Come l’Italia arma e addestra le milizie libiche
L’Isis
occupa la Libia e il Califfo è pronto a salpare e annettersi la Sicilia e il
Sud Italia! Servizi segreti, establishment militare,
leghisti, neo e postfascisti sono concordi a lanciare l’allarme sulla
penetrazione del terrorismo di matrice islamica nel martoriato paese
nordafricano, ipotizzando perfino l’infiltrazione di agenti e kamikaze tra i
migranti che sfidano il Mediterraneo per raggiungere Lampedusa o Pozzallo. A
Roma, parlamentari, generali e forze di polizia esprimono sgomento. Il conflitto è esploso improvvisamente e non
era possibile prevedere ciò che sarebbe accaduto a Tripoli e Bengasi! il comune
ritornello. Crisi imprevedibile, dunque, per la maggioranza e le opposizioni. Ma
mentre in Libia divampava la guerra tra bande e alcune di esse adottavano in
franchising le bandiere nere del Califfato, l’Italia si faceva in quattro per
addestrare e armare le fazioni militari locali. Armi e milizie che oggi
terrorizzano la popolazione civile e i rifugiati sub-sahariani e contro cui si
è pronti a scatenare l’ennesima guerra preventiva e globale, in nome delle
libertà e della cristianità minacciate.
La
guerra civile che Roma né vede né sente
Il 17 febbraio 2014, Bernard
Selwan El Khoury e Roger Bou Chahine, rispettivamente vicedirettore e direttore
dell’Ogmo (Osservatorio geopolitico mediorientale) pubblicavano su Limes un lungo articolo dal titolo La
Libia rischia la bancarotta e una nuova guerra civile. “A oltre 2 anni dalla caduta del regime di
Muammar Gheddafi, la Libia è entrata in una fase che diversi osservatori
definiscono come di vera e propria guerra civile”, scrivevano i due ricercatori.
“Il paese è preda delle milizie e formazioni armate che ancora non si sono
sottomesse alle deboli istituzioni militari e di sicurezza statali, mentre il
governo centrale di Tripoli ha serie difficoltà nel controllare il vasto
territorio libico. A ciò si aggiunge la
crisi petrolifera - e quindi economica - legata alla sospensione, dallo
scorso luglio, delle esportazioni di petrolio in buona parte dei porti della
Cirenaica, controllati da Ibrahim al-Jadran, già capo della Guardia degli
impianti petroliferi e oggi leader del movimento separatista denominato Ufficio esecutivo di Barqa”. Con
lucidità e lungimiranza l’Ogmo imputava alle lotte per il controllo delle
risorse nazionali il motivo principale del disordine libico. “Una lotta intestina dalla quale si
evince come i nemici del governo libico siedano al suo interno: lo scontro per
il controllo del potere economico è fra quanti gestiscono il petrolio e quanti appongono
le firme per deliberare ogni spesa”, spiegava.
“Inoltre, bisogna considerare la minaccia crescente rappresentata da
formazioni jihadiste o dichiaratamente qaediste. Soprattutto quest’ultima
emergenza preoccupa i paesi vicini, fra cui il Niger, che in più di
un’occasione ha invocato un intervento militare internazionale guidato da
Francia e Stati Uniti…”.
Osservatori internazionali, diplomatici e strateghi
militari erano dunque al corrente perlomeno dall’autunno del 2013 sui
devastanti processi politico-sociali e militari in corso in Libia. Il governo e
le forze armate italiane invece sembravano non accorgersene, e mentre nelle
cancellerie occidentali era già allarme generale, Roma rafforzava i programmi
di addestramento e riarmo dell’esercito libico. Il 9 gennaio 2014 giungeva
in Italia il primo contingente di militari libici per essere addestrati
principalmente in “attività in ambito urbano” e nella vigilanza e contrasto dei
flussi migratori. Si trattava di 340 uomini che per 14 settimane furono ospiti
a Cassino (Fr) dell’80° Reggimento addestramento volontari dell’Esercito. Il
ciclo addestrativo, dal nome in codice Operazione Coorte, era frutto dell’Accordo di cooperazione bilaterale tra Italia e Libia nel
settore della Difesa, firmato a Roma il 28 maggio 2012 e rientrava tra le iniziative di “ricostruzione” delle forze
armate libiche, varate al vertice G8
tenutosi a Lough Erne (Irlanda del Nord) nel giugno 2013. In cambio dell’assistenza,
Tripoli s’impegnava a versare alle forze armate italiane 50 milioni di euro.
“L’obiettivo dell’addestramento è quello di creare
delle forze armate libiche efficienti che siano un riferimento alla democrazia,
alla stabilità e alla sicurezza del Paese”, spiegò il Capo di stato maggiore
dell’Esercito, gen. Claudio Graziano. “In Libia c’è una crescita importante di
democrazia rispetto al passato ma è chiaro che c’è bisogno del supporto
internazionale”. Il personale libico, proveniente dalle
conflittuali regioni di Fezzan, Cirenaica e Tripolitania, era stato selezionato
nell’ottobre
2013 direttamente in Libia da una trentina di ufficiali italiani. “Una volta
tornati a casa, i militari del nuovo esercito libico saranno in grado di
svolgere le funzioni fondamentali del combattimento, della sicurezza e del
controllo e della sorveglianza delle frontiere”, aggiunse Graziano. Che tra gli
uomini giunti in Italia si potesse nascondere qualche “infiltrato” fu una
possibilità rilevata dal colonnello dell’esercito libico Mohamed Badi, che però
si disse certo che “con l’aiuto degli amici e soldati italiani saremo in grado
di scoprirli”. Alle reclute furono consegnati fucili “Beretta” ARX 160, in
dotazione all’esercito italiano dal 2010, con la speranza del complesso
militare industriale nazionale che le armi fossero poi acquistate dalle
autorità libiche.
Un secondo contingente di 300 militari giunse
in Italia il 19 aprile 2014 per un ciclo addestrativo di 10 settimane con l’8°
Reggimento Bersaglieri di Persano (Sa). Nella stagione primaverile si svolse a
Brindisi pure un corso di qualificazione
anfibia per marinai libici con gli incursori della Brigata “San Marco”,
mentre 31 allievi libici furono ammessi a frequentare le
accademie militari italiane. Una parte delle
attività di formazione è stata realizzata in Libia da un team dell’Esercito
integrato nella Missione Italiana in Libia (MIL), istituita l’1 ottobre 2013 per “organizzare,
condurre e coordinare le attività addestrative, di assistenza e consulenza nel
settore della Difesa”. A Tripoli, nei primi mesi del 2014 si tennero pure i
corsi della 2^ Brigata Mobile dell’Arma dei Carabinieri a favore di 500
unità della Polizia nazionale, 100 Guardie di frontiera e 26 allievi della Polizia di protezione delle Ambasciate.
“La preparazione raggiunta in pochi mesi permetterà ai militari libici di
svolgere compiti di sorveglianza dei confini e di protezione dei pozzi di
petrolio”, spiegò il Ministero della difesa italiano. Come sia andata a finire
è noto a tutti. Con la beffa aggiuntiva che per il training in Libia nel
biennio 2013-2014 sono stati spesi dall’Italia svariati milioni di euro. Per il
2015, nonostante le bande filo-Isis controllino villaggi e città, il decreto del
governo Renzi che ha rifinanziato per i primi nove mesi dell’anno le missioni all’estero
assegna 1.348.239 euro all’European Union
Border Assistance Mission in Libya (EUBAM) e proroga l’impiego di personale
militare “in attività di assistenza, supporto e formazione delle forze armate
libiche”.
L’Italia
addestra i libici per fare le guerre ai migranti
“Questi nostri figli che si addestrano in Italia sono
pietre miliari nella ricostruzione della Libia e troveranno il primo impegno
nella battaglia contro il terrorismo, ma anche nella guerra contro l’immigrazione
clandestina”, dichiarava qualche mese fa al quotidiano la Repubblica, il “Capo” di Stato maggiore della difesa libico, gen.
Abdulsalam Jadallah Al Obeidi. A fare da sponda l’ammiraglio Luigi Binelli
Mantelli, la più alta carica militare italiana, entusiasta per il contributo fornito
alla Marina da guerra libica nella realizzazione di “operazioni come la nostra Mare Nostrum, per fermare chi specula
sul traffico di esseri umani…”.
Dopo la caduta di Gheddafi, Roma e Tripoli hanno
riconfermato in sostanza tutte le vecchie intese siglate dai due governi in
materia di lotta all’immigrazione “irregolare”, compresa quella sui famigerati respingimenti
in mare, duramente stigmatizzata dalla Corte europea dei diritti umani. Il 3 aprile
2012, in particolare, fu sottoscritto dai ministri dell’Interno italiano,
Annamaria Cancellieri, e libico, Fawzi Altaher Abdulati, un accordo per eseguire
“programmi addestrativi in favore degli ufficiali della polizia libica su
tecniche di controllo della polizia di frontiera (confini terrestri e
aeroporti); l’individuazione del falso documentale e la conduzione delle
motovedette”. L’accordo italo-libico formalizzò altresì la creazione di un centro sanitario a Kufra, oasi della
Libia meridionale ai confini con Egitto, Sudan e Ciad, per “garantire i servizi
sanitari di primo soccorso a favore dell’immigrazione illegale”. E senza troppi
giri di parole, infine, i due ministri invocarono il “coinvolgimento d’urgenza”
della Commissione Europea per il “ripristino dei centri di accoglienza presenti
in Libia”.
Il 6 febbraio
2013, in occasione della visita a Tripoli dell’allora ministro della difesa,
ammiraglio Gianpaolo Di Paola, fu raggiunto un nuovo accordo per
la “formazione” dei reparti militari e delle forze di polizia e - come spiegato
dallo stesso Di Paola - “di cooperazione, anche tecnologica, nelle attività contro
l’immigrazione clandestina e di supporto nazionale alla ricostruzione della
componente navale, sorveglianza e controllo integrato delle frontiere”. Per contrastare
l’immigrazione, nell’ottobre 2013 Tripoli rinnovò la collaborazione con
l’industria Selex ES (Finmeccanica), per l’installazione di un sistema di
sorveglianza radar e monitoraggio elettronico
delle coste libiche e delle frontiere con Niger, Ciad e Sudan, dal costo di 300
milioni di euro. Il contratto in verità era stato firmato il 7 ottobre 2009, ma era
stato sospeso nel 2011 dopo il completamento di una tranche dei lavori per 150
milioni. Il sito
specialistico Analisi Difesa rivelò
altresì che i libici chiesero pure di dotarsi di un non meglio precisato
“monitoraggio aereo delle frontiere”, con l’ausilio di droni-spia “Falco”,
prodotti sempre da Selex. Del resto proprio gli aerei senza pilota erano
divenuti uno strumento chiave nelle guerre alle migrazioni: l’ennesimo accordo “tecnico”
di cooperazione sottoscritto il 28 novembre 2013 dai ministri
della difesa Mario Mauro e Abdullah Al-Thinn aveva autorizzato l’impiego
dei Predator dell’Aeronautica militare (rischierati a Sigonella e
Trapani-Birgi nell’ambito dell’operazione Mare
Nostrum) a supporto delle attività di controllo dei confini del
sud della Libia. Grazie ai Predator,
cioè, lontani dagli occhi dei media e delle Ong dei diritti umani, è stato
possibile intercettare le carovane dei migranti mentre attraversavano il deserto
e informare i militari libici perché intervenissero per detenerli o deportarli
prima che raggiungessero le città costiere.
Gli intenti tutt’altro che
umanitari dell’operazione di “salvataggio” di vite umane nel Mediterraneo
emergono ancora dalle dichiarazioni del Ministero della difesa durante il
vertice italo-libico del 28 novembre 2013. “Nell’ottica di uno sviluppo delle
capacità nel settore della sorveglianza e della sicurezza marittima – si legge
- è emersa la possibilità di imbarcare ufficiali libici a bordo delle unità
navali italiane impegnate in Mare Nostrum,
nonché di avviare corsi di addestramento sull’impiego del V-RMTC (Virtual Maritime Traffic Centre)”. Un pass cioè a favore dei militari di un
paese all’indice per le violazioni dei diritti umani per condividere le
illegittime operazioni d’identificazione e gli ancor più illegittimi
interrogatori dei migranti “salvati” nel Canale di Sicilia.
Con l’arrivo a Palazzo
Baracchini di Roberta Pinotti (Pd), la stretta anti-migranti si è rafforzata. “Al
fine di fronteggiare e ridurre l’emergenza immigrazione, è stata confermata la
disponibilità alla cooperazione nel campo dei sistemi aerei a pilotaggio remoto
e nelle attività di Search and Rescue (SAR)”, dichiarava la neoministra della
difesa a conclusione del vertice con il libico Abdullah Al-Thinni (8 marzo 2014).
Onu, Ue e Nato denunciano che in Libia non esiste più
alcun controllo governativo delle frontiere e che i gruppi paramilitari gestiscono
indisturbati i traffici di migranti, ma Roma si ostina a sostenere e finanziare
le border guard libiche. Nel recente
decreto di proroga delle missioni militari all’estero, si destinano 4.364.181
euro per i prossimi otto mesi “a favore della Guardia di finanza, che dovrà
garantire la manutenzione ordinaria delle unità navali cedute al Governo libico
e per lo svolgimento di attività addestrative del personale della Guardia
costiera libica, in esecuzione degli
accordi di cooperazione sottoscritti il 29 dicembre 2007 per fronteggiare il fenomeno dell’immigrazione
clandestina e della tratta degli esseri umani”. Nello specifico, furono
consegnate ai libici sei motovedette armate con mitragliere “Breda” cal. 30/70, “MG” cal. 7,62 Nato ed “M/12 parabellum”. Due unità affondarono con i
bombardamenti alleati del 2011; le quattro rimanenti, danneggiate, furono
trasferite a Napoli nell’agosto 2013 per essere sottoposte a lavori di riparazione
e riconsegnate ai libici nel maggio 2014.
Nel febbraio 2013 l’Italia consegnò alla Libia “a
titolo gratuito” pure 20 blindati da trasporto e
combattimento VBL “Puma” 6X6, prodotti dal consorzio Fiat Iveco-Oto Melara, mentre la
Marina militare donò quasi 70.000 capi di “vestiario in disuso”. Da tempi
remoti Tripoli è una delle maggiori clienti delle industrie belliche italiane.
Secondo il Sipri (l’istituto svedese di ricerche sui temi della pace e il
disarmo), nel solo biennio 2008-09 le licenze autorizzate dal governo sono
state pari al 34,5% di tutte quelle rilasciate verso la Libia in ambito Ue, per
un valore complessivo di 205 milioni di euro. Alla vigilia della caduta del
regime di Gheddafi, AgustaWestland (Finmeccanica) ha venduto alla Libia 10
elicotteri AW-109E “Power” per controllare coste e frontiere e 20 elicotteri
AW-119K “Koala” e AW-139 per missioni d’emergenza e il combattimento. Nel
gennaio 2008 le forze armate libiche comprarono da Alenia Aeronautica 9
pattugliatori marittimi Atr-42Mp e affidarono alla stessa azienda la revisione
di 12 velivoli addestratori SF-260. Top secret i dati sull’export di armi
leggere, molte delle quali oggi in mano a “terroristi” e jihadisti. Secondo il ricercatore
Francesco Vignarca, tra il 2009 e il 2011, dalla Beretta-Benelli
di Brescia sono partiti per la Libia 11.500 armamenti,
“fatti passare per armi ad uso civile
(come pistole, revolver e fucili da caccia ad
uso sportivo) che in base alle norme italiane possono essere esportate
senza il via libera del Governo, al contrario dei sistemi d’arma a scopo militare, regolati dalla legge 185/90”.
Inchiesta pubblicata in Casablanca, n. 38, febbraio-marzo 2015
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