La “nostra” Africa. Missioni italiane e guerre ai migranti a sud del Mediterraneo
Il ridimensionamento della
presenza militare in Iraq e Afghanistan e sei nuove operazioni, cinque nel continente
africano e una in ambito NATO per la sorveglianza dello spazio aereo alleato. È
quanto previsto dal decreto di finanziamento delle missioni internazionali
delle forze armate predisposto dal governo Gentiloni-Minniti-Pinotti per il
periodo compreso tra l’1 gennaio e il 30 settembre 2018, poi prorogate senza
modifiche dall’esecutivo Conte-Salvini-Di Maio sino alla fine dell’anno. Per
gli impegni del tricolore in terra africana è prevista una spesa di oltre 118
milioni di euro in nove mesi, il 15% dell’ammontare dei costi delle missioni di
guerra in mezzo mondo; i 1.234 militari impiegati costituiscono il 19% di tutto
il personale della Difesa schierato fuori dai confini nazionali.
Per comprendere le ragioni del rilancio delle
avventure coloniali italiane in Africa è utile riportare alcuni dei passaggi
della Relazione delle
Commissioni Affari Esteri e Difesa della Camera dei Deputati sulla Delibera del
Consiglio dei Ministri in merito alla partecipazione alle operazioni militari
internazionali, approvata il 16 gennaio 2018. “Le nuove missioni si concentrano in un’area
geografica – l’Africa - che riveste interesse strategico prioritario per
l’Italia, che, oltre a dover gestire i flussi migratori provenienti da tale
continente, deve affrontare il rischio che un rallentamento del processo di
pacificazione e di consolidamento delle istituzioni politiche della Libia sfoci
in un nuovo fattore di minaccia per i propri interessi nazionali e per la
sicurezza del bacino del Mar Mediterraneo”, riporta il documento. “Gli interventi
previsti in Africa si concentrano su attività utili a incrementare la sicurezza
e la stabilità internazionali (costruzione di capacità - capacity
building) a favore di Paesi impegnati nella lotta al terrorismo e ai
traffici illegali internazionali (…) Nella regione del Sahel molti Paesi
continuano ad incontrare difficoltà nel controllo dei rispettivi territori e
frontiere e si trovano a far fronte ad una minaccia terroristica che si salda
con traffici criminali e disagio sociale ed economico di ampie fasce di
popolazione; nel Corno d’Africa la minaccia
di al Shabab rimane sempre molto alta e impedisce un avvio più
deciso di una ripresa in Somalia”.
Nello specifico, le nuove operazioni che vedono
protagoniste le forze armate italiane nel continente sono scaturite da accordi
bilaterali (le missioni di assistenza in Libia e Niger) o da impegni
assunti con le Nazioni Unite (United Nations Mission for the Referendum in
Western Sahara - MINURSO), l’Unione
europea (European Union Training Mission nella Repubblica Centrafricana - EUTM RCA) e la NATO (Tunisia). A queste si aggiunge anche il “rafforzamento” della presenza italiana
nelle operazioni avviate dall’Unione europea nella regione del Sahel (EUCAP Niger, EUCAP Mali ed EUTM Mali)
e, contestualmente, il comando della Cellula di Coordinamento Regionale delle
tre missioni stesse. “La nuova missione di assistenza e supporto in Libia, che
integra le attività della precedente missione denominata Operazione Ippocrate,
conferma il carattere prioritario dell’impegno dell’Italia per la pace e la
stabilità del Paese”, aggiungono le Commissioni Esteri e Difesa della Camera
dei Deputati nella loro relazione di gennaio. “La riorganizzazione degli
impieghi nella nuova missione militare su base bilaterale in Libia ha
l’obiettivo di rendere l’azione italiana di assistenza e supporto del Governo
nazionale libico più incisiva ed efficace; l’ulteriore nuova linea di
impegno militare dell’Italia, rivolta al Niger, avviene nel contesto di un
complessivo innalzamento di livello delle relazioni diplomatiche tra i due
Paesi, legati tra loro da una solida alleanza di tipo strategico corroborata da
un impegno di lungo corso nella regione saheliana e nello stesso Niger
attraverso gli strumenti della cooperazione allo sviluppo, anche grazie alle
risorse stanziate con il cosiddetto Fondo
Africa, nell’obiettivo di promuovere il controllo del territorio ed il
contrasto dei traffici illeciti, a partire da quello di essere umani (…) Le
missioni in Libia ed in Niger sono, quindi, strategicamente rivolte anche a
contrastare l’endemizzazione di questo fenomeno, che sovrappone terrorismo e
attività criminale…”. Nero su bianco, si ripropone la falsa narrazione del
binomio terrorismo-migrazioni, mentre per fronteggiare la presunta minaccia rappresentata
dai terroristi-migranti si fondono insieme
l’intervento militare e gli “aiuti allo sviluppo”, le strategie
bellico-sicuritarie e la “cooperazione”.
Il gran ritorno in Libia per governare e arrestare le migrazioni
“La sicurezza del
Mediterraneo necessita di una Libia unita, stabile e pacificata. L’Italia ha assunto
un ruolo di primo piano nella gestione della crisi, sviluppando con Tripoli una
partnership multisettoriale che ha già conseguito risultati importanti nel
campo del contrasto al terrorismo e della riduzione dei flussi migratori. Ci
muoviamo sulla base di alcuni principi cardine: ricerca di una soluzione
politica alla crisi; sostegno alle Istituzioni previste dall’Accordo Politico
Libico; appoggio all’azione delle Nazioni Unite per promuovere, nel rispetto
dell’ownership libica, un processo inclusivo di riconciliazione nazionale”.
Così si legge nel rapporto dal titolo La strategia italiana nel Mediterraneo.
Stabilizzare le crisi e costruire un’agenda positiva per la regione,
redatto dal Ministero degli Affari Esteri in occasione del meeting MED - Mediterranean
Dialogues, tenutosi a Roma nel luglio 2017.
“L’Italia si è fatta
portavoce delle richieste libiche di assistenza anche in ambito UE, ottenendo che il Paese
beneficiasse, dal 2016 ad oggi, di oltre 160 milioni di euro per interventi di stabilizzazione, emergenza e protezione
dei migranti”, prosegue il rapporto della Farnesina. “Abbiamo proposto alla Commissione un vasto
progetto di sostegno alle autorità libiche nella gestione integrata delle frontiere (IBM) e nella promozione
di iniziative di sviluppo
economico-sociale nelle aree lungo i confini meridionali. Il progetto IBM prevede un finanziamento per il
primo anno di 46,3 milioni di euro, cui l’Italia contribuisce con 12,2 milioni di euro. La collaborazione con le
autorità libiche nel contrasto al traffico di esseri umani è sempre più efficace grazie
all’intenso lavoro della Commissione Congiunta prevista dal memorandum del 2 febbraio 2017 (…) La Commissione ha
identificato inoltre, tra le priorità strategiche
dell’azione
congiunta dei due Paesi, il rafforzamento del sistema di controllo dei confini meridionali della
Libia, quale misura complementare per prevenire il traffico illegale di esseri umani”.
Oltre a contribuire al progetto di gestione integrata delle frontiere, lo
scorso anno l’Italia ha assicurato alle autorità di Tripoli 5,2 milioni di euro in “interventi di
sviluppo” e 15 milioni di euro in
“aiuti umanitari e attività di emergenza”. Quattro motovedette sono state consegnate alla Guardia costiera della
Marina militare libica, mentre nell’aeroporto
militare di Mitiga, a pochi chilometri da Tripoli, è stata installata una
torre di controllo mobile e il personale italiano sta formando i controllori di
volo libici.
Con
il coordinamento e il supporto tecnico della Marina Militare italiana, le unità
fedeli al governo libico hanno esercitato sino allo scorso mese di luglio, in
forma limitata, il controllo sulla zona SAR (Search and Rescue) di ricerca e salvataggio dei naufraghi e di
tutte le persone in situazioni di pericolo in mare. L’area d’intervento era
stata determinata in precedenza dalle autorità marittime italiane su mandato
dell’Unione europea. Oggi ufficialmente sono i libici ad aver assunto la responsabilità di intervenire in
quella che è divenuta la Regione
Marittima Lybia SAR, assai simile a un grande trapezio scaleno con il
vertice superiore sinistro che sfiora l’arcipelago tunisino di Kerkenna, mentre
con quello destro l’isola di Creta. In quest’area Tripoli dovrebbe coordinare autonomamente
le risposte di pronto intervento, assicurando altresì il personale e i mezzi
perché i migranti soccorsi in mare possano raggiungere un “porto sicuro”. Quando
esse si verificano, gli interventi si trasformano in vere e proprie deportazioni
manu militari dei richiedenti asilo
verso le città costiere e i lager-hotspot sparsi in tutto il paese
nordafricano. Tra i primi effetti del trasferimento di competenze SAR da Roma e
Tripoli c’è ovviamente la forte riduzione del numero di persone che hanno
raggiunto il sud Italia dalle coste libiche, cosa che ovviamente ha soddisfatto
governo e parlamentari di maggioranza e opposizione ma che ha invece prodotto
conseguenze drammatiche sulle condizioni di vita (o sulla vita stessa) di
decine di migliaia di cittadini africani o mediorientali.
Nel 2018 il numero dei migranti riportati in Libia è
stato superiore a quello dei migranti che sono riusciti ad approdare in Italia.
Secondo i dati forniti dalla Guardia costiera di Tripoli le persone
intercettate dalle motovedette libiche dall’inizio dell’anno sono state 14.500,
mentre solo 12.543 sono quelle che, sulla rotta libica, sono sbarcate in Italia.
Di contro si assiste al cinico balletto sui dati dei morti in mare: secondo le
ultime cifre diffuse dall’OIM, l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, nei primi dieci mesi
dell’anno sono 1.839 le persone che hanno perso la vita nel loro tentativo di
attraversare il Mediterraneo.
Intanto
l’Italia continua a
recitare la parte di piccola potenza neocoloniale in terra libica. Dal gennaio
2018 la presenza delle forze armate italiane è stata potenziata in uomini,
mezzi e funzioni nell’ambito della Missione
bilaterale di assistenza e supporto (MIASIT)
al Governo di accordo nazionale di Fayez Serraj. La nuova
missione in Libia prevede un impiego massimo di 400 militari (compresi i 300
già precedentemente schierati con l’Operazione
Ippocrate), più 130 tra mezzi terrestri, navali e aerei, questi ultimi provenienti
dal dispositivo aeronavale nazionale Mare
Sicuro. Il
contingente comprende unità con compiti di addestramento, consulenza,
assistenza, supporto e mentoring;
unità per il supporto logistico generale e per lavori infrastrutturali; una
squadra rilevazioni contro minacce chimiche-biologiche-radiologiche-nucleari
(CBRN); unità con compiti di force
protection; personale sanitario. Il fabbisogno finanziario della
missione è stato stimato in 34.982.433 euro per il solo periodo compreso tra
l’1 gennaio e il 30 settembre 2018.
“MIASIT ha l’obiettivo di sostenere le autorità libiche nell’azione
di pacificazione e stabilizzazione del Paese e nel rafforzamento delle attività
di controllo e contrasto dell’immigrazione illegale, dei traffici illegali e
delle minacce alla sicurezza, in armonia con
le linee di intervento decise dalle Nazioni Unite”, ha specificato il
Governo italiano. Diverse le attività svolte dal personale impiegato: si
va dalla formazione delle forze di sicurezza locali all’organizzazione di corsi
di sminamento, all’assistenza sanitaria, al ripristino dell’efficienza degli
assetti terrestri, navali ed aerei comprese le relative infrastrutture, alle
attività di capacity building, ecc.. Sono
previste pure la “possibilità di svolgere attività di collegamento e
consulenza a favore della Marina e Guardia costiera libica e la collaborazione
per la costituzione di un Centro operativo marittimo in territorio libico per
la sorveglianza, la cooperazione marittima e il coordinamento delle attività
congiunte”.
“Attraverso la nuova missione
in Libia si è inteso riconfigurare in un unico dispositivo le attività di
supporto sanitario e umanitario previste dall’Operazione Ippocrate e di alcuni compiti previsti dalla missione in
supporto alla Guardia costiera, fino ad ora inseriti tra quelli svolti dal
dispositivo aeronavale nazionale Mare Sicuro,
a cui si aggiungono ulteriori attività richieste dal Governo di Accordo
nazionale libico”, spiegano le autorità italiane. La missione “sanitaria” dell’Esercito è operativa
nella città di Misurata con un ospedale da campo con 30 posti letto, dove i medici italiani
curano i combattenti e i civili libici feriti durante i combattimenti nell’area
di Sirte, mentre la Marina opera ad Abu Sittah, il porto
militare di Tripoli, assistendo le operazioni della Guardia costiera libica equipaggiata
con quattro motovedette donate dall’Italia. Tre mesi fa,
il parlamento italiano ha autorizzato la cessione di altre 12 motovedette alla Guardia
costiera libica (dieci della classe 500
e due della classe Corrubia già in
dotazione alla Guardia costiera italiana) per “contenere il flusso di immigrati
clandestini verso l’Europa e ad assicurare il controllo della zona SAR libica
senza l’aiuto delle forze navali straniere”. La prima unità dotata di cannone e
mitragliatrici è stata consegnata il 21 ottobre scorso; l’Italia s’incaricherà
della manutenzione di tutte le imbarcazioni e dell’addestramento degli
equipaggi per una spesa di 2,5 milioni di euro. Prevista un’opzione per la
consegna ai libici di altre 17 motovedette.
Sempre a Tripoli si alternano periodicamente le navi ausiliarie della
Marina italiana destinate alle attività di ripristino dell’efficienza di mezzi
navali libici e che dal luglio 2017 ad oggi hanno consentito di riparare sei
unità della Marina e tre della Guardia costiera, “consentendo di incrementare
la capacità della forze marittime nel contrastare i traffici illeciti e la
tratta di esseri umani nelle aree di propria responsabilità”. La manutenzione
delle motovedette è realizzata grazie ai tecnici della nave officina Caprera. L’unità della Marina Militare svolge
anche compiti di coordinamento tra le forze navali libiche e quelle italiane ed
europee per la ricerca e soccorso (SAR). In acque territoriali libiche viene
inoltre schierato periodicamente un dispositivo aeronavale “integrato da
capacità ISR”, ovvero di acquisizione di informazioni operative (intelligence),
sorveglianza (surveillance) e ricognizione degli obiettivi (reconnaissance). Anche l’Aeronautica Militare è coinvolta nelle
attività di assistenza tecnica degli avieri libici per rimettere in condizioni
di volo i cargo militari C-130H “Hercules” basati nell’aeroporto di Mitiga.
Quest’anno
tra le novità più rilevanti della partnership italo-libica spicca l’invio di
istruttori e consiglieri militari per addestrare le milizie fedeli al governo.
La scelta della Difesa è caduta sugli uomini del 2° Reggimento “San Marco”, l’unica
unità specializzata nelle operazioni di interdizione marittima con capacità
assalto ogni tempo. Il contingente inviato in Libia è composto da 151
fanti di Marina e da due unità cinofile addestrate alla difesa delle
installazioni e alla ricerca esplosivi. Intanto proseguono in Italia e nel
paese africano le attività addestrative della Guardia costiera locale: ad oggi
sono stati “formati” oltre 220 addetti. Presso il Comando della Marina Militare
di Brindisi sono stati avviati i corsi d’indottrinamento
anfibio per i marinai libici addetti alla gestione delle frontiere e alla
lotta al traffico di migranti, a seguito di un accordo tecnico firmato nel novembre 2017 tra il Ministero degli Affari Esteri e della
Cooperazione Internazionale (MAECI) ed il Ministero della Difesa. I corsi hanno una durata di sei
settimane e vedono i partecipanti impegnati in esercitazioni presso
la sede della Brigata Marina “San Marco” e in alcune aree addestrative pugliesi (Torre Cavallo,
Massafra, San Vito dei Normanni, ecc.). Ulteriori attività di formazione delle
forze armate libiche sono in corso presso le installazioni della Marina
nell’isola de La Maddalena, Sardegna.
Come
abbiamo visto, l’addestramento dei militari libici in funzione anti-migrazione o
lo stesso supporto tecnico alla Guardia Costiera e alla Marina Militare
nazionale, sono svolti anche nell’ambito di Mare
Sicuro, l’operazione avviata nel marzo 2015 con lo schieramento di un
dispositivo navale nel Mediterraneo centrale. Le unità d’altura impiegate operano
in un’area di mare di circa 160.000 km quadrati, “assicurando la tutela degli
interessi nazionali, la protezione delle linee di comunicazione e delle navi
commerciali in transito, la protezione delle fonti energetiche strategiche e la
sorveglianza dei possibili movimenti delle formazioni jihadiste, ecc.”. Anche Mare Sicuro ha visto crescere il numero
degli effettivi e dei mezzi impiegati rispetto al 2017: da 700 a 745 militari e
da cinque a sei navi, mentre restano cinque i velivoli aerei, per una spesa
complessiva nei primi nove mesi del 2018 di 63,4 milioni di euro (66,78 milioni
il costo dell’operazione in tutto il 2017). Alle attività “controllo e
contrasto dell’immigrazione illegale e del traffico di esseri umani” connesse
con l’Operazione Mare Sicuro
partecipano con sempre maggiore frequenza gli equipaggi del 41° Stormo Antisom
dell’Aeronautica Militare di stanza nella base siciliana di Sigonella, con il
nuovo pattugliatore marittimo ognitempo P-72A.
È
stato ampliato anche l’intervento della Guardia di Finanza a favore della
Guardia costiera libica: il numero degli addetti militari è passato da 25 nel
2017 a 35 nel 2018 (più un mezzo navale), per un costo complessivo di 1,6
milioni. Lo scorso anno la Guardia di Finanza aveva intensificato
le iniziative addestrative realizzando nove corsi rivolti a circa 200 funzionari delle Agenzie di law enforcement libiche e di altri Paesi dell’Africa sub-sahariana (Niger, Ciad,
Burkina Faso, Mali, Nigeria, Costa d’Avorio, Mauritania,
Seychelles). Va inoltre rilevato che a
fine 2017 un team di istruttori e mezzi terrestri italiani è stato inviato nel sud
del paese per addestrare le guardie di confine. Nello stesso periodo, ufficiali
del Comando operativo interforze dello Stato Maggiore della Difesa e del genio
dell’Esercito, in coordinamento con il Dipartimento centrale dell’Immigrazione
e il supporto finanziario dell’Unione europea, hanno effettuato i primi
sopralluoghi a Ghat, nella Libia sud-occidentale al confine con Algeria, Niger
e Ciad, in vista di una nuova missione multinazionale UE e/o NATO nella vasta
regione del Fezzan, interessata dalle principali rotte migratorie africane e
dove le centrali d’intelligence occidentali hanno segnalato la presenza di
“miliziani dello Stato Islamico”.
Personale
italiano opera infine nell’ambito di EUBAM Libia (European Union
Integrated Border Management Mission in Libya), la missione istituita nel
maggio 2013 dall’Unione europea per garantire alle autorità libiche formazione,
consulenza strategica e capacità nella “gestione integrata delle frontiere
terrestri, marine e aeree”. Le attività vengono svolte per ragioni di sicurezza
in territorio tunisino, ma nel luglio 2017 Bruxelles ha approvato la revisione
strategica del mandato di EUBAM,
estendendone i compiti anche alla pianificazione di una futura missione Ue in
territorio libico.
Altro settore chiave dell’impegno italiano in Libia è quello relativo alla “cooperazione
allo sviluppo e di sminamento umanitario”. Come riporta la relazione tecnica a
cura del Ministero Affari Esteri e alla Cooperazione Internazionale allegata al
decreto di autorizzazione delle nuove missioni internazionali, fra le
priorità figura “in continuità con le attività in corso, il sostegno all’assistenza
e alla protezione della popolazione migrante e rifugiata attualmente nei centri
libici, nonché le attività volte a rafforzare le capacità delle comunità
ospitanti di garantire i servizi essenziali, soprattutto in campo sanitario (…)
Si conta anche di proseguire nella realizzazione di attività in concorso con
organismi internazionali attivi nel campo della sicurezza alimentare, della
salute e della protezione”. Attualmente Roma contribuisce finanziariamente al Fondo fiduciario del Dipartimento per gli
Affari Politici delle Nazioni Unite per “sostenerne gli sforzi per la
soluzione delle crisi in Libia, Siria e Yemen e consentire le attività di
mediazione, stabilizzazione e a sostegno di transizioni democratiche”; al Fondo ONU per il “consolidamento della pace e gli interventi
a favore di Paesi del Nord Africa e del Medio Oriente che si trovano in
situazioni di post-conflitto”; al Fondo fiduciario UNDP Immediate Assistance
to the Libyan Political Dialogue and the Government of National Accord, “per
rafforzare le istituzioni libiche, fornendo sostegno al Consiglio presidenziale
libico e al Governo di accordo nazionale”.
Ovviamente continua ad
essere il controllo del petrolio e del gas il motivo centrale del rafforzamento
della partnership politico-militare tra Italia e Libia. Il 3 novembre 2018 il capo del Consiglio del Governo libico di unità
nazionale, Fayez al-Sarraj, ha incontrato a Tripoli l’amministratore delegato
di ENI, Claudio Descalzi. “Durante i colloqui le parti hanno discusso della
situazione generale del paese, affrontando in particolare il tema della
sicurezza”, riporta il comunicato emesso dall’azienda petrolifera italiana. “L’AD
di ENI ha illustrato le iniziative intraprese nel settore della generazione di
energia elettrica, in particolare soffermandosi sulle attività di assistenza
tecnica per la manutenzione di alcune centrali nell’area di Tripoli. ENI è il
principale fornitore di gas al mercato locale, interamente destinato ad
alimentare le centrali elettriche del paese per una capacità di generazione
elettrica di oltre 3 GW. Si è inoltre fatto il punto della situazione sullo
stato dei progetti in corso di ENI in Libia. Per quanto riguarda Bahr Essalam
Fase 2, avviato a luglio, continuano le attività di collegamento dei rimanenti
sette pozzi che saranno concluse entro la fine del 2018. Per il progetto di
aumento della capacità di compressione dell’impianto di Wafa il first gas è
previsto nei prossimi giorni (…) Fatto il punto sull’andamento del negoziato
dell’Exploration and Production Sharing
Agreement, a seguito della lettera d’intenti firmata a ottobre tra ENI, NOC (National Oil Corporation) e BP, per l’assegnazione a ENI di una quota del 42,5%
e con l’obiettivo di ricominciare le attività nel primo semestre del 2019. Il
presidente di NOC e l’AD di ENI hanno infine colto l’opportunità per discutere
anche di importanti progetti futuri, in particolare lo sviluppo delle strutture
offshore A & E di cui è previsto a breve il lancio della gara per lo studio
di ingegneria. L’implementazione di tale progetto consentirà di estendere il
plateau di produzione di gas dall’offshore libico, con un notevole risparmio
per il paese relativamente all’importazione di combustibili liquidi”. La
società italiana a capitale pubblico si conferma così come il principale
produttore internazionale di idrocarburi in Libia, dove attualmente produce
280.000 barili di petrolio al giorno.
Disavventure neocoloniali sulla rotta Tunisi-Niamey
Cresce
intanto pure l’impegno militare italiano in Tunisia sempre in nome della lotta
all’immigrazione irregolare. Il rapporto tra Roma e Tunisi si è
consolidato sia in chiave bilaterale attraverso le attività della
Commissione militare mista italo-tunisina e sia grazie alla cosiddetta Iniziativa 5+5 (formato Difesa) istituita
alla fine del 2004 da dieci Paesi che si affacciano sul Mediterraneo
occidentale (Algeria, Francia, Italia, Libia, Malta, Mauritania, Marocco,
Portogallo, Spagna e Tunisia) e che vede attualmente l’Italia alla Presidenza
di turno. L’Iniziativa 5+5 ha come
obiettivo il “miglioramento della reciproca comprensione e fiducia
nell’affrontare i problemi della sicurezza nell’area di interesse, tramite la realizzazione di attività pratiche
e attraverso lo scambio di idee ed esperienze”.
Per
l’anno in corso, la Commissione bilaterale italo-tunisina ha previsto la
realizzazione di diverse operazioni militari, “con un’enfasi particolare
orientata alla sicurezza marittima in
termini di condivisione delle informazioni, della conoscenza dell’ambiente
marino e di prevenzione e di gestione degli incidenti”. In particolare l’Aeronautica
militare tunisina è stata invitata a partecipare a metà ottobre ad una vasta
esercitazione aerea multinazionale nel Mediterraneo centrale (Circaete 2018), per “promuovere un uso
coordinato dei relativi centri di comando e controllo, dei siti radar e dei
caccia intercettori”, con il coordinamento del Comando operazioni aeree di
Poggio Renatico (Ferrara).
Dai primi mesi del 2019, l’Italia prenderà parte in
Tunisia ad una nuova
missione multinazionale sotto il comando della NATO finalizzata a “costituire
un comando interforze per la contro insurrezione e la lotta al terrorismo”.
Previsto l’invio di una task force di 50-60 unità, con funzioni similari a
quelle già in atto in Libia: addestramento,
consulenza, assistenza e supporto delle forze armate e di sicurezza tunisine in particolare nelle attività di controllo
delle frontiere; sarà pure inviato un mezzo aereo e il costo annuale
dell’operazione sfiorerà i 5 milioni di euro. Attingendo dal bilancio dell’Agenzia
italiana per la cooperazione allo sviluppo, sarà finanziato pure il Fondo fiduciario della NATO per la cosiddetta
iniziativa Defense capacity building
(DCB) di “rafforzamento
delle istituzioni e degli enti di sicurezza e difesa” dei Paesi partner dell’Alleanza.
Al recente
Summit di Bruxelles (11-12 luglio 2018), i capi di Stato e di governo della NATO
hanno annunciato nuove misure di Defense Capacity
Building per “sviluppare ulteriormente le capacità di difesa tunisine”. Il
supporto della NATO, si legge nel documento finale del Summit, “includerà
difesa cibernetica, dispositivi per il contrasto agli esplosivi improvvisati e
la promozione di trasparenza nella gestione delle risorse”. Si prevedono
attività di formazione e addestramento congiunte che potrebbero essere estese
anche alle forze armate della confinante Libia.
Il
governo di Tunisi è oggi uno dei più attivi partner NATO della sponda
meridionale mediterranea. Nell’ambito del cosiddetto programma alleato di Dialogo Mediterraneo, dal 2014 il paese è entrato a far parte
del NATO Individual Partnership and
Cooperation Programme (IPCP) per
rafforzare le capacità delle proprie forze armate nella lotta al terrorismo e “migliorare le condizioni di
sicurezza ai propri confini”. Nel
luglio 2016 il Segretario Generale della NATO Jens Stoltenberg ha annunciato l’intenzione di
realizzare un Centro di Intelligence in Tunisia (Tunisian Intelligence Fusion Centre) e di avviare l’addestramento
delle forze per le operazioni speciali nazionali con un contributo finanziario
di tre milioni di dollari. Il nuovo centro d’intelligence è stato approvato dal
Governo il 30 dicembre 2016: avrà sede nella città portuale di Gabès e vedrà
operare congiuntamente personale tunisino e della NATO. Il suo primo compito
sarà quello di raccogliere ed elaborare i dati d’intelligence, ma si occuperà
anche di topografia, meteorologia, transport
data, elettronica, telecomunicazioni, minacce nucleare-batteriologica-chimica
NBC, cyber defence, contro-spionaggio, ecc.. Al centro sarà riservata anche la
raccolta e analisi delle “informazioni sensibili politiche ed economiche”
relative alle “attività d’affari e finanziarie dei maggiori attori economici
del paese”.
Sempre
in merito all’intervento militare neocoloniale e anti-immigrazione dell’Italia
nel continente africano va segnalato che il 20 settembre 2018 è definitivamente
partita la Missione bilaterale di
supporto nella Repubblica del Niger – MISIN, con area geografica di
intervento allargata anche a Mauritania, Nigeria e Benin. La missione era stata
“congelata” dalle autorità di Niamey probabilmente a seguito del
pressing del governo francese preoccupato della crescente presenza italiana in
una regione storicamente sotto l’influenza economica e politica di Parigi, ma
alla fine è stata sbloccata anche grazie alla campagna “umanitaria” avviata nella
primavera 2018 dalle forze armate italiane, concretizzatasi con la consegna
alle autorità nigerine di 12 tonnellate di materiale sanitario e farmaci.
Secondo il portavoce del Ministero della difesa
italiano, la missione in Niger “è stata varata nell’ambito di uno sforzo
congiunto europeo e statunitense per la stabilizzazione dell’area e il
rafforzamento delle capacità di controllo del territorio da parte delle
autorità nigerine e dei Paesi del G5 Sahel (Niger, Mali, Mauritania, Ciad e
Burkina Faso), lo sviluppo delle Forze di sicurezza nigerine per l’incremento
di capacità volte al contrasto del fenomeno dei traffici illegali e delle
minacce alla sicurezza; per concorrere alle attività di sorveglianza delle
frontiere e di sviluppo della componente aerea della Repubblica del Niger”. A
metà ottobre si è concluso il primo corso per “istruttori di ordine pubblico”
condotto da un Mobile Training Team
dell’Arma dei Carabinieri, a cui hanno preso parte 25 tra ufficiali e
sottufficiali nigerini che costituiranno il primo nucleo di formatori per i
reparti della Gendarmeria. “Il corso fa parte di un più ampio pacchetto
formativo che coinvolge anche le altre Forze di difesa e sicurezza del Niger
addestrate anche dai militari dell’Esercito e dell’Aeronautica militare su
attività di Security Force Assistance,
oltre allo sviluppo di moduli formativi dedicati all’apprendimento del diritto
internazionale umanitario e delle tecniche di pronto soccorso”, spiega il
ministero della Difesa italiano.
Come per Libia e Tunisia, l’interventismo militare
italiano nel paese dell’Africa sub-sahariana trova giustificazione nell’ottica
della guerra globale e contestuale al terrore e all’immigrazione “clandestina”.
Una valutazione geostrategica condivisa sia dalla maggioranza parlamentare
della scorsa legislatura che da quella odierna. “In
quell’area operano gruppi terroristici jihadisti (come Al-Quaeda nel
Maghreb arabo - AQIM e Al-Morabitun) che traggono nuovi
fondamentali canali di finanziamento, diretto e indiretto, grazie a vari tipi
di traffici, tra cui quello di migranti…”, riporta la Relazione delle
Commissioni Esteri e Difesa della Camera dei Deputati sulle missioni
internazionali per il 2018. “L’obiettivo della missione italiana in Niger sarà quello
di arginare, insieme alle forze nigerine, la tratta di esseri umani e il
traffico di migranti che attraversano il Paese, per poi dirigersi verso la
Libia e in definitiva imbarcarsi verso le nostre coste”, ha invece dichiarato
lo scorso 20 settembre la ministra pentastellata della Difesa, Elisabetta
Trenta.
Per MISIN è prevista inizialmente una
presenza in Niger di 120 militari per poi giungere a 470 entro la fine
dell’anno, più 130 mezzi terrestri e due aerei. Al momento non è stata rivelata la
composizione del contingente, anche se si tratterà principalmente di
addestratori, personale del Genio, delle trasmissioni e raccolta delle
informazioni, ecc.. Secondo il sito specializzato Difesaonline.it, sarà schierata presumibilmente anche una task
force con personale del 66° Reggimento aeromobile “Trieste” e i paracadutisti
della Brigata “Folgore”, per “intervenire con grande celerità lungo il confine
grazie all’impiego di elicotteri NH-90 e AH-129D”. Il costo annuale dell’operazione è
stimato in 30 milioni di euro circa.
Le
unità italiane opereranno inizialmente all’interno della base militare USA
realizzata alla periferia della capitale Niamey (Air Base 101); una parte di esse si trasferirà poi anche presso l’ex fortino della Legione straniera di Madama, località
settentrionale del Niger a un centinaio di chilometri dalla frontiera con la
Libia. “Costruito dai francesi nel 1931 per contrastare l’espansionismo
coloniale italiano, in una presunta ottica post-coloniale, invece, Madama
rappresenta oggi un avamposto strategico della presenza francese nel Sahel (Operazione Barkhane, che conta 4.000
uomini e basi sparse dalla Mauritania al Ciad) nella lotta al terrorismo di
stampo neo-jihadista”, scrive il giornalista Andrea de Georgio, ricercatore dell’Istituto per gli Studi di Politica
Internazionale (ISPI) di Milano. “Questa remota località, infatti, si trova al
centro delle piste sahariane attraversate da ingenti traffici illegali,
soprattutto di armi, droga ed esseri umani. Se la potenza francese è presente
nella regione nigerina di Agadez dal 2014 con obiettivi prettamente
anti-terrorismo, l’intento sbandierato dall’Italia è quello di contrastare i
flussi migratori in transito verso l’Europa. Sostanzialmente si mette in
pratica il mix di dimensione esterna
della sicurezza e repressione delle migrazioni irregolari sancito dal
Summit di Abidjan che a fine novembre ha ridefinito i rapporti fra Europa e
Africa”.
“A dispetto di una diffusa retorica fondata sulla
presunzione di un nesso fra criminalità organizzata e terrorismo, non è affatto
detto che in Niger queste due agende siano facilmente conciliabili”, scrive
Luca Ranieri, altro ricercatore dell’ISPI di Milano. “Da una parte, infatti, la
lotta alla migrazione irregolare non ha fatto economia di misure repressive
volte allo smantellamento delle infrastrutture di supporto alla migrazione
della regione di Agadez. Impropriamente definite organizzazioni di trafficanti, tali infrastrutture presentano
in realtà un’organizzazione fluida e orizzontale, più simile alla fornitura di
servizi – ancorché informali – che alla struttura gerarchica della criminalità
organizzata. Agli occhi delle popolazioni dell’inospitale settentrione
nigerino, in effetti, l’economia della migrazione costituisce non già una
minaccia, ma un’opportunità di resilienza in cui hanno trovato impiego anche
molti ex-ribelli delle insurrezioni Tuareg dei decenni passati. Non a caso, al
giro di vite nei confronti dei passeurs è seguito un incremento
considerevole della violenza armata nella regione di Agadez, cui si accompagna
un senso di frustrazione dilagante nei confronti di un governo percepito come
indifferente alle esigenze della popolazione e supino ai desiderata
dell’Occidente. Come dimostrato da numerose ricerche, tali dinamiche
costituiscono uno dei principali fattori che concorrono alla radicalizzazione
dei giovani africani verso l’estremismo jihadista”. Ricerche e analisi
ovviamente del tutto ignorate dai politici e dai vertici delle forze armate,
evidentemente più interessati a offrire in quest’area copertura e “difesa” militare
agli interessi petrolifero-energetici del capitale pubblico e privato nazionale
(ENI in testa). Con tanto di imprevedibili e pericolose conseguenze
all’orizzonte. “Al di là dei mutevoli equilibri geopolitici, il Niger pare
soggetto a una spirale di militarizzazione, sospinta sia dalla presenza
sempre più visibile – e sempre più contestata – di forze militari
straniere, sia dall’aumento vertiginoso delle spese nazionali per la
difesa, aumentate di cinque volte durante la presidenza di Mohamadou
Issoufou fino a sfiorare il 12% del budget statale”, aggiunge il
ricercatore Luca Ranieri. “D’altra parte, l’accesso alle armi e il sostegno di
potenti alleati internazionali alimentano una crescente deriva autoritaria che
consente di soffocare le aspirazioni di una popolazione stremata da crisi
umanitarie persistenti: arresti arbitrari, corruzione rampante, limitazione
della libertà di stampa e repressione del dissenso sono in rapido e inquietante
aumento”.
Ciononostante, con i 686 milioni di euro previsti dal
Fondo Europeo di Sviluppo, i 220 milioni impegnati due anni fa dalla
Commissione europea attraverso il Fondo fiduciario d’emergenza (Emergency
Trust Fund for Africa) per affrontare le cause della migrazione in Africa
ed altri finanziamenti minori per progetti di “emergenza umanitaria e riduzione
dei conflitti”, il Niger è oggi il primo beneficiario nel mondo di aiuti Ue per
spesa pro capite. Oltre 100 milioni di euro di finanziamenti giunti da
Bruxelles (e in parte anche da Roma), sono stati utilizzati dalle autorità e
dai militari nigerini per le operazioni di controllo e repressione dei flussi
migratori nella regione di Agadez. E la guerra per procura dell’Unione europea
ha già ottenuto i primi “successi”; secondo l’Organizzazione Internazionale per
le Migrazioni, nel 2016 erano stati censiti in Niger 290mila migranti diretti verso
la Libia, mentre nei primi cinque mesi del 2018 essi sono stati appena 24mila.
Una drastica riduzione che rende perlomeno inutile (o meglio, sospetta) la
missione tricolore in terra nigerina.
Dall’Atlantico
al Corno d’Africa, vecchie e nuove operazioni d’oltremare
Tra le missioni in Africa che vedono operare per la
prima volta da quest’anno personale italiano, compaiono quella promossa dall’Unione europea nella Repubblica Centrafricana (European
Union Training Mission nella
Repubblica Centrafricana - EUTM RCA) per
“garantire un’adeguata formazione alle forze armate del paese” (tre militari impegnati
per una spesa nei primi nove mesi del 2018 di 324mila euro) e quella delle
Nazioni Unite per la “stabilizzazione del Sahara occidentale” occupato
illegalmente dal Marocco nel 1976 (MINURSO
- United Nation Mission for the Referendum in Western Sahara). Quest’ultima
missione è stata varata con la risoluzione ONU del 1991 in conformità di una
proposta di accordo accettata dal Marocco e dal Frente Polisario in vista di un
referendum in cui il popolo sahrawi avrebbe scelto tra indipendenza e
integrazione con Rabat, referendum che però non si è mai svolto per dirette responsabilità
politiche e militari marocchine. Ignoto il motivo per cui proprio adesso
l’Italia ha deciso di partecipare alla missione internazionale con due addetti
militari e una spesa di oltre 302mila euro in nove mesi.
Sempre in
Africa occidentale vanno segnalate pure le tre missioni delle forze armate italiane
in Mali. La prima (United Nations
Multidimensional Integrated Stabilization Mission in Mali - MINUSMA) ha
preso il via nel 2013 a seguito delle Risoluzioni n. 2100 e 2164 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU
per sostenere il processo politico di transizione e aiutare la stabilizzazione
del Mali; garantire la sicurezza, la stabilizzazione e la protezione dei
civili; addestrare le forze di sicurezza maliane, ecc.. MINUSMA vede lo schieramento di oltre 13.000 militari di 57 Paesi;
l’attuale contributo nazionale prevede, dal 1° gennaio al 30
settembre 2018, un impiego massimo di sette militari nel Quartier Generale
militare dell’operazione a Bamako.
L’Italia
partecipa poi a European
Union Training Mission Mali (EUTM Mali), la missione di assistenza, addestramento, formazione e
supporto logistico alle forze armate del Mali “al fine di concorrere al
ripristino delle capacità militari necessarie alla riacquisizione
dell’integrità territoriale del Paese”, varata il 17 gennaio 2013 dai Ministri
degli Affari Esteri dell’Unione Europea. Sotto il comando di un generale
francese (Parigi schiera autonomamente in Mali oltre 2.000 militari con l’Operazione Serval), EUTM conta su 500 militari europei, 12 dei quali italiani. Nel
gennaio 2015, il Consiglio Europeo ha avviato pure EUCAP Sahel Mali per “contribuire alla stabilità e alle riforme
istituzionali del Mali” e “fornire consiglio strategico e addestramento alla
Polizia, alla Gendarmerie e alla Guardia Nazionale”. Anche in
questo caso il contributo italiano è pressoché simbolico: quattro militari per una spesa nei primi nove mesi dell’anno
di 460mila euro circa.
Da
segnalare infine pure gli interventi realizzati con fondi del Ministero degli
Affari Esteri e della Cooperazione internazionale (MAECI) a “sostegno dei
processi di pace, stabilizzazione e rafforzamento della sicurezza” nell’Africa
sub-sahariana. “Nel Sahel
si continuerà a supportare le missioni di peacekeeping e di
contrasto al terrorismo quali MINUSMA
in Mali, come pure la Forza G5 Sahel, la Multinational
Joint Task Force per la lotta a Boko Haram nella regione del lago Ciad,
nonché le principali strutture di coordinamento regionale anche in materia di
sicurezza quali il Segretariato del G5 Sahel”, riporta la Relazione tecnica del MAECI sul bilancio di
previsione per il 2018. La Forza
congiunta dei Paesi del G5 Sahel - con militari e agenti di polizia di Mali,
Burkina Faso, Niger, Ciad e Mauritania – è stata istituita di recente per
“mettere in sicurezza le frontiere, soprattutto alla luce dell’impatto della
crisi libica, e lottare contro terrorismo, traffico di esseri umani, e
criminalità organizzata”, grazie a un contributo finanziario straordinario di
50 milioni di euro e all’organizzazione di attività di formazione e consulenza
da parte dell’Unione europea.
La Cooperazione Italiana ha
individuato in Senegal, Burkina Faso e Niger i Paesi prioritari del proprio intervento, anche se alcuni progetti
sono destinati pure a Guinea, Mali, Nigeria, Camerun e Ciad. “Le iniziative si
concentrano prevalentemente nei settori della sicurezza alimentare,
dell’educazione, della sanità, del sostegno alle fasce più vulnerabili della
popolazione, della lotta ai cambiamenti climatici e del rafforzamento del
settore privato locale”, spiega la Farnesina. “Una tematica trasversale è la
lotta alle cause profonde delle migrazioni irregolari, che viene affrontata
mediante interventi volti a creare maggiori opportunità economiche e di impiego
nei Paesi di origine e transito dei migranti. In tema migratorio, la
Cooperazione Italiana interviene nel Sahel anche con un’iniziativa di emergenza
regionale che coinvolge Senegal, Mali, Guinea Conakry, Guinea Bissau e Gambia…”.
Particolarmente
rilevanti per il numero del personale impiegato ed i relativi costi le missioni
delle forze armate italiane in Corno d’Africa. Con la possibilità di impiegare
contestualmente sino a 407 militari, due mezzi navali e due aerei per
una spesa di poco meno di 23 milioni e mezzo di euro nei primi nove mesi del
2018, l’operazione
“antipirateria” EUNAVFOR Atalanta è
certamente la più grande. Decisa dal Consiglio Europeo nel 2008, essa è la
“prima operazione militare a carattere marittimo a guida europea con
l’obiettivo di prevenire e reprimere gli atti di pirateria nell’area del
Corno d’Africa (Mar Rosso, Golfo di Aden e bacino somalo) che continuano a
rappresentare una minaccia per la libertà di navigazione del traffico
mercantile e in particolare per il trasporto degli aiuti umanitari del World
Food Program”, riporta il Ministero della difesa. Tra i compiti di EUNAVFOR Atalanta rientrano anche le
attività di addestramento a favore delle forze armate e di polizia di buona
parte dell’Africa orientale nel “contrasto alle attività illecite”. I gruppi
navali attivati dall’Unione europea possono operare inoltre nel pattugliamento e nella sorveglianza aero-marittima dell’area
d’intervento accanto a quelle attivate “su chiamata” dall’Alleanza Atlantica (Operazione Ocean Shield), sotto il
comando e controllo NATO/UE. L’Italia, oltre a fornire una
fregata multi missione FREMM, contribuisce ad EUNAVFOR Atalanta con il contingente interforze che
opera a Gibuti, composto da 90 militari e 17 mezzi terrestri.
Sempre in Corno d’Africa è operativa la missione EUTM Somalia,
avviata dall’Unione europea nell’aprile 2010 per “contribuire, in cooperazione
con altri partner internazionali, allo sviluppo delle istituzioni preposte al
settore della sicurezza in Somalia”. Nei primi due anni di vita la missione si era
articolata in attività di addestramento delle unità somale destinate al
controllo di Mogadiscio presso il Bihanga
Training Camp in Uganda. A partire del maggio 2013, EUTM Somalia ha schierato pure un team di assistenza e formazione
presso l’aeroporto internazionale di Mogadiscio. Dal 16
febbraio 2014 il comando della missione europea è affidato ad un generale italiano;
il nostro paese impiega annualmente sino
a un massimo di 123 militari e 20 mezzi terrestri, per un costo mensile che
sfiora il milione di euro.
Altra missione è EUCAP -
European Union Capacity Building Mission in Somalia (fino
al febbraio 2017 denominata EUCAP Nestor),
avviata dall’Ue nel dicembre 2011 come
“operazione civile” anche se vede la partecipazione di personale militare in
qualità di advisor per “rafforzare la
capacità degli Stati della regione del Corno d’Africa e dell’Oceano Indiano occidentale nella gestione
delle rispettive acque territoriali, nell’applicazione
del diritto marittimo, nel contrastare i traffici e combattere la pirateria, ecc.”.
L’attuale contributo nazionale è di tre militari.
In seguito all’accordo sottoscritto
una decina di anni fa tra le autorità italiane e quelle della Repubblica di
Gibuti e della Somalia è stata attivata la Missione
bilaterale di addestramento delle forze di polizia somale e gibutiane - MIADIT
Somalia; essa è affidata ad un team di militari specializzati dell’Arma dei
Carabinieri di stanza a Gibuti, con l’obiettivo di “creare le condizioni per la
stabilizzazione della Somalia e
dell’intera Regione del Corno d’Africa, mediante l’accrescimento delle capacità
operative delle forze di polizia somale e l’addestramento delle forze di polizia
gibutiane”. I cicli formativi prevedono lezioni di antiterrorismo, tecniche
investigative, intelligence, controllo dell’ordine pubblico con istruttori del Gruppo
Intervento Speciale dell’Arma (GIS) e dal 1° Reggimento Paracadutisti
“Tuscania”. Secondo Il Comando generale dei Carabinieri, sino ad oggi sono stati
addestrati 1.500 poliziotti somali e 850 gibutiani; il contributo nazionale prevede un impiego massimo di 53 militari e la
fornitura di quattro mezzi.
Oltre ad
essere attiva in prima persona in Corno d’Africa, l’Arma dei Carabinieri opera
nella “formazione” delle forze armate e di sicurezza di numerosissimi paesi
africani grazie all’hub addestrativo/dottrinale di eccellenza in tema di polizia di stabilità realizzato all’interno della caserma “Chinotto” di Vicenza e cogestito
attraverso tre diversi organismi strategici internazionali: CoESPU (Centre of Excellence for
Stability Police Units); NATO SP COE (Stability
Policing Centre of Excellence); la Forza di Gendarmeria Europea (Eurogendfor). Il
CoESPU è stato istituito nel 2005 in occasione del Vertice G8 di Sea Island
(USA) e vede i Carabinieri operare congiuntamente con l’esercito statunitense
di stanza a Vicenza per incrementare le capacità delle forza di polizia, “soprattutto
del continente africano” nel contrasto delle “minacce derivanti dalla
criminalità, dai perturbamenti all’ordine pubblico e dal terrorismo”. Il Centro di
Eccellenza NATO per le Polizie di Stabilità (NATO Stability Policing Centre of Excellence) è stato istituito recentemente
e posto alle dipendenze funzionali del NATO Allied Command for Transformation
(ACT) di Norfolk, Virginia, con lo scopo di “fornire all’Alleanza Atlantica uno
strumento di pensiero e di formazione in tema di polizia di stabilità e
accrescere il contributo militare della NATO alla ricostruzione in scenari post
bellici”. Al Centro di Vicenza sono attualmente distaccati militari di Italia,
Francia, Spagna, Paesi Bassi, Romania, Turchia, Repubblica Ceca e Polonia.
Nell’hub della “Chinotto” trova anche collocazione il quartier
generale di Eurogendfor, struttura di comando e di pianificazione con “naturale
vocazione” verso l’Unione Europea, ma attiva anche nei confronti di altre organizzazioni
internazionali (ONU, NATO, OSCE, ecc.). “La Forza di Gendarmeria Europea è
un’organizzazione multinazionale di Forze di Polizia a statuto militare, nata
da un’iniziale intesa tra i cinque Paesi Membri dell’Unione Europea in possesso
di tali capacità di gendarmeria: Francia, Italia, Paesi Bassi, Portogallo e
Spagna, ai quali si è aggiunta la Romania nel 2008 e la Polonia nel 2012 e
costituita, per Trattato, con lo scopo di rafforzare le capacità di gestione
delle crisi internazionali e contribuire alla Politica di Difesa e Sicurezza
Comune”, riporta il sito ufficiale di Eurogendfor. “Una delle
caratteristiche principali è la flessibilità dei suoi assetti, dedicati allo
svolgimento di attività di polizia di stabilità, sia di tipo esecutivo che di
rafforzamento, e che possono essere posti sia sotto catena di comando militare,
in caso di conflitto ad alta intensità, che sotto catena di comando civile e
sono in grado di agire autonomamente o unitamente ad altre forze”.
In prima linea in Corno
d’Africa anche l’Agenzia della Cooperazione Internazionale allo Sviluppo. “Si
intende continuare a rafforzare le strutture di sicurezza della Somalia e in
particolare la polizia, per contribuire alla stabilizzazione del nuovo Stato
federale”, riporta la Relazione finanziaria di fine 2017 del Ministero Affari
Esteri e della Cooperazione. “Una forza di polizia ben strutturata ed
equipaggiata è infatti determinante per rispondere alle minacce asimmetriche a
cui la Somalia deve far fronte. Pur nel quadro di una exit strategy di AMISOM, la Missione dell’Unione Africana
in Somalia, si confermerà il contributo italiano allo sforzo delle Nazioni
Unite a favore delle Forze Armate somale”.
Nel Mediterraneo le flotte UE e NATO fanno la guerra ai
migranti
Per
quella che ormai può essere definita a ragione la guerra globale dell’Unione europea (e relativi partner) alle
migrazioni e ai migranti, è operativa nel Mediterraneo centrale dal giugno 2015
EUNAVFOR MED, la flotta aeronavale
varata dal Consiglio Europeo come misura chiave per “individuare, fermare e mettere fuori uso imbarcazioni e mezzi
usati o sospettati di essere usati dai trafficanti di esseri umani nel pieno
rispetto del diritto internazionale”, così come si legge nel sito ufficiale del
Ministero della difesa italiano. In una prima fase l’intervento
militare Ue era stato orientato alla raccolta di informazioni di intelligence e
alla “caccia attiva ai trafficanti di essere umani, prima in acque
internazionali, poi nelle acque territoriali e interne della
Libia, previo mandato delle Nazioni Unite e approvazione del paese interessato”. Il 20 giugno 2016 il Consiglio Europeo ha
rinforzato il mandato di EUNAVFOR MED:
alla soprannominata Operazione Sophia
sono stati aggiunti altri importanti compiti: l’addestramento della Guardia
costiera e della Marina militare libica; lo scambio di informazioni e
intelligence con il governo di Tripoli; il “contributo all’embargo marittimo
delle armi dirette alla Libia” in accordo alla risoluzione delle Nazioni
Unite 2292 del 2016. Oggi sono 26 i Paesi dell’Unione europea che
contribuiscono alla missione, il cui mandato scade formalmente alla fine
dell’anno ma che prevedibilmente sarà prorogata almeno sino al dicembre 2019.
L’Italia fornisce il contributo maggiore alla missione con 470 militari,
un mezzo navale e due mezzi aerei; il quartier generale di EUNAVFOR MED – Sophia è situato all’interno dell’aeroporto
militare di Roma Centocelle, mentre dal 1° febbraio 2018 l’unità da trasporto
anfibio “San Giusto” ha
assunto il compito di nave-comando. A consolidare il ruolo chiave del nostro
paese nelle attività aeronavali UE anche l’utilizzo dello scalo di Sigonella
come Forward Operating Base (Base
Operativa Avanzata) di EUNAVFOR MED. Dalla grande
stazione aeronavale siciliana (già a disposizione delle forze armate USA e
NATO) operano gli assetti stranieri impiegati dall’Operazione Sophia e provenienti da Danimarca, Francia, Gran
Bretagna, Grecia, Islanda, Lussemburgo, Paesi Bassi, Polonia, Portogallo,
Spagna e Svezia. Al personale del 41° Stormo dell’Aeronautica italiana sono
assegnate le funzioni di “supporto di tutte le operazioni a terra di
accoglienza e ricovero degli equipaggi, dal rifornimento di carburante, al
servizio meteorologico, al controllo del traffico aereo, alla sicurezza delle
infrastrutture”. Dal settembre 2013 tra gli assetti internazionali operativi a
Sigonella ci sono pure i contingenti aerei di Frontex/Triton, con lo scopo di
coordinare il pattugliamento delle frontiere degli Stati membri e “favorire gli
accordi per la gestione dei migranti”. Sempre per monitorare le acque del
Mediterraneo e individuare le imbarcazioni in rotta verso le coste dell’Italia
meridionale, a partire del marzo 2014 l’Aeronautica Militare ha rischiarato a
Sigonella alcuni velivoli a pilotaggio remoto “Predator” provenienti dalla base
aerea di Amendola (Foggia); per gestire le operazioni dei droni, il 10 luglio
2017 è stato attivato nella base siciliana il 61° Gruppo Volo AMI. Questi
velivoli si interfacceranno con l’AGS (Alliance
Ground Surveillance), il sistema di sorveglianza terrestre in via di
implementazione da parte della NATO, basato sui droni-spia “Global Hawk” di
ultima generazione. Nella stazione di Sigonella saranno dislocati il comando e
cinque droni AGS, più le componenti dell’Alleanza che si dedicheranno alla
manutenzione dei velivoli, all’analisi e diffusione dei dati raccolti e
all’addestramento del personale operativo.
I
mezzi impiegati nell’operazione EUNAVOR
MED/Sophia si coordinano con le attività delle unità NATO schierate nel
Mediterraneo. Per “assicurare maggiori sinergie e sfruttare le peculiarità di
ciascuna organizzazione”, è stata avviata una partnership con la NATO Sea
Guardian, l’operazione
varata al summit dell’Alleanza Atlantica di Varsavia del
luglio 2016 e operativa dal novembre dello stesso anno grazie ad un cospicuo
numero di uomini, unità navali, aerei e sottomarini forniti da dieci paesi
alleati. “Noi intendiamo lavorare a stretto contatto con
l’Operazione Sophia nel Mediterraneo centrale, sulla base di una rapida
ed effettiva cooperazione con l’Unione europea per interrompere le rotte del
traffico internazionale di esseri umani”, ha dichiarato il Segretario Generale
della NATO, Jens Stoltenberg. “Sea Guardian è
un’operazione altamente flessibile con un ampio spettro di compiti: dalla
sorveglianza degli spazi marittimi di interesse, al contrasto al terrorismo
marittimo, alla formazione a favore delle forze di sicurezza dei paesi rivieraschi.
Oltre a queste attività, le forze navali possono effettuare attività
di interdizione, tutela della libertà di navigazione, protezione delle
infrastrutture marittime sensibili e contrasto alla proliferazione delle armi
di distruzione di massa”.
Utile
per comprendere le ragioni geostrategiche e le finalità della nuova missione
NATO anche il report predisposto dal Ministero degli Affari Esteri italiano
alla vigilia del Meeting Mediterraneo
tenutosi a Roma nel luglio 2017. “L’operazione di sicurezza
marittima Sea Guardian,
che attualmente svolge principalmente compiti di situational awareness marittimo – con attività potenziali di counter-terrorism
e capacity building, è
un’altra testimonianza del ruolo della NATO nel Mediterraneo”, scrive la
Farnesina. “Dal punto di vista italiano, l’operazione – a cui partecipiamo con due unità navali che si
avvicenderanno nel corso dell’anno e che saranno
coadiuvate da due unità aeree, con un impiego complessivo di 75 unità in media di personale militare – è
particolarmente significativa in quanto banco di prova
della collaborazione tra NATO e Unione Europea. Sea Guardian si svolge infatti
in sinergia con la Missione europea EUNAVFORMED
Sophia; l’interazione tra
queste due missioni – cui si accompagna il coordinamento tra Frontex e le Standing Naval Forces della NATO nell’Egeo – è un modello che siamo interessati a
sviluppare per collocare il Mediterraneo al centro della collaborazione NATO-UE”. Proprio le
attività dello Standing NATO Maritime Group 2 (il gruppo navale NATO attivato nel febbraio 2016 nel mar Egeo per
assistere l’agenzia europea anti-migranti Frontex e le autorità turche e greche
nella gestione dell’emergenza migranti) hanno fatto da modello sperimentale per
la successiva operazione Sea Guardian
che ha così integrato le attività di sorveglianza, monitoraggio e intelligence “contro le reti di
trafficanti” con quelle di contrasto al
terrorismo e cooperazione alla
sicurezza marittima che avevano giustificato nel 2001 il varo dell’allora missione
navale NATO Active Endehavour.
Per
conseguire un ruolo sempre più flessibile in campo politico-militare e
strategico in quello che è ormai definito il Mediterraneo allargato (dal mar Mediterraneo vero e proprio
all’Europa orientale e a buona parte del continente africano e del Medio
oriente), il 15 febbraio 2017 i ministri della Difesa dell’Alleanza
hanno deciso di costituire presso l’Allied
Joint Force Command - JFC Naples l’Hub
NATO per il Sud. “Il centro operativo dal dicembre 2017
all’interno della base di Lago Patria-Napoli ha come obiettivo principale
quello di comprendere e coordinare le risposte alle sfide strategiche che
l’Alleanza deve affrontare sul fronte sud”, ha spiegato il segretario generale
NATO, Jens Stoltenberg. “L’Hub per il Sud
non coordinerà grandi operazioni militari, ma si occuperà di raccogliere
informazioni, migliorare la comprensione della situazione e coordinare le
attività nell’area”. In pratica, un pool di un centinaio di analisti
internazionali avrà il compito di studiare le minacce enfatizzate dalla nuova pianificazione
avanzata dell’Alleanza per il fronte meridionale, quali “il terrorismo, la
destabilizzazione, la radicalizzazione, le migrazioni, l’inquinamento
ambientale e i disastri naturali”, agendo contemporaneamente “come centro di
coordinamento per la collaborazione tra i comandi NATO e le organizzazioni
governative e non governative internazionali che si occupano di sicurezza”.
Come
convertire gli aiuti allo sviluppo in azioni militari e sicuritarie anti-migranti
Per dare maggiore
concretezza e continuità all’impegno italiano nella collaborazione con i Paesi
di origine e transito dei flussi migratori, è stato istituito, con Decreto
ministeriale, il Fondo per l’Africa. “Si
tratta di un fondo straordinario che serve per finanziare iniziative di:
supporto tecnico; formazione; assistenza nella lotta contro il traffico di
esseri umani; sviluppo delle comunità locali; informazione sui diritti umani e
sui rischi di affidarsi ai passeurs; protezione a favore di rifugiati e
di altre categorie vulnerabili di migranti, specialmente minori”, spiega la
Farnesina. Grazie al Fondo per l’Africa,
sono stati finanziati numerosi interventi in diversi Paesi africani di transito
e di origine dei flussi, “privilegiando il sostegno alle organizzazioni
internazionali competenti in materia migratoria (in particolare OIM e UNHCR)”. Nella
lista dei Paesi destinatari degli interventi della cooperazione italiana
compaiono Senegal. Gambia, Guinea-Bissau,
Guinea, Mali, Niger, Ciad, Libia, Tunisia, Sudan, Etiopia. Con quasi tutti questi paesi (più la Nigeria), la
Commissione europea ha avviato un processo per negoziare specifici accordi (compact)
a sostegno dei loro sforzi nella “gestione congiunta del fenomeno migratorio e
nella riduzione delle sue cause profonde”. In occasione del vertice UE-Africa
sulle migrazioni tenutosi nel novembre 2015 a Malta, l’Unione europea ha
lanciato il Fondo Fiduciario di emergenza
per l’Africa, dotandolo di 1,8 miliardi di euro; l’Italia ne è il primo
contributore nazionale con 104 milioni di euro. Superfluo aggiungere che la
maggior parte di questi contribuiti Ue-Italia è destinata proprio ai paesi
dell’Africa sub-sahariana disponibili agli accordi in materia di contenimento
dei flussi migratori.
Tra le missioni internazionali
autorizzate e finanziate per il 2018 compare pure un capitolo relativo ad una serie d’interventi di “cooperazione allo
sviluppo e di sminamento umanitario” in diversi paesi dell’Asia (Afghanistan,
Libano, Myanmar, Pakistan, Palestina, Siria e Yemen), dell’Africa (Burundi,
Etiopia, Repubblica centrafricana, Libia, Mali, Niger, Somalia, Sudan, Sud
Sudan) e “nei Paesi ad essi limitrofi (in particolare Libano e Giordania,
interessati dai flussi di profughi provenienti dalla Siria) nonché, più in generale,
nei Paesi destinatari d’iniziative internazionali ed europee in materia di
migrazione e sviluppo”. In tali
ambiti, il governo italiano intende promuovere interventi di “miglioramento
delle condizioni di vita della popolazione e dei rifugiati e a sostegno alla
ricostruzione civile in Paesi in situazione di conflitto”; iniziative europee e
internazionali in materia di migrazioni e sviluppo; programmi
integrati di sminamento umanitario,
che prevedono campagne informative, l’assistenza alle vittime e la formazione
di operatori; “opere di protezione e acquisizione di equipaggiamenti, anche al
fine di accrescere l’attività di cooperazione con le forze di sicurezza locali”.
Per tali esigenze è stata autorizzata una spesa di 65 milioni di euro nel solo periodo gennaio-settembre 2018.
Il Parlamento ha autorizzato
pure un capitolo di spesa relativo agli interventi di
sostegno ai processi di pace, stabilizzazione rafforzamento della sicurezza
in Nord Africa e Medio
Oriente (in particolare Libia, Tunisia, Giordania e Libano), Afghanistan, Africa sub-sahariana (Somalia e
altri Paesi del Corno d’Africa, Mali e regione del Sahel), ecc.. “Gli obiettivi di tali interventi –
spiega il Governo - sono la facilitazione del percorso di riconciliazione
nazionale e sostegno alla transizione
democratica in Libia, tramite attività di institution
building a beneficio delle municipalità elette nel 2015, e promuovendo
la partecipazione delle donne alla ricostruzione del Paese (…); la salvaguardia
e valorizzazione del patrimonio
archeologico in Afghanistan, Iraq, Libia e Tunisia, finanziando missioni
promosse da università e centri di ricerca italiani; il sostegno alle iniziative di pace dell’ONU
(la missione MINUSMA in Mali), alle
attività dell’IGAD – l’Autorità intergovernativa per lo sviluppo del Corno
d’Africa; nonché il rafforzamento delle istituzioni democratiche e dello Stato
di diritto in Africa sub-sahariana (Corno d’Africa e Sahel), tramite programmi
di capacity-building nel settore della sicurezza”. Altro settore
dove si mescolano finte finalità di “cooperazione pacifista” e autentiche
operazioni militari in ambito internazionale e NATO è quello relativo alla partecipazione
ad “interventi delle organizzazioni internazionali per la pace e la sicurezza
in Nord Africa e Medio Oriente ed
in altre aree di crisi in cui l’ONU svolge
attività di prevenzione dei conflitti e sostegno ai processi di pace,
stabilizzazione e transizione democratica; Paesi destinatari di programmi della
NATO di rafforzamento delle istituzioni e degli enti di sicurezza e difesa;
Paesi in cui si svolgono le missioni civili dell’OSCE; Paesi della sponda sud
del Mediterraneo partner dell’OSCE e membri dell’Unione per il
Mediterraneo; Paesi in cui si svolgono le Missioni civili dell’UE (…) Gli
obiettivi di tali interventi sono: il
sostegno, con contributi finanziari, alle attività del Dipartimento degli
affari politici dell’ONU, le iniziative delle Nazioni Unite per il
consolidamento della pace e dell’UNDP a favore della Libia; l’iniziativa Defence
Capacity Building della NATO”.
Research prodotta
per il Corso di formazione per docenti Migranti
e migrazioni. Decodificare il presente per educare alla cittadinanza, promosso
dal CESP, il Centro Studi per la Scuola Pubblica
– Pescara, 8 novembre 2018.
Personale militare nazionale impegnato
nelle diverse aree geografiche e relative autorizzazioni di spesa relativamente
ai primi nove mesi del 2018
MISSIONI
INTERNAZIONALI IN CORSO DI SVOLGIMENTO IN AFRICA
Delibera del
consiglio dei ministri 28 dicembre 2018
SCHEDA
|
MISSIONI INTERNAZIONALI
IN AFRICA
|
PREVISIONE DI SPESA
|
MILITARI IN TEATRO
|
|
Missioni
internazionali già in corso prorogate x 2018
|
Nuove
missioni autorizzate x 2018
|
|
|
|
9
|
|
NATO
Sea Guardian nel Mar Mediterraneo
|
12.513.518
|
Da 75 a 287
|
10
|
|
EUNAVFORMED
operazione SOPHIA
|
30.765.657
|
Da 470 a 495
|
23
|
|
United Nations Support Mission in
Libya (UNSMIL)
|
334.325
|
3
|
24
|
|
Missione
di assistenza alla Guardia costiera della Marina militare libica
|
1.605.544
Proroga annuale
|
35
|
25
|
|
UE
antipirateria Atalanta
|
23.227.121
|
Da 155 a 407
|
26
|
|
European
Union Trainin~ Mission Somalia (EUTM Somalia)
|
8.020.649
|
123
|
27
|
|
EUCAP
Somalia (ex EUCAP Nestor)
|
304.868
|
3
|
28
|
|
Missione
bilaterale di addestramento delle forze di polizia somale e gibutiane
|
1.687.884
|
Da 26 a 53
|
29
|
|
Personale
impiegato presso la base militare nazionale nella Repubblica di Gibuti per le
esigenze connesse con le missioni internazionali nell’area del Corno d’Africa
e zone limitrofe
|
7.148.324
|
90
|
30
|
|
United
Nations Multidimensional Integrated Stabilization Mission in Mali (MINUSMA)
|
618.545
|
7
|
31
|
|
European Union Training Mission
Mali (EUTM Mali)
|
934.741
|
12
|
32
|
|
EUCAP
Sahel Mali
|
461.397
|
4
|
33
|
|
EUCAP
Sahel Niger
|
244.035
|
2
|
34
|
|
Multinational Force and Observers
in Egitto (MFO)
|
3.195.456
|
75
|
35
|
|
European
Union Border Assistance Mission in Libya (EUBAM LIBYA)
|
269.050
Proroga annuale
|
3
|
|
1
|
Missione
bilaterale di assistenza e supporto in Libia
|
34.982.433
|
375
|
|
2
|
Missione
bilaterale di supporto nella Repubblica del Niger
|
30.050.995
|
256
|
|
3
|
Missione
NATO di supporto in Tunisia
|
4.916.521
|
60
|
|
4
|
United Nations Mission for the
Referendum in Western Sahara (MINURSO)
|
302.839
|
2
|
|
5
|
European
· Union Training Mission nella Repubblica Centrafricana (EUTM RCA)
|
324.260
|
3
|
36
|
|
Potenziamento
dispositivo aeronavale nazionale nel Mar Mediterraneo, denominato "Mare
sicuro"
|
63.442.734
|
Da 650 a 754
|
39
|
|
Potenziamento
dispositivo NATO per la sorveglianza navale dell'area sud dell'Alleanza
|
1.817.839
|
Da 13 a 44
|
|
|
|
|
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