Le guerre per procura contro i migranti e le migrazioni di Roma, UE e NATO
Quasi
simile a un trapezio scaleno con un’area immensa: il vertice superiore sinistro
quasi a sfiorare l’arcipelago tunisino di Kerkenna; quello destro, la grande
isola di Creta. Si tratta della neonata Regione Marittima Lybia SAR, l’area di competenza delle assai poco riconosciute e
credibili autorità politiche e militari libiche per gli interventi di ricerca,
soccorso e salvataggio dei naufraghi e di tutte le persone in situazioni di
pericolo in mare. Un immenso buco nero del Mediterraneo dove oggi possono
affogare in tantissimi perché mancano gli strumenti e i mezzi per intervenire efficacemente
e in tempi rapidi o perché con infame cinismo l’Europa ha scelto di non vedere,
non sentire e non parlare, affidando all’inaffidabile partner africano la
sporca guerra ai migranti e alle migrazioni. Una grande fossa comune sommersa
dove seppellire sotto le acque o rendere del tutto invisibili migliaia di
sorelle e fratelli in fuga dai crimini della globalizzazione (guerre, genocidi,
catastrofi ambientali, fame, ecc.).
L’inferno SAR di Tripoli su mandato del governo
italiano
Dallo
scorso mese di luglio, le “autorità” libiche, col supporto dell’Unione Europea,
hanno ufficialmente preso possesso di una grande area di mare antistante le
proprie coste per le operazioni di ricerca e salvataggio SAR (Search and Rescue). In quest’area è oggi
Tripoli a coordinare le risposte di pronto intervento alle richieste di
soccorso, oltre a assicurare il personale e i mezzi perché i migranti possano
raggiungere un “porto sicuro” (nei fatti, però, si tratta di una vera e propria
deportazione manu militari dei
richiedenti asilo verso le città costiere e i lager-hotspot sparsi in tutto il
paese nordafricano).
La Libya Maritime SAR Region non è altro
che un’immensa riserva di caccia delle imbarcazioni dirette verso il sud Italia
o la Grecia con a bordo coloro che cercano protezione umanitaria e asilo nella
sempre meno democratica ed accogliente Unione europea. Le attività di
identificazione e istituzione della zona SAR sotto controllo libico erano state
affidate nel 2016 dalla Commissione europea alla Guardia Costiera italiana. Già
nel giugno 2018 in Italia era però trapelata la notizia che il Centro Nazionale
di Coordinamento del Soccorso Marittimo della Guardia Costiera di Roma (IMRCC)
avesse “delegato” alle autorità marittime libiche lo svolgimento delle funzioni
competenti nella zona SAR nazionale, con l’avviso che “i comandanti di nave che si trovano in mare
nella zona antistante la Libia, dovranno rivolgersi al Centro di Tripoli
ed alla Guardia costiera libica per richiedere soccorso”. Sino ad
allora, il controllo sulla sua zona SAR era stato esercitato in forma assai limitata
dalle unità fedeli al governo libico, con il coordinamento e il supporto
tecnico della Marina Militare italiana.
A fine
agosto, la ministra della difesa pentastellata Elisabetta Trenta, nel corso di
un’audizione in Commissione parlamentare, ha fornito i primi dati sulle
operazioni SAR condotte autonomamente
dai libici. “Esse hanno consentito nell’ultimo anno il recupero di circa 9.000
migranti in oltre 70 interventi”, ha dichiarato la ministra. Dati che nonostante
l’enfasi del governo appaiono assai poco significativi, considerato il gran
numero di rifugiati che attendono di lasciare la Libia per l’Europa e che
presumibilmente hanno già tentato in qualche modo di attraversare il
Mediterraneo (secondo l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni - OIM
sono 662.000 i migranti presenti nel paese nordafricano, mentre 152.000 sono i richiedenti asilo registrati come tali
dall’Agenzia dei Rifugiati delle Nazioni Unite – UNHCR). I 9.000 migranti che Elisabetta Trenta dice essere stati soccorsi dai
libici sono comunque ben al disotto del numero delle persone soccorse nelle
stesse acque dalle tanto vituperate organizzazioni non governative (ONG). Il
tutto collide poi con quanto denunciato a fine 2017 da Amnesty International;
l’organizzazione internazionale per la difesa dei diritti umani ha stimato infatti
in circa 200.000 i migranti intercettati in mare
dalla Guardia costiera libica e successivamente “trasferiti” nei famigerati
centri di detenzione del paese.
Difficile pensare che non siano gli stessi campi detentivi la destinazione
finale delle persone che nella
neo-costituita area SAR sono oggi “soccorse” dalle unità libiche, quelle che,
va ricordato, sono state fornite, equipaggiate, addestrate ed armate dai
militari e dalle forze di polizia italiani. Nei campi di “prima accoglienza”
gestiti dalle agenzie dell’Onu in Tripolitania sono già giunti dal gennaio 2018
oltre 13.000 “migranti illegali”, mentre solo nell’ultimo anno dall’aeroporto di
Tripoli sono state rimpatriate oltre 30.000 persone in fuga dall’Africa sub-sahariana.
In Libia, il locale Dipartimento per il controllo dell’immigrazione illegale gestisce
direttamente una ventina di centri d’accoglienza,
mentre non è noto il numero dei centri non ufficiali gestiti da soggetti
privati, organizzazioni criminali o dalle stesse milizie che si contendono il
territorio. Comunque tutte strutture infernali dove omicidi, stupri, torture e
violazioni dei più elementari diritti umani sono all’ordine del giorno, come testimoniano
tragicamente i report delle maggiori organizzazioni governative e delle ONG. Anche
ai programmi di lagerizzazione e
detenzione dei migranti giunti in Libia non fanno mancare il loro sostegno le
autorità italiane. Qualche settimana fa il ministro plenipotenziario Matteo Salvini
ha riferito alle Camere che “grazie alla decisiva attività svolta dal Governo
italiano” è stato realizzato a Tripoli un centro destinato ad ospitare entro la
fine dell’anno sino ad un migliaio di persone. La struttura, bontà italica, stando
a Salvini sarebbe “dotata di cliniche, centri sportivi e assistenza
psicologica”. Sono pure al via alcuni costosi progetti di (mala)cooperazione e
(mala)accoglienza migranti in Libia: il 15 luglio 2018, ad esempio, è stato firmato
a Bruxelles un accordo tra l’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo
(Aics) del Ministero Affari Esteri e la Commissione europea che prevede lo
stanziamento di 50 milioni di euro circa a favore di 24 municipalità libiche
per l’assistenza ai migranti ivi ospitati e per “rispondere ai bisogni
primari della popolazione civile, come sanità, educazione, acqua, energia e
piccole infrastrutture”. Quasi la metà dei fondi stanziati (22 milioni) saranno
gestiti in prima persona dalla Cooperazione italiana e da quelle ONG che si
sono rese disponibili a operare in Libia per l’implementazione dei centri
detentivi.
La
delega Ue-Italia delle operazioni SAR alla Libia all’interno di un’immensa area
marittima e lo scarsissimo numero (e le stesse caratteristiche tecniche) dei
mezzi aeronavali a disposizione delle autorità di Tripoli possono certamente
spiegare come mai, nonostante la riduzione delle partenze di imbarcazioni con
migranti, si sia assistito all’escalation delle morti nel Mediterraneo centrale. Un recente rapporto pubblicato dal ricercatore
Matteo Villa dell’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) ha
rilevato come il tasso di mortalità dei migranti in mare nel settembre del 2018,
in rapporto al numero delle persone partite, sia stato il più alto mai
registrato negli ultimi anni: il 19,1% di chi è partito dalla Libia è risultato,
infatti, morto o disperso. Sempre secondo Villa, almeno 867 migranti sono morti
o risultano dispersi negli ultimi quattro mesi, da quando cioè il nuovo governo
si è insediato a palazzo Chigi e ha messo in pratica la chiusura dei porti alle
navi delle organizzazioni non governative e una politica definita dal ricercatore di “deterrenza totale”. Sempre sul fronte dei morti e dei dispersi in mare, prendendo in
considerazione congiuntamente la rotta tunisina e quella libica, lo studio
elaborato da ISPI mostra come si sia passati nel solo Mediterraneo centrale da una
media di 3,2 morti al giorno nel periodo che ha visto ministro dell’Interno
Marco Minniti, agli 8,1 morti al giorno da quando sono entrate in vigore le
politiche di Matteo Salvini. E ancora, nel settembre 2018 solo il 10%
dei migranti partiti dalla Libia è riuscito ad arrivare in Europa sano e salvo,
mentre il 70% è stato intercettato dalle motovedette libiche e riportato
indietro nel paese nordafricano.
E Tripoli è ancora il nostro bel suol
d’amor
Intanto
l’Italia continua a recitare
la parte di piccola potenza neocoloniale in terra libica. Dall’inizio del
gennaio 2018, la presenza delle forze armate italiane è stata potenziata in
uomini, mezzi e funzioni nell’ambito della Missione bilaterale di assistenza e
supporto (MIASIT) al Governo di accordo nazionale di Fayez Serraj. La “nuova”
missione, secondo il portavoce della Difesa, ha l’obiettivo di “rendere l’azione
di assistenza e supporto in Libia maggiormente
incisiva ed efficace, sostenendo le autorità libiche nell’azione di
pacificazione e stabilizzazione del Paese e nel rafforzamento delle attività di
controllo e contrasto dell’immigrazione illegale, dei traffici illegali e delle
minacce alla sicurezza, in armonia con le linee di intervento decise dalle Nazioni
Unite”. Stando a quanto riferito
alle Camere dalla ministra Trenta, la “Missione
bilaterale di assistenza e supporto in Libia ha
lo scopo di fornire assistenza e supporto al Governo di intesa nazionale libico
ed è frutto della riconfigurazione, in un unico dispositivo, delle attività “sanitarie
e umanitarie” previste dall’Operazione
Ippocrate e di alcuni compiti di supporto tecnico e di manutenzione a
favore della Guardia costiera libica rientranti nell’Operazione Mare Sicuro”. L’assistenza militare italiana a
favore delle autorità di Tripoli si è sviluppata sin dalla fine della guerra
USA-NATO del 2011. Attualmente sono schierati nel paese africano 400 militari con
130 mezzi terrestri e un velivolo aereo; a Misurata è operativa la missione
“sanitaria” dell’Esercito con un ospedale da campo con 30 posti letto (ex Operazione Ippocrate), mentre la Marina opera ad Abu Sittah, il porto militare
di Tripoli, dove coordina le operazioni della Guardia costiera libica
equipaggiata con motovedette donate dall’Italia. Tra le novità più rilevanti
della partnership italo-libica 2018 spicca l’invio di istruttori e consiglieri militari
per addestrare le milizie fedeli al governo per un costo fino al 30 settembre
di 35 milioni di euro. La scelta della Difesa è caduta sugli istruttori del 2°
Reggimento San Marco, unica unità specializzata nelle operazioni di interdizione
marittima con capacità assalto ogni tempo. Il contingente inviato in Libia è composto da
151 fanti di Marina e da due unità cinofile addestrate alla difesa delle
installazioni e alla ricerca esplosivi. Intanto proseguono in Italia e nel paese
africano le attività addestrative della “nuova” Guardia costiera libica: sino ad
oggi sono già stati “formati” oltre 220 addetti. Presso il Comando della Marina
Militare di Brindisi sono stati avviati invece i corsi d’indottrinamento anfibio per il personale della marina libica addetto
alla gestione delle frontiere e
dell’immigrazione ed alla lotta al traffico di migranti, a seguito di un accordo tecnico firmato il 23
novembre 2017 tra il Ministero
degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale (MAECI) ed il Ministero della Difesa. I corsi hanno
una durata di sei settimane e vedono il personale libico impegnato in
esercitazioni presso la sede della Brigata Marina San Marco e in alcune aree addestrative limitrofe (Torre Cavallo,
Massafra, San Vito dei Normanni, ecc.). Ulteriori attività “formative” per le
forze armate libiche sono in corso presso le installazioni della Marina militare
nell’isola de La Maddalena, Sardegna.
Nel
porto di Tripoli si alternano periodicamente le navi ausiliarie della Marina
Militare italiana destinate alle “attività di ripristino dell’efficienza di
mezzi navali libici” avviate nel luglio 2017 e che hanno già consentito di
riparare sei unità della Marina e tre della Guardia costiera libiche, “consentendo
di incrementare la capacità della forze marittime nel contrastare i traffici
illeciti e la tratta di esseri umani nelle aree di propria responsabilità”. La
manutenzione delle motovedette della Guardia costiera viene realizzata da un
gruppo di tecnici a bordo della nave officina della Marina Militare Caprera. L’unità svolge anche compiti di
coordinamento tra le forze navali libiche e quelle italiane ed europee per la
ricerca e soccorso (SAR). Relativamente alle attività della nave Caprera, lo scorso mese di maggio l’ammiraglio
Donato Marzano, Comandante in Capo della Squadra Navale, aveva spiegato che
l’imbarcazione “fornisce il contenitore (computer, radio, capacità satellitari)
che consente agli ufficiali libici di gestire le loro navi” che poi si
interfacciano per le operazioni SAR con il Centro di Coordinamento del Soccorso
Marittimo italiano. “Noi stiamo consentendo ai libici di esercitare il comando
e controllo sulle navi che stanno andando per mare e li aiutiamo a coordinarsi
autonomamente con l’MRCC italiano”, aveva aggiunto Marzano. “L’obiettivo finale
è fare in modo che i libici gestiscano la propria aerea SAR come Stato
sovrano, con un proprio Libyan MRCC,
la cui realizzazione vede il sostegno dell’Unione europea”. Per la cronaca, la
nave-officina Caprera è quell’imbarcazione
che un mese fa la troupe televisiva de Le
Iene ha scoperto essere stata utilizzata
per effettuare il contrabbando di circa sette quintali di sigarette.
Come
abbiamo visto, alcune delle attività di addestramento del personale militare
libico in funzione anti-migrazione e di supporto tecnico alla Guardia Costiera
e alla Marina Militare nazionale, vengono svolte anche nell’ambito di Mare Sicuro, l’operazione avviata dalle
forze armate italiane nel marzo 2015 e che prevede lo schieramento di un
dispositivo navale con missione di presenza,
sorveglianza e sicurezza marittima nel Mediterraneo centrale. Le unità
d’altura incluse nel dispositivo aeronavale operano in un’area di mare di circa
160.000 km quadrati, “assicurando la tutela degli interessi nazionali, la protezione
delle linee di comunicazione e delle navi commerciali in transito, la protezione
delle fonti energetiche strategiche e la sorveglianza dei possibili movimenti
delle formazioni jihadiste, ecc.”. Anche Mare
Sicuro ha visto quest’anno una crescita del numero degli effettivi e dei
mezzi impiegati rispetto al 2017: da 700 a 745 militari e da cinque a sei navi,
mentre sono sempre cinque i velivoli aerei per una spesa complessiva nei primi
nove mesi del 2018 di 63,4 milioni di euro (66,78 milioni il costo
dell’operazione in tutto il 2017). Alle attività connesse con l’Operazione Mare Sicuro nel “controllo e
contrasto dell’immigrazione illegale e del traffico di esseri umani, in
supporto alle attività di ricerca e soccorso in mare (SAR)” partecipano con
sempre maggiore frequenza gli equipaggi del 41° Stormo Antisom dell’Aeronautica
Militare di stanza nella base siciliana di Sigonella, con il nuovo
pattugliatore marittimo ognitempo P-72A.
A ciò
si aggiunge la fornitura alle forze armate libiche di mezzi navali da impiegare
per la guerra ai migranti e alle migrazioni. L’onnipresente ministro Salvini ha
reso noto che l’Italia fornirà presto alla Guardia costiera di Tripoli 12
motovedette, in aggiunta alle 10 donate l’anno scorso dal governo Gentiloni-Minniti,
anche se in realtà, queste ultime erano già state consegnate al regime di
Gheddafi dall’allora governo Berlusconi e, dopo il conflitto del 2011, erano
state oggetto di riparazioni nei cantieri navali di Italia e Tunisia. Le unità destinate
alla Libia dal governo Conte-Salvini potrebbero essere le piccole “Classe 300” attualmente
schierate a Pantelleria e Lampedusa: anche esse dovrebbero operare dal porto di
Abu Sittah dopo uno specifico addestramento del personale locale da parte
italiana. Nell’ultimo anno è stato ampliato anche l’intervento della Guardia di
Finanza a favore della Guardia costiera libica: il numero degli addetti
militari è passato da 25 nel 2017 a 35 nel 2018, a cui si aggiunge un mezzo
navale, per un costo complessivo di 1,6 milioni per l’anno in corso. Nel 2017,
le operazioni della Guardia di Finanza in Libia e le riparazioni delle
motovedette poi girate ai libici avevano comportato una spesa di quasi 3
milioni di euro.
Nelle
scorse settimane, gli specialisti dell’Aeronautica Militare si sono incaricati
della fornitura di ricambi e dell’assistenza tecnica a favore degli avieri
libici per rimettere in condizioni di volo i cargo militari C-130H “Hercules” basati
nell’aeroporto di Mitiga, lo stesso che è stato recentemente al centro di
violenti scontri tra opposte fazioni. Di particolare rilevanza quanto accaduto
invece a fine 2017, quando un team di istruttori e mezzi terrestri italiani è
stato inviato nel sud del paese per addestrare le guardie di confine. Contemporaneamente
il Comando operativo interforze dello Stato Maggiore della Difesa e il genio
dell’Esercito, in coordinamento con il Dipartimento centrale dell’Immigrazione e
il supporto finanziario dell’Unione europea, hanno effettuato i primi
sopralluoghi a Ghat, nella Libia sud-occidentale al confine con Algeria, Niger
e Ciad, in vista di una prossima missione multinazionale UE e/o NATO nella vasta
regione del Fezzan, particolarmente interessata dalle principali rotte migratorie
africane e dove le centrali d’intelligence occidentali avrebbero segnalato la
presenza di “miliziani dello Stato Islamico”. Nel corso della missione a Ghat,
i militari italiani hanno individuato le infrastrutture da riadattare a caserme
dove addestrare le guardie di frontiera libiche per presidiare i cinque valichi “utilizzati
dai trafficanti di esseri umani”. Ancora una volta è il ministro Matteo Salvini
a spingere sull’acceleratore per implementare il progetto suddetto: in un suo
recente intervento, ha auspicato la creazione di una missione boots on the ground
nelle aree ai confini sud della Libia sotto la direzione NATO, con tanto di veri
e propri hotspot per migranti da collocare in corrispondenza delle frontiere
esterne. L’ipotesi vedrebbe il favore del Pentagono e dello stesso presidente
USA Donald Trump che vorrebbero poi estendere l’intervento e i campi-lager
anche in Niger, Mali, Ciad e Sudan.
In Tunisia e Niger le nuove (dis)avventure
neocoloniali in territorio africano
Parallelamente
sta crescendo l’impegno militare italiano in Tunisia, anch’esso in nome della
lotta all’immigrazione “irregolare” e al traffico di migranti. Il 23 luglio
2018, la ministra della difesa Elisabetta Trenta si è recata in visita a Tunisi per “accrescere il supporto al
controllo degli spazi marittimi e la gestione delle emergenze”, così come riportato dalla nota stampa del
ministero. “Per l’anno in corso la commissione bilaterale italo-tunisina
ha messo sul tavolo diverse attività: operazioni militari e di sicurezza, con
un’enfasi particolare orientata alla sicurezza marittima in termini di condivisione delle
informazioni, della conoscenza dell’ambiente marino e di prevenzione e di
gestione degli incidenti in mare”. Nell’ambito della cooperazione militare bilaterale,
va segnalato che a fine ottobre 2017 si è tenuta nelle acque settentrionali del
paese africano l’esercitazione Oasis 17 di ricerca e soccorso
marittimo (SAR), sorveglianza e controllo del traffico mercantile, contrasto
alle attività illegali via mare e ricerca e rimozione di ordigni rinvenuti sul
fondale marino, interoperabilità e integrazione multinazionale delle due forze
armate.
In
Tunisia, l’Italia dovrebbe prendere parte dai primi mesi del 2019 ad una
nuova missione multinazionale sotto il comando della NATO finalizzata a “costituire
un comando interforze per la contro insurrezione e la lotta al terrorismo”.
Previsto l’invio di una task force di 50-60 unità, con funzioni similari a
quelle già in atto in Libia: addestramento,
consulenza, assistenza e supporto delle forze armate e di sicurezza tunisine, in particolare nelle attività di controllo
delle frontiere. Previsto anche l’invio di un mezzo aereo, mentre il costo annuale
dell’operazione dovrebbe sfiorare i 5 milioni di euro. Il governo di Tunisi è
divenuto uno dei più attivi partner della NATO; in particolare ha partecipato a
numerose esercitazioni dell’Alleanza atlantica nel Mediterraneo, mentre tanti
ufficiali tunisini frequentano corsi di “formazione” presso il NATO Defense
College di Roma. “Parte vitale della partnership tra la NATO e le forze armate
della Tunisia è l’Allied Joint Force Command - JFC Naples, il Comando congiunto
con sede a Lago Patria, Napoli”, spiega il portavoce delle forze alleate.
Nelle
aree di confine con la Libia, le forze armate tunisine hanno realizzato un
profondo fossato di circa 200 km da Ras Jedir a Dahiba, per ostacolare le
incursioni di uomini e mezzi dal paese confinante e, ovviamente, di migranti. Secondo
quanto trapelato in Germania lo scorso anno, il governo di Angela Merkel
avrebbe finanziato Tunisi per realizzare nella stessa area di frontiera un
sistema di sorveglianza elettronico e osservazione mobile “contro le incursioni
degli estremisti e dei migranti”, per un valore complessivo di 16 milioni di
euro. Questo progetto sarebbe anche supervisionato dalle forze armate USA, in
particolare dalle unità di US Army Africa (USARAF), il Comando per le
operazioni dell’esercito statunitense nel continente africano di stanza a
Vicenza. US Army Africa ha pure stretto un rapporto di collaborazione con il
Centro di formazione d’eccellenza dell’esercito della Tunisia, con scambi di
personale e corsi nel paese africano e nelle maggiori installazioni
dell’esercito statunitense in Veneto e in Germania.
Sempre
in merito all’intervento militare neocoloniale anti-immigrazione dell’Italia
nel continente africano, da segnalare che il 20 settembre 2018 è
definitivamente partita la “Missione bilaterale di supporto nella Repubblica
del Niger – MISIN”, con area geografica di intervento allargata anche a
Mauritania, Nigeria e Benin, e che prevede inizialmente una presenza nel paese di
120 militari (Esercito, Aeronautica e Arma dei Carabinieri), per poi giungere a
470 entro la fine dell’anno, più 130 mezzi terrestri e due mezzi aerei. Il
Governo Conte (era però stato il precedente governo Pd a guida Gentiloni a programmare
l’intervento MISIN) ha autorizzato formalmente la missione “al fine di incrementare
le capacità volte al contrasto del fenomeno dei traffici illegali e delle
minacce alla sicurezza, nell’ambito di uno sforzo congiunto europeo e
statunitense per la stabilizzazione dell’area e il rafforzamento delle capacità
di controllo del territorio da parte delle autorità nigerine e dei Paesi del G5
Sahel (Niger, Mali, Mauritania, Ciad e Burkina Faso). L’operazione MISIN verterà principalmente nell’addestramento delle
forze di sicurezza locali (forze armate, gendarmeria nazionale, guardia nazionale
e forze speciali) e per “concorrere
alle attività di sorveglianza delle frontiere e allo sviluppo della componente
aerea”. Rilevante per comprenderne finalità geostrategiche e catene di comando,
il fatto che le unità italiane opereranno inizialmente all’interno della base
militare USA realizzata alla periferia della capitale Niamey.
Flotte UE e NATO in guerra contro i migranti
Il
20 giugno 2016 il Consiglio Europeo ha rinforzato il mandato di EUNAVFOR
MED, la forza aeronavale dell’Unione europea attivata per monitorare il
Mediterraneo centrale e concorrere alle operazioni di blocco dei flussi di
migranti dalle coste nordafricane all’Italia e alla Grecia. Alla soprannominata
Operazione Sophia sono stati aggiunti
altri compiti di supporto: l’addestramento della Guardia costiera e della
Marina militare libica; lo scambio di informazioni e intelligence con il
governo di Tripoli; il “contributo all’embargo marittimo delle armi dirette
alla Libia” in accordo alla risoluzione delle Nazioni Unite 2292 del 2016.
Oggi sono 26 i Paesi dell’Unione europea che contribuiscono alla missione, il
cui mandato scade formalmente alla fine dell’anno, ma che prevedibilmente sarà
prorogata almeno sino al dicembre 2019. L’Italia fornisce il contributo
maggiore alla missione con 470 militari, un mezzo navale e due mezzi aerei; il Quartier
Generale di EUNAVFOR MED – Sophia è situato all’interno dell’aeroporto
militare di Roma Centocelle, mentre dal 1° febbraio 2018 l’unità da trasporto
anfibio “San Giusto” ha
assunto il compito di nave-comando dell’operazione. A consolidare il ruolo
chiave del nostro paese nelle attività aeronavali UE anche l’utilizzo dello
scalo di Sigonella come Forward Operating
Base (Base Operativa Avanzata) di EUNAVFOR
MED. Dalla grande stazione aeronavale siciliana (già a disposizione
delle forze armate USA e NATO) operano gli assetti stranieri impiegati dall’Operazione Sophia e provenienti da Danimarca,
Francia, Gran Bretagna, Grecia, Islanda, Lussemburgo, Olanda, Polonia, Portogallo,
Spagna e Svezia. Al personale del 41° Stormo dell’Aeronautica Militare italiana
sono state assegnate le funzioni di “supporto di tutte le operazioni a terra di
accoglienza e ricovero degli equipaggi, dal rifornimento di carburante, al
servizio meteorologico, al controllo del traffico aereo, alla sicurezza delle
infrastrutture”. Dal settembre 2013, tra gli assetti internazionali operativi a
Sigonella ci sono pure i contingenti aerei di Frontex/Triton, con lo scopo di
coordinare il pattugliamento delle frontiere degli Stati membri e “favorire gli
accordi per la gestione dei migranti”. Sempre per monitorare le acque del
Mediterraneo e le imbarcazioni con migranti in rotta verso le coste dell’Italia
meridionale, a partire del marzo 2014 l’Aeronautica Militare ha rischiarato a
Sigonella alcuni velivoli a pilotaggio remoto “Predator” provenienti dalla base
aerea di Amendola (Foggia); per gestire le operazioni dei droni, il 10 luglio
2017 è stato attivato nella base siciliana il 61° Gruppo Volo AMI. Questi
velivoli si interfacceranno con l’AGS (Alliance
Ground Surveillance), il sistema di sorveglianza terrestre in via di
implementazione da parte della NATO, basato sui droni-spia “Global Hawk” di
ultima generazione. Nella stazione di Sigonella saranno dislocati il comando e i
cinque droni AGS, più le componenti dell’Alleanza che si dedicheranno alla
manutenzione dei velivoli, all’analisi e diffusione dei dati raccolti e all’addestramento
del personale multinazionale operativo.
I
mezzi impiegati nell’operazione EUNAVOR MED/Sophia si coordinano con le attività
delle unità NATO presenti nel Mediterraneo. In particolare per “assicurare
maggiori sinergie e sfruttare le peculiarità di ciascuna organizzazione”, è
stata avviata la partnership con la NATO
Sea Guardian, l’operazione varata al summit dell’Alleanza
Atlantica di Varsavia del luglio 2016 e operativa dal novembre dello
stesso anno grazie a dieci paesi alleati che forniscono unità navali, aerei e
sottomarini. Sea Guardian è un’operazione
“altamente flessibile” con un ampio spettro di compiti: dalla sorveglianza
degli spazi marittimi di interesse, al contrasto al “terrorismo marittimo”, alla
formazione a favore delle forze di sicurezza dei paesi rivieraschi. “Oltre a
queste attività, le forze navali possono effettuare attività di
interdizione, tutela della libertà di navigazione, protezione delle
infrastrutture marittime sensibili e contrasto alla proliferazione delle armi
di distruzione di massa”, spiegano i portavoce della NATO. Non ultimo,
ovviamente, l’obiettivo di rafforzare la cooperazione con l’Unione Europea contro
l’immigrazione “irregolare”. Il 20 giugno scorso, il comando della missione
europea EUNAVFOR MED/Sophia e il Comando marittimo alleato della NATO hanno
indetto una conferenza su Shared
Awareness and De-confliction in the Mediterranean, per rafforzare la collaborazione
“tra le numerose organizzazioni militari e civili che devono affrontare il fenomeno
migratorio in mare”. Per conseguire un ruolo sempre più flessibile in campo
politico-militare e geostrategico in quello che è ormai definito il Mediterraneo allargato (dal mar
Mediterraneo vero e proprio all’Europa orientale e a buona parte del continente
africano e del Medio oriente), il 15 febbraio 2017 i ministri della
Difesa dell’Alleanza hanno deciso di
costituire presso l’Allied Joint Force Command - JFC Naples l’Hub NATO per il Sud. “Il
centro operativo nella base di Lago Patria-Napoli dal dicembre 2017 ha come
obiettivo principale quello di comprendere e coordinare le risposte alle sfide
strategiche che l’Alleanza deve affrontare sul fronte sud”, ha spiegato il
segretario generale della NATO, Jens Stoltenberg. “L’Hub per il Sud non coordinerà grandi
operazioni militari, ma si occuperà di raccogliere informazioni, migliorare la
comprensione della situazione e coordinare le attività nell’area”. In pratica, un
pool di un centinaio di analisti internazionali avrà il compito di studiare le minacce enfatizzate dalla nuova pianificazione avanzata dell’Alleanza per il fronte meridionale,
quali “il terrorismo, la destabilizzazione, la radicalizzazione, le migrazioni,
l’inquinamento ambientale e i disastri naturali”, agendo contemporaneamente “come
centro di coordinamento per la collaborazione tra i comandi NATO e le
organizzazioni governative e non governative internazionali che si occupano di
sicurezza”.
A enfatizzare il ruolo di
analisi e intervento contro i flussi migratori nel Mediterraneo sono ancora gli
alti comandi della NATO preposti alle operazioni sul fronte meridionale. “La
nostra è una piattaforma di informazioni condivise con esperti di aspetti
militari, economici e sociali”, ha spiegato in un’intervista a La Repubblica (6 settembre 2017),
l’ammiraglio statunitense Michelle Howard, sino allo scorso anno alla guida del
Joint Force Command Naples. “L’idea di metter su questa struttura risale
già a due anni fa, ma ha avuto una accelerazione per due fattori:
il fenomeno della migrazione di massa e la dichiarazione del ministero della
Difesa USA di un impegno maggiore della NATO sul fronte del terrorismo (…) Con
due operazioni navali, la NATO dà già supporto ai flussi migratori di massa a
Turchia e Grecia, senza dimenticare l’Operazione
Sophia, che ha garantito soccorso e anche accoglienza. Ma è ovvio che un
proficuo scambio di informazioni può facilitare la gestione dei flussi
migratori e, nel contempo, pure aiutare a distinguere chi fugge da situazioni
di pericolo da chi, invece, viene con cattivi propositi”. Se già non fossero
evidenti le finalità di guerra globale contro le migrazioni del nuovo Hub NATO per il Sud, meglio allora
riportare un passaggio di un’altra intervista rilasciata dallo stesso ammiraglio
Howard all’agenzia di stampa Adnkronos
(3 settembre 2017): “Il Sud è anche il fronte
delle grandi migrazioni, materia che per la Ue è di fortissimo interesse, ma
quando ti occupi di salvare le persone in mare, quello è solo un sintomo del
problema”, ha spiegato l’allora comandante di JFC Naples. “Quello
che vogliamo fare è arrivare alle cause ultime che spingono le persone ad
emigrare, comprendendo esattamente che cosa succede, in modo da poter iniziare
a lavorare su misure di prevenzione”.
In nome della guerra
santa al binomio terrorismo-migrazioni in Libia e nell’Africa sub-sahariana, le
forze aeree statunitensi e relativi contractor operano già da alcuni anni con aerei
spia (con pilota e senza pilota), dalle basi aeree di Sigonella e Pantelleria e
talvolta dagli scali aeroportuali di Catania-Fontanarossa e Trapani-Birgi. Durante
gli ultimi combattimenti registrati a Tripoli e nel suo aeroporto
internazionale, i media hanno registrato le evoluzioni aeree di un drone statunitense
con compiti di intelligence, sorveglianza e ricognizione, molto probabilmente
uno degli MQ-9 “Reaper” dell’US Air Force operativi da Sigonella a partire dal
2011 anche per operazioni di attacco con missili aria-terra. Ancora una prova questa
della trasformazione della stazione aeronavale siciliana in capitale mondiale dei droni, ma come
abbiamo visto, anche di capitale europea
della sporca guerra ai migranti del XXI secolo.
Commenti
Posta un commento