno certamente alimentato
nel personale delle forze armate una sfiducia e una incertezza che, accompagnate
dal senso di abbandono seguito alla partenza delle forze NATO, sono risultate
determinanti nel mancato contrasto all’avanzata talebana”.
Nel
suo intervento in Commissione, Lorenzo Guerini ha espresso pure critiche
sull’operato della NATO. “L’azione di institution building svolta
dalla Comunità Internazionale in Afganistan è stata caratterizzata da un
approccio frammentario e da una limitata efficacia”, ha spiegato. “Da molti è
stato pure sollevato il tema della decisione sui tempi e sulla modalità di
conclusione della missione. Già in occasione della scorsa Ministeriale di
febbraio, avevo rappresentato la necessità di valutare la possibilità di
confermare la presenza della NATO anche oltre la scadenza del 1° maggio –
prevista dagli accordi stipulati dall’amministrazione Trump – in quanto il
raggiungimento delle condizioni sia politiche che di sicurezza previste da tale
accordo, appariva lontano dell’essere soddisfatto”.
Peccato
che di ogni step del “dialogo”
dell’amministrazione USA con i talebani a Doha, l’Italia e i partner alleati sono
stati messi sempre a conoscenza e che al ritiro congiunto ci si stesse
preparando consensualmente da tempo. Nella scheda predisposta dall’allora
governo Conte in vista dell’autorizzazione parlamentare delle missioni
internazionali per il 2020, alla Resolute
Support in Afghanistan per lo “svolgimento di attività
di formazione, consulenza e assistenza a favore delle forze
di difesa e sicurezza e delle istituzioni governative”, si
confermava il numero del personale dei mezzi da impiegare analogamente a quello
dell’anno prima (800 militari, 145 tra carri armati e blindati e 8 aerei), per
una spesa complessiva di 159.711.820 euro. Tuttavia la Difesa precisava “che
nel corso del 2020 il contributo nazionale potrebbe essere rimodulato in senso riduttivo, in funzione
dell’esito del processo elettorale e del miglioramento delle condizioni di
sicurezza”. E prima ancora, a fine gennaio 2019, era scoppiata una polemica
all’interno dell’esecutivo tra l’allora ministro degli esteri Moavero
Milanesi e la titolare della difesa, Elisabetta Trenta, a seguito delle
dichiarazioni di quest’ultima sull’auspicato ritiro in tempi brevi del
contingente militare italiano “dati gli sviluppi positivi dei negoziati di pace
tra Stati Uniti e talebani”. Di certo quelle della Trenta non erano
esternazioni personali. Un mese prima (dicembre 2018), la ministra si era
recata personalmente in Afghanistan e aveva incontrato interlocutori
“credibili” e privilegiati: il presidente Ashraf Ghani, il primo
ministro Abdullah Abdullah ed il ministro della difesa Tariq Shah
Bahrami; il comandante della missione USA-NATO, gen. Austin
Scott Miller e il vicecomandante gen. Salvatore Camporeale. “Elisabetta Trenta ha
assicurato che la rimodulazione in atto del nostro contingente non andrà ad
inficiare l’attività di formazione e addestramento a favore delle Forze Armate
e di Sicurezza afghane”, riporta la nota diffusa dall’Ufficio stampa dello
Stato maggiore, utilizzando quel termine – rimodulazione
– che sarebbe stato riproposto qualche mese dopo dal Governo alle Camere.
Lo stesso Lorenzo Guerini, succeduto alla Trenta con
il ribaltone del Contebis, ha seguito passo dopo l’evoluzione dei colloqui di
Doha e in occasione della sua visita in Afghanistan del 26 gennaio 2021 ha
ribadito la coesione alleata sull’exit
strategy. Rivolgendosi al presidente Ghani e alle massime autorità afgane,
il ministro dichiarava che l’Italia “confida nel successo dei negoziati
perché solo una soluzione politica forte potrà garantire una pace duratura”. “Parteciperemo insieme agli Alleati NATO al
dibattito sul futuro in rapporto allo sviluppo del negoziato”, aggiungeva
Guerini. “La posizione italiana è riflessa nella formula: insieme abbiamo
avviato la Missione, insieme ne abbiamo adattato l’assetto ed insieme la
concluderemo quando saranno soddisfatte le condizioni che garantiscono il
consolidamento dei risultati ottenuti attraverso l’assistenza alle istituzioni
locali”.
In verità in Afghanistan erano rimasti ormai ben pochi
interessi occidentali da “difendere” con le armi e con gli eserciti. Il ruolo
geostrategico e geoenergetico del paese era andato via via riducendosi e comunque
è credibile l’ipotesi che sotto banco a Doha gli statunitensi avessero trattato
con i talebani in vista di una futura ricomposizione degli interessi sui grandi
gasdotti inter-asiatici che dovrebbero attraversare il paese. Per quanto
riguarda l’Italia il mercato afgano alla fine si è dimostrato quasi del tutto
inutile e ininfluente per gli affari delle grandi holding nazionali: secondo l’Istituto per il commercio estero (Ice),
lo scorso anno l’interscambio fra Italia e Afghanistan ha registrato
esportazioni del valore di 28 milioni e mezzo di euro e importazioni per 6
milioni. Cifre davvero ridicole, meglio dunque smobilitare il prima possibile e
dirottare i reparti e le unità navali verso terre e acque migliori. Dove e
come? E’ ancora il ministro Guerini a spiegarlo in Parlamento il 7 settembre in occasione del dibattito sulla fine
delle operazioni di trasferimento in Italia dei (pochi) rifugiati afgani. “Vi è il
rischio che il deterioramento del quadro di sicurezza in Afghanistan si estenda
a quelle regioni di elevato interesse strategico nazionale in cui siamo
impegnati, quali il Sahel e l’Iraq”, ha dichiarato il ministro. “Chiaramente,
le condizioni di riferimento sono profondamente diverse. In Iraq, ad esempio,
sta crescendo in maniera significativa la forza delle Istituzioni e la NATO ha
l’occasione di rilanciare le proprie capacità di institution building. E sarà con questa visione d’insieme, in
particolare, che l’Italia assumerà nel prossimo 2022 il Comando della missione
NATO in quel Paese”. Poi c’è l’Africa dove l’Italia è protagonista della
conflittuale corsa alla ricolonizzazione accanto alle superpotenze USA, Cina e
Russia, a Francia, Germania e Regno Unito e perfino ad alcuni stati canaglia mediorientali (Israele,
Turchia, Emirati Arabi, ecc.). “Nell’indicare le aree di interesse nazionale
che potrebbero essere interessate dalle ricadute della crisi afgana, ho prima
citato il Sahel, regione che è sempre più centrale negli interessi di sicurezza
europei ed italiani e nella quale il nostro impegno è significativamente
cresciuto”, ha spiegato Guerini. “Anche qui dovremo portare le lezioni apprese
dalla vicenda afgana in termini di modelli di intervento ed approccio a 360°
rispetto alle problematiche di quei paesi”. Di lezioni apprese, in verità, c’è
quasi nulla. Ancora una volta si va nel continente africano riproponendo invece
il leit motiv della “lotta al terrorismo” e dell’”esportazione dei diritti e
della democrazia” con le bombe, a fianco dell’élite politiche e militari locali
liberticide, corrotte e ree di crimini e gravi violazioni dei diritti umani.
Articolo pubblicato in Le Siciliane / Casablanca n. 70, luglio-settembre 2021
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