Mafia a Milazzo. La baia di sant’Antonio è la baia di don Saro
Si racconta che nel gennaio del 1221 una nave proveniente dal Marocco e diretta in Portogallo fu sospinta da una tempesta verso le coste della Sicilia orientale, naufragando poi tra i comuni di Tusa e Caronia. Tra i passeggeri c’erano alcuni frati francescani tra cui il missionario portoghese Fernando Martins de Bulhões. Riuscì miracolosamente a salvarsi e raggiunto a cavallo lo straordinario promontorio di Capo Milazzo, trovò riparo per qualche giorno in una piccola grotta. Il frate, dopo la sua morte il 13 giugno 1231, è stato canonizzato santo e oggi è noto e venerato in tutto il mondo con il nome di Antonio da Padova. Tre secoli dopo un eremita collocò un’immagine del santo all’interno della grotta di Capo Milazzo, trasformandola in luogo di culto; alla fine del XVII secolo fu realizzata una chiesetta decorata con marmi policromi e bassorilievi. Da allora è meta di pellegrinaggi e ambito luogo per le celebrazioni dei matrimoni. L’antistante insenatura dai colori verde e turchese è nota in mezzo mondo come baia di sant’Antonio e con l’antica chiesetta, la lunga spiaggia e le scogliere a strapiombo offre un panorama mozzafiato sulle sette isole Eolie e sui tramonti del Tirreno. Per la sua straordinaria bellezza e il valore paesaggistico-naturale, ai sensi delle direttive comunitarie il Capo Milazzo è Zona di protezione speciale (Zps) ed è inserito nella rete Natura 2000. Dal marzo 2019 il promontorio è “Area marina protetta” e la baia di sant’Antonio rientra in zona B: c’è il divieto di svolgere la pesca subacquea e usare l’acquascooter, ma è ancora permesso l’ormeggio, il “trasporto passeggeri” e, con alcune limitazioni, la navigazione a motore, l’ancoraggio e la “pesca ricreativa e sportiva”. Gli ambientalisti chiedevano vincoli più rigidi per preservare uno dei beni comuni più importanti di tutta l’Isola. Le pressioni e gli interessi per monetizzare baia e Capo sono però molteplici e da tempi remoti, così alla fine è prevalsa la scelta soft che però scontenta tutti, strenui difensori del capolavoro natura e proprietari di gommoni e barche a vela.
Chi
guarda al paradiso di baia e promontorio non immagina certo che una parte dei
terreni e degli immobili, alcuni di importante valore storico-architettonico, siano
in mano a privati. E sarebbero in mano ai privati pure i resti dell’antica
tonnarella sulla spiaggia di sant’Antonio, così come la vicina torretta
ottagonale di fine ottocento e la torre saracena,
presumibilmente utilizzata nel medioevo per fini d’avvistamento. Ma
resterebbero sicuramente attoniti e basiti tutti quei turisti, italiani e
stranieri, che venissero a scoprire che il comproprietario di tanta
impareggiabile bellezza è uno dei più noti e controversi personaggi della
storia criminale dell’Isola e del continente, uomo-cerniera tra mafia, massoneria, servizi segreti, eversione di
estrema destra e apparati istituzionali impropriamente deviati.
E
qui comando io!
Si
racconta che quest’estate il pluripregiudicato avvocato Rosario Pio
Cattafi di Barcellona Pozzo di Gotto si sarebbe presentato negli uffici dell’Area
marina protetta di Capo Milazzo e della Fondazione
Barone Giuseppe Lucifero di S. Nicolò (istituzione pubblica di
assistenza e beneficienza titolare di vasti appezzamenti del promontorio) per chiedere
l’autorizzazione ad attraversare il sentiero che percorre la baia di sant’Antonio,
attualmente interdetto per le frane del costone roccioso. Il Cattafi avrebbe
spiegato di essere il legittimo proprietario di una parte dei terreni sottostanti
il santuario e di dover effettuare un sopralluogo con alcuni tecnici all’antica
torre saracena. “Anche la torre è di mia proprietà” avrebbe spiegato agli
increduli interlocutori.
Il capo dei capi
- così lo hanno soprannominato i magistrati della direzione distrettuale
antimafia - è il capo della baia di sant’Antonio e vuole restaurarne gli
immobili? Sembra davvero una delle tante leggende di una provincia dove ancora
in tanti ritengono che la mafia non
esiste ma che però attribuiscono ai mafiosi onnipotenza e onniscienza. Una
visura per immobili presso l’Agenzia delle entrate cancella dubbi e incertezze.
Secondo la nota di trascrizione effettuata il 2 novembre 2020, la proprietà di quattro
particelle di terreno “a pascolo” per 4,59 ettari nel promontorio di Capo Milazzo
appartiene in parti uguali all’avvocato Cattafi e a un’ultranovantenne
originaria del comune di Merì ma residente a Barcellona Pozzo di Gotto, la
signora Mattia Gitto. A sancire la contitolarità una sentenza del tribunale
della città del Longano del 20 giugno 2002, quasi vent’anni fa; a pronunciarla
un giudice onorario, l’avvocato Egisto Antonino Paratore.
La sentenza poneva fine a una causa civile tra il
pluripregiudicato Cattafi e la stessa Mattia Gitto, il primo rappresentato processualmente
dal noto legale messinese Antonio Giuffrida, la seconda dall’avv. Bruno
Bagnato. Oggetto della contesa l’indisponibilità della donna a riconoscere la
validità e gli effetti di un presunto accordo sottoscritto con il Cattafi in
vista dell’acquisto degli immobili della baia di sant’Antonio. Il dispositivo
della sentenza fornisce utili elementi per comprendere la rilevanza degli
interessi economici in gioco. “Il Cattafi con atto extragiudiziale del 18 novembre
1988 aveva comunicato alla Gitto l’intendimento di ottenere in suo favore il
trasferimento della metà del terreno per il quale è sorta la lite e a tal fine la
invitava a comparire il 22 dicembre 1988 presso il notaio Salvatore Cutrupia di
Barcellona P.G. per procedere alla stipula dell’atto pubblico”, riporta la
sentenza. “Cattafi conveniva in giudizio
davanti al Tribunale di Messina la Gitto, chiedendone la condanna al
risarcimento di tutti i danni consequenziali alla mancata disponibilità
dell’immobile e altresì, previo accertamento dell’autenticità delle
sottoscrizioni apposte in calce alla scrittura privata dell’1 aprile 1988, che venisse
emessa una sentenza per trasferire allo stesso la metà indivisa dell’appezzamento
sito in Milazzo, contrada Sant’Antonio, con entrostanti tre piccoli fabbricati,
con annessi, pertinenze e dipendenze, riportato in catasto alla pag. 10765,
foglio 1 particelle 12-15-18 e 20”.
Non avendo ottenuto risposta, con raccomandata del 28
luglio 1988 e successiva missiva del 12 settembre, Rosario Pio Cattafi intimò la
Gitto “di procedere al trasferimento dell’appezzamento di terreno in atto solo
alla stessa intestato”. Al processo iniziato il 20 febbraio 1989, Mattia Gitto
chiese il rigetto della domanda o in caso contrario, di disporre il
trasferimento della proprietà in ragione di un terzo e non della metà come
richiesto. Sempre secondo la Gitto, la dichiarazione sottoscritta l’1 aprile
1988 doveva ritenersi nulla e priva di effetti giuridici in quanto “tra la
stessa ed il Cattafi non è intercorso accordo alcuno né convenzione di alcun
genere e che non è stata versata in suo favore somma alcuna, nonché che la
vicenda era stata seguita dal fratello Francesco Gitto e che solo dopo la sua
morte, avvenuta il 14 dicembre 1987, il Cattafi assumeva di avere diritto alla
metà del bene in questione, di avere pagato la metà del valore e delle somme
occorse per l’acquisto e che solo a seguito di queste sue assunzioni veniva
sottoscritta la scrittura, per altro predisposta”. La signora Mattia Gitto
sostenne che gli accordi intercorsi tra il fratello Francesco e Rosario Pio
Cattafi “erano ben diversi da come prospettati dall’attore e precisamente che
questi aveva partecipato alle spese di acquisto solo in ragione di un terzo”.
Prestiti,
triangolazioni e allevamenti di pesci
Successivamente la causa fu cancellata dal ruolo a
seguito dell’istituzione del Tribunale di Barcellona, dove fu riassunta ancora
su richiesta del Cattafi con atto del 20 agosto 1992. Fallito un primo
tentativo di riconciliazione, il 10 ottobre 2001 la causa venne assegnata a
sentenza. Alla fine il giudice accolse le richieste del Cattafi. “Dall’interrogatorio
formale reso dall’attore è emerso che effettivamente i rapporti relativi
all’operazione di acquisto per aggiudicazione di asta fallimentare del terreno
intercorsero col sig. Francesco Gitto, ma è emerso altresì che il bene venne
intestato alla sig.ra Mattia Gitto per ragioni di convenienza fiscale in quanto
la stessa era coltivatrice diretta”, scrive il giudice onorario Egisto Antonino
Paratore. “Dalle dichiarazioni rese dai testi escussi è emerso, tra l’altro,
che del terreno in questione il Cattafi e il Gitto Francesco si consideravano
comproprietari in ragione della metà ciascuno; che più volte gli stessi hanno
discusso, anche in presenza della Gitto Mattia, del programmato impianto di
itticoltura da realizzare nel terreno in questione; che la Gitto Mattia, senza
nulla osservare, consegnava al Cattafi la scrittura privata debitamente
sottoscritta e ciò sta a dimostrare la veridicità della dichiarazione resa
dallo stesso Cattafi in sede di interrogatorio secondo la quale Io mi recai l’indomani pomeriggio, insieme
al mio amico Michele Petretta. In presenza dello stesso io e la Gitto abbiamo
sottoscritto la dichiarazione di comproprietà”. Sempre secondo il giudice
“la sottoscrizione e la consegna di uno dei due esemplari della scrittura privata
al Cattafi è desumibile sia avvenuta dopo che, su consiglio del di lei nipote,
la Cattafi si era consultata col proprio legale”.
“E’ emerso altresì (teste Gitto Giuseppe, nipote della
Mattia) che La sig.ra Gitto venne a
sapere successivamente che il Cattafi era partecipe del rapporto solo nella
misura della terza parte e che aveva versato somme in ragione della metà. Anche
questa circostanza mi venne riferita dalla Gitto Mattia. Ora appare
veramente strano se non addirittura inverosimile che il Cattafi avesse versato
somme in ragione della metà per diventare poi comproprietario dell’acquistato
terreno in ragione di un terzo”, si legge ancora nella sentenza. “Sia dalle deposizioni
rese dai testi escussi che di documenti agli atti è emersa la prova che il
Cattafi rilasciò degli effetti cambiari al Gitto Francesco per reperire il
liquido, previo sconto bancario, affinché la Gitto Mattia potesse concorrere ed
aggiudicarsi il bene in questione e che alla luce degli accordi intercorsi il
Gitto stesso ebbe a restituire all’anticipatario Cattafi la metà del versato,
tant’è che la Gitto Mattia sottoscriveva liberamente, dopo avere
presumibilmente preso parere dal suo legale di fiducia, la scrittura privata
dell’1 aprile 1988, con la quale dichiarava e riconosceva, tra l’altro, di aver al tempo partecipato anche in nome e
per conto del sig. Cattafi e conseguentemente l’aggiudicazione, il
trasferimento e la proprietà dell’immobile sono da intendere effettuate a nome
della sottoscritta e del Cattafi in ragione della metà per ciascuno, nonché di
trasferire al sig. Rosario Cattafi e/o alla persona che questi indicherà, la
metà indivisa del fondo…. Riconosceva altresì la sig.ra Gitto che nessun corrispettivo resta a lei dovuto
avendo il Cattafi al tempo integralmente provveduto al versamento di quanto di
sua quota e spettanza”. Insomma, inizialmente tutti i soldi per
l’operazione sarebbero stati messi dal pregiudicato Cattafi; lo stesso si
sarebbe riservato di attribuire la titolarità della propria parte a uno o più
soggetti terzi.
Alla luce del certificato di destinazione urbanistica
degli immobili rilasciato dal Comune di Milazzo il 21 aprile 1988 e prodotto in
sede processuale da Mattia Gitto, i protagonisti dell’affaire non potevano non
sapere che tutti i terreni ricadevano in zona sottoposta a vincolo
paesaggistico. Così sembrerebbe credibile che l’unico progetto a cui aspiravano
Cattafi, i Gitto e tale Michele Petretta
potesse riguardare l’allevamento di pesce nella baia ed eventualmente la sua
commercializzazione. Ma allora perché è stata protratta allo stremo la diatriba
giudiziaria tra le parti e soprattutto perché si è pensato a un meccanismo di
finanziamento e acquisto così tortuoso e farraginoso? E perché mai proprio oggi
l’avvocato barcellonese scende personalmente in campo per mettere in sicurezza ruderi abbandonati da decenni, nonostante i
vincoli ancora più stringenti a tutela della baia di sant’Antonio e del Capo?
Il principe
nero del Longano
Su Rosario Pio Cattafi sono stati scritti faldoni di
documenti giudiziari, centinaia di articoli e inchieste giornalistiche (Il principe nero del duemila lo ha
definito la rivista antimafia I Siciliani),
un report (La peggio gioventù a firma
dell’avvocato Fabio Repici), finanche un libro-dossier biografico pubblicato
dal Movimento Agende Rosse di Salvatore Borsellino. Il suo nome lo s’incrocia
nelle vicende più oscure e nelle inchieste giudiziarie più inquietanti degli
ultimi 50 anni: le scorribande neofasciste nell’Università di Messina nei primi
anni ’70; i traffici di droga delle cellule criminali siciliane e calabresi in
trasferta a Milano con sede nell’autoparco di Via Salomone (primi anni ’80); la
penetrazione mafiosa nei casinò del nord Italia e il conseguente omicidio del
procuratore di Torino, Bruno Caccia; i traffici d’armi a favore di paesi sotto
embargo promossi da grandi holding industriali italiane e da imprenditori in
odor di mafia (primi anni ’90); la “presunta” connection tra massopiduisti, neofascisti
e boss mafiosi – i cosiddetti Sistemi
Criminali – in vista delle stragi del biennio 1992-93 e di un’auspicata
secessione del sud Italia; il comando e il controllo di una delle più potenti e
violente cosche siciliane, la “famiglia” barcellonese, in grado d’infiltrasi
negli apparati istituzionali e nella gestione degli enti locali; l’efferato
omicidio a Viterbo dell’urologo Attilio Manca, l’11 febbraio 2004, ecc..
Nei confronti di Rosario Pio Cattafi nel dicembre 2011
il Tribunale di Messina, su richiesta della Direzione distrettuale antimafia,
ha emesso un decreto di sequestro dei beni per svariati milioni, tra cui una
società, la Dibeca Sas, interessata alla realizzazione di un maxi-parco
commerciale a Barcellona Pozzo di Gotto (progetto in freezer dopo la campagna
stampa de I Siciliani e un esposto
all’autorità giudiziaria dell’Associazione antimafie “Rita Atria”). “Il Cattafi
è stato sottoposto alla misura di prevenzione personale della sorveglianza
speciale di Pubblica sicurezza, con obbligo di soggiorno, per la durata di anni
cinque, in quanto ritenuto inserito a pieno titolo, in una posizione di
preminenza rispetto a quella dei semplici affiliati, in alcune organizzazioni
criminali di tipo mafioso, quali la famiglia
di Benedetto Santapaola e la famiglia
di Barcellona PG”, si legge nel decreto di sequestro. Il provvedimento è stato
però revocato dal tribunale peloritano nel marzo 2013; otto mesi prima (luglio
2012) Cattafi era stato arrestato con l’accusa di essere il dominus
incontrastato delle cosche del messinese (inchiesta Gotha 3).
E’ nell’ambito di quest’ultimo procedimento che sono
riemersi atti d’indagine risalenti a vent’anni prima che s’incrociano però con
la compravendita dei terreni di baia sant’Antonio a Capo Milazzo. In
particolare durante il processo d’appello Gotha
3, sono stati prodotti i verbali con le dichiarazioni che Rosario Pio
Cattafi aveva reso ai magistrati che indagavano sul sequestro di persona dell’industriale Giuseppe Agrati, avvenuto a
Milano nel gennaio 1975. La vittima fu rilasciata dopo il pagamento di
un riscatto di due miliardi e mezzo di vecchie lire. “Le dichiarazioni dell’avvocato
Cattafi, rese da imputato nell’inchiesta,
dimostrano oltre a conclamati rapporti con esponenti di primo piano della
criminalità organizzata catanese e meneghina, gli interessi economici del tutto
inediti per alcune operazioni immobiliari portate avanti da mafiosi di
Barcellona”, scrive il giornalista Leonardo Orlando (Gazzetta del Sud). “Pezzi da 90 del calibro di Girolamo Mommo Petretta e Francesco Ciccio Rugolo che, per l’occasione,
fiutando la possibilità di favorire una speculazione immobiliare, a metà degli
anni Ottanta erano persino sbarcati in coppia a Milano”. L’affare che vedeva
mediatori i due patriarchi della mafia barcellonese verteva proprio sulla
disponibilità degli ambiti terreni della di baia di sant’Antonio a Capo Milazzo.
“Io ho conosciuto Gianfranco
Ginocchi nel 1973, quando avevo 22 anni, in Sicilia, a Taormina, anzi più
precisamente a Nizza, ove vi era un cantiere presso il quale era in costruzione
un grosso peschereccio commissionato dal Ginocchi”, ha dichiarato Cattafi
nell’interrogatorio del 27 settembre 1984, presenti il giudice istruttore Paolo
Arbasino e il Pm Francesco Di Maggio. “Furono due marinai a nome Carmelo Russo
e Giovanni Maiorana a presentarmi il Ginocchi. Con questi si instaurò quindi un
rapporto d’amicizia e io lo ospitai 3-4 giorni a Barcellona a casa mia. In
pratica Ginocchi mi incaricò di seguire i lavori di costruzione del
peschereccio promettendomi anche un compenso di 10 milioni all’anno (…) Quando
mi sposai a Roma il 5 marzo 1975, il Ginocchi mi mise a disposizione il suo
attico a San Lorenzo e mi raggiunse per il fine settimana con una sua amica. In
quell’occasione io andai con lui e le due donne al casinò Ruhl di Nizza del
quale lui mi disse essere comproprietario. Poi quando ebbi un figlio il
Ginocchi fece da padrino, tanto buoni erano allora i nostri rapporti…”.
“Rammento che una volta Gianfranco
Ginocchi all’uscita dal ristorante Le
Asse di Milano ebbe a presentarmi due persone a nome Cosimo Murianni e Federico
Corniglia”, ha aggiunto Cattafi. “Ginocchi ebbe anche a precisarmi che il Murianni gli aveva promesso un
prestito qualora lui si fosse prestato ad una operazione di titoli falsi.
Effettivamente sono al corrente del fatto che il Ginocchi avesse in progetto di
realizzare un insediamento turistico a Milazzo. Fui io che venni incaricato di
metterlo in contatto con il proprietario della baia di sant’Antonio, tale
Rizzitano. Preciso al riguardo che io mi limitai a favorire l’incontro mentre
fu il Ginocchi a cercare direttamente l’acquisto del terreno, o meglio non sono
al corrente dell’assetto dell’operazione e la mia impressione fu che il
Ginocchi cercasse di rappresentare una grossa operazione economica per coprire la situazione deficitaria della
Royal. Io non conobbi personalmente il Rizzitano ma a lui pervenni tramite Francesco
Gitto che è cugino del Governatore di New York, anzi, preciso, cugino della
moglie”.
Ecco allora di nuovo il nome
di Francesco Gitto e quello di una new
entry, Gianfranco Ginocchi, agente
di cambio con importanti relazioni con gli istituti di credito svizzeri, assassinato
il 15 dicembre 1978. Secondo gli inquirenti Ginocchi era interessato a due
società finanziarie, la Royal
Italia S.p.a. e l’Euro
management Italia S.p.a. - International Selective, i cui nomi
erano emersi nell’ambito delle indagini sull’omicidio di un altro boss del
firmamento di Cosa nostra, Giuseppe Di Cristina, eseguito a Palermo il 30
maggio 1978. Al momento della morte, Di Cristina era in possesso di due assegni
circolari di 10 milioni di lire ciascuno che erano stati negoziati sul conto
corrente delle predette società assieme ad una partita di altri assegni circolari
per un importo complessivo di tre miliardi di lire. L’allora giudice di
Palermo, Giovanni Falcone, appurò che il denaro proveniva da un vasto traffico
di droga svolto tra Malta, la Sicilia e gli Stati Uniti d’America dal gruppo
mafioso Inzerillo–Spatola-Bontate.
Dal fascicolo del procedimento
per il sequestro Agrati è emerso anche il verbale di sommarie informazioni
testimoniali dell’avvocato Roberto Garufi in cui è riservato un passaggio
proprio alla speculazione di Capo Milazzo. “Mi sembra che nel 1974 il Ginocchi
iniziò un’operazione immobiliare acquistando un fondo nella baia di sant’Antonio
a Milazzo”, ha dichiarato Garufi. “Mi sembra che tale fondo gli fu segnalato
dai suoi marinai e dal Cattafi, il quale anzi a quel che mi risulta chiese la
mediazione di 36 milioni di lire per la segnalazione di tale affare, mediazione
che non gli fu mai pagata. Ho conosciuto a casa di Ginocchi tale Francesco
Rugolo detto Ciccio, di origine siciliana. Costui era un individuo proprietario
di un fondo o così mi pare in Sicilia, mi sembra fu presentato al Ginocchi dai
suoi marinai, per cui il Ginocchi trattò l’acquisto del fondo in questione,
prima della baia di sant’Antonio. ll Rugolo era originario di un paese vicino a
Barcellona”.
Ed un ulteriore riscontro sugli
interessi del gruppo siculo-meneghino nel capoluogo mamertino è giunto da
Federico Corniglia, uno dei due uomini che Rosario Cattafi ebbe modo di conoscere
a Milano in compagnia di Ginocchi. Interrogato nel dicembre 1997 dai pubblici
ministeri Alberto Nobili e Antonio Ingroia, Corniglia ha ammesso di essere
entrato in contatto con numerosi esponenti della mafia siciliana, tra cui il boss
palermitano Stefano Bontate, il principe
di Villagrazia legato a importanti settori della politica e dell’economia
italiana, anch’egli assassinato (per mano dei Corleonesi) nell’aprile 1981. “A
Bontate consegnai due false carte d’identità svizzere”, ha raccontato Corniglia.
“In quella stessa occasione notai che il Bontate era in compagnia di uno
studente di Barcellona che si chiamava Saro Cattafi. Era un uomo di fiducia del
mafioso palermitano, tanto che si occupò
di gestire in qualche modo, un grosso debito che tale
Gianfranco Ginocchi aveva contratto nei confronti di quel capo mafia. Ginocchi aveva
gli uffici in via Cardinal Federico, proprio alle spalle della Borsa. Cattafi
addirittura, si installò a casa di questo Ginocchi perché doveva una cifra a
Bontate. Non poteva assolvere però a questo debito e lui era proprietario di
una terra edificabile nel comune di Milazzo, dove adesso è stato edificato un
grande albergo, e gli cedettero questa terra, cioè sotto minacce, ma proprio fu
l’uomo che fu mandato… Il Cattafi era uno di quei soggetti che ho visto poi
arrivare delle volte col denaro, nel senso che aveva il compito specifico di
trasferire materialmente i soldi all’estero; si trattava, in sostanza, di uno
spallone”.
La
tragica morte del patriarca
Nel corso del processo
civile nel tribunale barcellonese per determinare l’effettiva titolarità dei
terreni della baia di sant’Antonio, sia Rosario Cattafi che la signora Mattia
Gitto hanno ammesso la compartecipazione all’affaire di Francesco Gitto,
fratello di quest’ultima. Nella sentenza non viene specificato altro sulla sua identità,
tranne la data di morte, il 14 dicembre 1987. Giorno maledetto quello, uno dei più
violenti della storia criminale dell’intera provincia di Messina. Un gruppo di
fuoco guidato dal boss Giuseppe “Pino” Chiofalo assassinò quattro persone in
due comuni diversi e a poche ore di distanza: le prime due a Barcellona, gli
altri due a Falcone, Saverio e Giuseppe Squadrito (rispettivamente
padre e figlio). Le vittime barcellonesi furono il commerciante Francesco Gitto
e un suo dipendente, Natale Lavorini; vennero freddati all’interno di un
negozio in pieno centro. Francesco Gitto, fratello di Mattia e socio di Rosario
Cattafi per i terreni di Capo Milazzo, è un altro illustre patriarca della criminalità
barcellonese. “Egli era un notissimo imprenditore, possedendo negozi di abbigliamento a
Barcellona, Messina, Trapani e Marsala”, scrivono i magistrati. “Gitto era
dirigente della squadra di calcio Nuova Igea di Barcellona ed aveva interessi
immobiliari, tanto da essere proprietario del palazzo in cui era ospitata la
locale Compagnia dei Carabinieri. Inoltre era cugino acquisito
dell’ex governatore di New York Mario Cuomo”. Sempre secondo gli inquirenti, il
commerciante era un soggetto particolarmente
vicino ai “barcellonesi” e ai Santapaola di Catania. “Francesco Gitto aveva
cointeressenze nel campo dei lavori pubblici, come può desumersi dalla
circostanza del rinvenimento, fra le sua carte, di inviti rivolti alle imprese
Cappellano Carmelo e Caliri Salvatore di Terme Vigliatore per partecipare alla
costruzione della rete idrica di Carlentini”. Con mafiosi del calibro di Petretta,
Rugolo e Iannello erano stati avviati invece diversi investimenti edilizi.
Giuseppe
“Pino” Chiofalo, divenuto collaboratore di giustizia, ha spiegato le ragioni
per cui decretò ed eseguì personalmente l’omicidio del commerciante. “Francesco
Gitto era un vero autorevole referente dei palermitani; Carmelo Coppolino mi riferì
che egli aveva nel tempo aumentato il suo prestigio a causa
dell’intensificazione dei suoi rapporti con esponenti di Cosa Nostra e mi fece
pure il nome di Mariano Agate”, ha dichiarato Chiofalo. “So anche che il Gitto aveva
avviato alcune attività economiche nel paese di origine di Agate, nel
trapanese, realizzando un supermercato o un negozio. Il
Coppolino disse altresì che il
Gitto aveva stabilito rapporti con il gruppo di Benedetto Santapaola e
soprattutto era riuscito ad intessere buoni collegamenti con personaggi
importanti del mondo politico, sia a Roma che a Messina. Nelle sue proprietà di
Barcellona avevano perfino costruito una Caserma con l’approvazione del
Ministero dell’Interno. Gitto era riuscito ad avere attivi contatti anche con
esponenti dei vertici della magistratura e ciò era stato per lui nota e motivo
di forza e di carisma. In questo quadro non privo di importanza fu il rapporto
di parentela che lo legava al Governatore statunitense Mario Cuomo. Di fronte a situazioni come quelle descritte
il Coppolino non fu in condizione di ostacolare l’inserimento a Barcellona di
Cosa Nostra palermitana”.
Sempre
secondo Chiofalo, Francesco Gitto avrebbe trafficato in stupefacenti. “Con
l’apporto del Gitto, i palermitani avevano impiantato in un terreno di sua proprietà
una raffineria di eroina che fu poi smantellata in previsione del mio ritorno a
Barcellona”, ha aggiunto. “In tali attività i palermitani vennero coadiuvati da
alcuni pregiudicati barcellonesi (…) I suddetti operavano su precise direttive
del Coppolino che con il Gitto e il Petretta erano i veri punti di riferimento
per Cosa Nostra palermitana. Tra coloro che erano addetti alla raffinazione vi
era il noto Francesco Marino Mannoia. Per giustificare la presenza di quelle
persone, Francesco Gitto inviava sul luogo il proprio nipote Giuseppe Gitto che
vi sostava quasi in permanenza. La droga raffinata veniva poi trasferita in
un’area prossima a Patti, dove veniva imbarcata a bordo di un peschereccio
ancorato al largo e quindi avviata a Palermo. Il Coppolino affermò che Gitto ambiva
transitare tra le nostre fila ma non rientrava nei suoi propositi quello di
interrompere i rapporti con i palermitani e con Santapaola. Ciò indusse noi
tutti a deliberare la sua eliminazione e questo non perché avessimo un qualcosa
di personale nei suoi confronti, quanto e solamente perché attraverso il Gitto
i palermitani ed i catanesi costituivano un ostacolo alla pratica attuazione
del nostro programma che aveva finalità esclusivamente economiche. Tutto questo
in riferimento anche al fatto che il Santapaola era interessato alla
realizzazione della grande opera ferroviaria e delle attività connesse non solo
perché tutore delle imprese Graci, Costanzo, Rendo e di altre grosse unità
imprenditoriali del catanese, ma perché nelle attività di dette imprese egli
aveva fatto confluire denaro proprio”.
Quegli assegni in tasca al morto
Nel
corso dell’inchiesta antimafia Gotha 3
gli inquirenti hanno evidenziato un altro importante
elemento di collegamento tra Francesco Gitto e Rosario Pio Cattafi. “Subito
dopo il grave fatto di sangue veniva rinvenuto sul cadavere del Gitto un
assegno dell’importo di 24 milioni di lire rilasciato proprio da Rosario Cattafi
in favore della vittima; l’assegno veniva sequestrato”, scrivono gli inquirenti.
“Nella sentenza del processo Mare Nostrum
si ribadiva, fra l’altro, che il Cattafi era all’epoca indagato per associazione mafiosa a Milano, indicato poi dal
Chiofalo come uomo di onore, circostanza ribadita da Luigi Sparacio e altri
collaboratori”.
Al processo Gotha3
l’avvocato Rosario Pio Cattafi è stato condannato a 12 anni in primo grado,
ridotti a 7 in appello perché per i giudici è stata provata la sua mafiosità
soltanto fino all’anno 2000. A marzo 2017 l’ennesimo colpo di scena: la Corte
di Cassazione ha disposto un nuovo processo perché Cattafi è
stato ritenuto partecipe all’associazione mafiosa barcellonese solo fino al
1993. Il giudizio è stato rinviato alla Corte d’Appello di Reggio
Calabria per gli anni compresi tra il 1993 e il 2000, mentre è giunta
l’assoluzione per gli anni tra il 2000 e il 2012. Dopo un incomprensibile
ritardo il nuovo processo è iniziato a Reggio e qualche mese fa il sostituto
procuratore generale di Cassazione Giuseppe
Adornato ha chiesto l’assoluzione di Cattafi e il “non doversi
procedere per estinzione per prescrizione” del reato di associazione mafiosa “perché
si ritiene che la prova di partecipazione dell’imputato alla cosca è dipesa
prevalentemente dal rapporto privilegiato e personale che egli aveva con Giuseppe
Gullotti”, mentre per gli anni successivi al suo arresto non sarebbero emersi “elementi
probatori adeguati a comprovare una condotta specifica”.
L’avvocato Fabio Repici, difensore
dell’Associazione nazionale familiari vittime della mafia,
parte civile nel procedimento, ha invece chiesto la condanna dell’imputato. “E’ assolutamente peculiare il ruolo di
Rosario Pio Cattafi e della famiglia mafiosa barcellonese di Cosa Nostra, della
quale egli è esponente”, ha affermato il legale. “Peculiarità che depone, però,
non nel malinteso senso di esponente quasi di rango minore la cui pericolosità
risiedeva nella sua vicinanza al solo boss Giuseppe Gullotti, ma di soggetto la
cui enorme pericolosità è certificata dalla richiesta della Procura generale”.
Nelle sue conclusioni
l’avvocato Repici ricorda che la DDA di Palermo aveva informato il Procuratore
generale delle risultanze di una relazione di servizio redatta da un
appartenente alla polizia penitenziaria, Cosimo Chiloiro, secondo cui l’allora detenuto
Salvatore Riina - in occasione di un’udienza del processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia che era in corso davanti
alla Corte d’Assise di Palermo - “ha mostrato di ben conoscere il Cattafi,
chiamandolo Zio Saro e definendolo un
trafficante di armi”.
“Il capo assoluto di Cosa
Nostra – aggiungeva l’avv. Repici - dimostrava pertanto di ben conoscere
Cattafi e di appellarlo con incredibile ossequio Zio Saro, locuzione il cui significato in contesto di mafia è oltremodo
chiaro e insuscettibile di interpretazione alternativa, cioè di criminale
mafioso di livello apicale perfino a fronte di colui che per oltre un decennio
è stato il capo incontrastato dell’intera Cosa Nostra”.
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