Mafia-Stato la trattativa continua ora
Trattative
per evitare attentati, trattative per difendere il potere politico, trattative
per instaurarne uno nuovo. Difficile, in tutti questi anni, distinguere fra chi
– fra gli uomini dello Stato – trattò “a fin di bene” e chi per fini eversivi.
Comunque le trattative ci furono – e questo ormai non lo nega più nessuno – e
uno dei principali “ambasciatori” fu il boss dei boss messinese, Rosario
Cattafi. Che adesso sta continuando a “trattare”, riempiendo cartelle su
cartelle...
Un immenso cratere in autostrada,
allo svincolo per Capaci. Il gran botto in via d’Amelio, carcasse d’auto e
corpi straziati. Poi le bombe e le stragi a Roma, Firenze, Milano. L’offensiva
mafiosa, la sapiente direzione strategica delle centrali del terrore. E la
trattativa degli apparati infedeli dello Stato. Sino alla capitolazione: la
seconda repubblica di matrice neoliberista, i nuovi interlocutori politici
all’ombra del biscione, il colpo di spugna sul carcere duro per boss e gregari.
Vent’anni di segreti e veleni, una tragedia infinita su cui indagano senza
sosta tre Procure. Per inchiodare i mandanti dal volto coperto, esecutori e
protettori, spie e doppiogiochisti. Nonostante i non ricordo di ex ministri e presidenti.
Sui presunti registi e
intermediari della trattativa tra Stato e Antistato girano nomi eccellenti.
Alcuni sono deceduti e non potranno fornire chiarimenti né difendersi. I Pm di
Palermo nutrono forti sospetti sull’allora capo della polizia Vincenzo Parisi.
E sull’alto dirigente del Sisde, il servizio segreto civile, Bruno Contrada.
Nella black list c’è pure l’ex capo
dei Ros dei Carabinieri e direttore del
Sisde, Mario Mori. O l’ex ministro Calogero Mannino che, secondo gli
inquirenti, avrebbe esercitato “indebite pressioni finalizzate a condizionare
in senso favorevole a detenuti mafiosi la concreta applicazione del 41bis”. E nel
novembre ’93, fu deciso di non rinnovare il carcere duro a 326 mafiosi, 45 dei
quali ai vertici di Cosa nostra, ‘ndrangheta, Camorra e Sacra corona unita.
Gli
inquirenti ipotizzano che tra i consiglieri
dell’ammorbidimento del regime detentivo nei confronti della criminalità
organizzata c’era l’allora vicecapo del Dipartimento
dell’amministrazione penitenziaria (Dap) Francesco Di Maggio, il
magistrato tutto d’un pezzo scomparso
prematuramente nel 1996, noto per l’inchiesta sulla scalata criminale di Angelo
Epaminonda “il Tebano”, il re delle bische e della droga di Milano, convertito
in collaboratore di giustizia. Dopo un breve e travagliato periodo all’Alto
commissariato antimafia, Di Maggio aveva preferito trasferirsi a Vienna per fare da consulente giuridico dell’agenzia
antidroga delle Nazioni Unite. Poi, nel ’93, inaspettatamente, veniva chiamato
a Roma per assumere l’incarico di supervisore delle carceri italiane. Ciò ha insospettito
i Pm palermitani: senza alcuna competenza specifica per quel ruolo,
Di Maggio non era magistrato di corte d’appello, titolo
richiesto dalla legge. Per aggirare l’ostacolo fu nominato consigliere di
Stato. Chi e perché lo volle alla guida del Dap? “L’ho scelto io”, ha spiegato
Conso. “Era una persona che andava un po’ in televisione, quindi era
combattivo, attivo, era un esternatore e mi era parso molto efficace”. Di
diverso parere l’allora capo del dipartimento dell’amministrazione
penitenziaria, Adalberto Capriotti. “Ebbi l’impressione che a Conso, a sua
volta, Di Maggio gli fu imposto”, ha raccontato. E i rapporti tra il
guardasigilli e il magistrato erano tutt’altro che idilliaci. “Una volta ho
assistito a una violentissima lite tra i due”, ha aggiunto. “Mi misi di mezzo
perché Di Maggio, oltre a dargli del tu, insultava Conso e io non potevo
permetterlo…”.
Il 29 ottobre 1993 Capriotti
aveva sottoscritto una nota in cui si chiedeva a diverse autorità istituzionali
un parere sull’eventuale proroga del 41bis a oltre trecento detenuti. “Per
creare un clima positivo di distensione nelle carceri”, spiegava il capo del
Dap. La nota fu poi consegnata a Conso dall’allora capo di gabinetto del
ministero, Livia Pomodoro, odierna presidente del Tribunale di Milano. “Il
ministro mi diede la direttiva di attendere ulteriori aggiornamenti, che avrebbero
dovuto essere forniti dal vicecapo Di Maggio”, racconta Pomodoro. Nessuno però è in grado di ricordare cosa poi
veramente accadde e quale fu davvero il ruolo del magistrato richiamato da
Vienna. Quello stesso Di Maggio che in un’intervista in piena stagione
terroristica si era dichiarato “decisamente a favore” del carcere duro per i
mafiosi. “Era
ritenuto un forcaiolo al Dap perché voleva mantenere il 41bis, ma riteneva che
la sua linea fosse disattesa dal Ministero degli Interni”, ha rivendicato il
fratello, Salvatore Di Maggio, all’udienza del processo che vede imputati il
generale Mario Mori e il colonnello Mauro Obinu per favoreggiamento aggravato a
Cosa nostra dopo la mancata cattura del superboss Bernardo Provenzano nel 1995.
A
rendere più fitto il mistero è spuntato un vecchio verbale d’interrogatorio
dell’ispettore della polizia penitenziaria, Nicola Cristella, che fa il punto
sulle frequentazioni di allora di Francesco Di Maggio. Cristella avrebbe
dichiarato che nell’estate delle bombe del ’93, il magistrato era solito cenare
con il giornalista Guglielmo Sasinini, poi finito sotto inchiesta per i dossier
illegali di Telecom, l’immancabile generale-prefetto Mori e il colonnello dei
carabinieri Umberto Bonaventura, morto nel 2002 per arresto cardiocircolatorio.
Figlio del capocentro del Sifar a Palermo fra
la fine degli anni ’60 e
l’inizio degli anni ’70, Bonaventura era stato prima membro dei nuclei antiterrorismo del
generale Dalla Chiesa, poi capo della 1^ divisione del Sismi, il servizio
segreto militare subentrato al Sifar. Cene sospette. Inopportune. Inquietanti.
Quasi a confermare la relazione privilegiata tra Mario Mori e il giudice Di
Maggio un’annotazione nell’agenda personale del
militare, alla data del 27 luglio 1993, vigilia della notte in cui esplosero
tre autobombe, la prima a Milano e le altre due a Roma, a San Giovanni in
Laterano e davanti alla chiesa di San Giorgio al Velabro. “Per prob. detenuti mafiosi” c’è scritto in riferimento ad un
appuntamento fissato quel giorno con Di Maggio. Stranamente, cinque
mesi prima, la mattina del 27 febbraio, presso la Sezione Anticrimine di Roma,
Mori aveva incontrato il magistrato (ancora consulente dell’agenzia antidroga
dell’Onu) per discutere sull’omicidio del giornalista de La Sicilia Beppe Alfano, assassinato dalla mafia l’8 gennaio 1993 a
Barcellona Pozzo di Gotto. E da quanto accertato dal Pm di Firenze, Gabriele Chelazzi,
recentemente scomparso, Di Maggio e Mori s’incontrarono nuovamente il successivo 22 ottobre, congiuntamente all’allora
colonnello Giampaolo Ganzer, poi comandante del Ros, condannato il 12 luglio
2010 dal Tribunale di Milano a quattordici anni di reclusione e 65 mila euro di
multa per traffico di stupefacenti, falso e peculato.
Come Alfano, anche Francesco
Di Maggio era originario di Barcellona, il maggiore centro tirrenico della
provincia di Messina. E barcellonesi sono pure alcuni dei padrini in odor di
massoneria e servizi segreti entrati a pieno titolo nelle cronache nere
italiane di quegli anni o certi strani garanti dell’impunità e del depistaggio
istituzionale. Mere coincidenze, forse. Ma a Barcellona convergono e
s’incrociano più di un filo investigativo, troppi attori, programmi eversivi,
esplosivi e telecomandi. La città è crocevia di poteri più o meno occulti,
laboratorio sperimentale per le alleanze della seconda repubblica, centro
strategico di traffici di droga ed armi, eldorado delle ecomafie, ponte-cerniera
tra organizzazioni criminali siciliane, ‘ndrangheta, camorra ed estrema destra.
Un paradiso dorato per i latitanti di primo livello, come Bernando Provenzano,
Pietro Aglieri e Benedetto Santapaola.
Una Corleone del XXI secolo dove campieri, ex vivaisti e piccoli
allevatori semianalfabeti hanno imposto il proprio dominio agli eredi di una
borghesia locale consociativa e parassitaria. Una colonia di cosche efferate,
sanguinarie, predatrici. I vincitori e i perdenti di una guerra che negli anni
’80 ha lasciato sul campo un centinaio di morti e una decina di desaparecidos. Omicidi brutali, corpi
arsi vivi nei greti dei torrenti, minorenni torturati e sgozzati, arti mozzati.
Il devastante saccheggio delle risorse di un territorio unico per bellezze e
tradizioni; la capacità d’infiltrazione in ogni livello delle istituzioni.
Mafia finanziaria e imprenditrice, onnipresente nella gestione delle opere
pubbliche e private, dai lavori ferroviari e autostradali sulla
Messina-Palermo, alla discarica a cielo aperto di rifiuti di Mazzarrà
Sant’Andrea, una delle più grandi del Mezzogiorno d’Italia, ai complessi
turistici del golfo di Tindari e di Milazzo. E la bramosia d’impossessarsi del
padre di tutte le Grandi infrastrutture, il Ponte sullo Stretto.
Per lungo tempo le
fittissime rete di relazioni e contiguità trasversali si sono tessute
all’interno delle logge massoniche più o meno spurie e nel “circolo culturale” Corda Fratres, l’officina
che ha forgiato l’élite politica, sociale, economica e amministrativa locale.
Della Fédération Internazionale des
Etudiants Corda Fratres Consulat de Barcellona (questo il nome ufficiale)
sono stati soci e dirigenti giudici, avvocati, insigni giuristi, poeti,
scrittori, artisti, giornalisti, diplomatici, militari, liberi professionisti,
parlamentari, sindaci, consiglieri provinciali e comunali. E un buon numero di
frammassoni. Su 36 iscritti nel 1994 alla loggia Fratelli Bandiera del Grande Oriente d’Italia, ben 14 erano
soci Corda Fratres. Tra i cordafratrini “onorari” pure due uomini di
vertice dei Carabinieri, i generali Sergio Siracusa (già direttore del Sismi ed
ex comandante dell’Arma) e Giuseppe Siracusano (tessera n. 1607 della P2),
indicato dalla relazione di minoranza dell’on. Massimo Teodori sulla
superloggia atlantica come “fedelissimo di Gelli da antica data”. Stelle di
prima grandezza del panorama politico-culturale nazionale i partecipanti ai
convegni della Corda. Compreso il
vicecapo Dap Francesco Di Maggio, relatore all’incontro su Principio di legalità e carcerazione preventiva, anno 1994.
Nel circolo di Barcellona pure certe presenze e
frequentazioni perlomeno imbarazzanti. Come quella del mafioso Giuseppe
Gullotti, condannato in via definitiva quale mandante dell’omicidio di Beppe
Alfano. Gullotti è stato membro del direttivo di Corda Fratres nel 1989 e socio
fino all’autunno del 1993, quando fu “allontanato” a seguito dei pesanti
rilievi fatti dalla Commissione parlamentare antimafia in visita nella città
del Longano. “Venne ordinato uomo d’onore nel 1991, per intercessione del
vecchio boss di San Mauro Castelverde, Giuseppe Farinella”, ha raccontato
Giovanni Brusca. “Sempre il Gullotti si sarebbe dovuto occupare di reperire
l’esplosivo necessario per l’attentato che venne progettato tra il ’92 e il ’93
contro il leader del Partito socialista Claudio Martelli, attraverso
l’interessamento e la mediazione del clan di Nitto Santapaola”. Deponendo al
processo Mare Nostrum contro le
cosche della provincia di Messina, lo stesso Brusca ha dichiarato che il
telecomando da lui adoperato per la realizzazione della strage di Capaci, gli
era stato materialmente consegnato poco prima proprio da Gullotti.
L’assegnazione al barcellonese di tale incarico, secondo Brusca, sarebbe stata
patrocinata dal mafioso Pietro Rampulla (originario di Mistretta), l’artificiere
del tragico attentato del 23 maggio ‘92 contro il giudice Falcone. “Anch’io
avevo rapporti con Gullotti”, ha raccontato nel giugno del 1999 il controverso
collaboratore Luigi Sparacio, già a capo della criminalità messinese. “Mi era
stato presentato da Michelangelo Alfano come persona vicina a Cosa nostra, e in
tale ambito fornii al predetto uno-due telecomandi da utilizzare per attentati
e che erano stati per me realizzati su commissione, da un dipendente
dell’Arsenale militare di Messina…”.
Nome ancora più indigesto dell’albo-soci di Corda Frates, quello di Rosario Pio
Cattafi, professione avvocato, ritenuto il
capo dei capi della mafia barcellonese. “Numerosi collaboratori di
giustizia, tra i quali spiccano Angelo Epaminonda e Maurizio Avola hanno
indicato Cattafi come personaggio inserito in importanti operazioni finanziarie
illecite e di numerosi traffici di armi, in cui sono emersi gli interessi di
importanti organizzazioni mafiose quali, oltre alla cosca Santapaola, le
famiglie Carollo, Fidanzati, Ciulla e Bono”, hanno scritto i giudici di Messina
nell’ordinanza del luglio 2000 che ha imposto al Cattafi l’obbligo di soggiorno
nel Comune di Barcellona per la durata di cinque anni.
Da giovanissimo egli aveva militato nelle file della
destra eversiva rendendosi protagonista nell’ambiente universitario messinese
di alcuni pestaggi (unitamente all’allora ordinovista Pietro Rampulla), risse
aggravate, danneggiamento, detenzione illegale di armi. Trasferitosi in
Lombardia a metà degli anni ’70, Cattafi fu sospettato di essere stato uno dei
capi di una presunta associazione operante a Milano, responsabile del
sequestro, nel gennaio 1975, dell’imprenditore Giuseppe Agrati, rilasciato dopo
il pagamento di un riscatto miliardario. All’organizzazione fu anche contestata
la compartecipazione nei traffici di stupefacenti e nella gestione delle case
da gioco per conto delle famiglie mafiose siciliane. Nel maggio 1984, i
presunti appartenenti alla cellula in odor di mafia furono raggiunti da un
mandato di cattura firmato dal Pm Francesco Di Maggio. Cattafi, residente in
Svizzera, sfuggì all’arresto. Pochi giorni dopo fu però l’autorità giudiziaria locale
ad ottenerne l’arresto nell’ambito di un’inchiesta per traffico di
stupefacenti. Così il 30 maggio dell’84 Di Maggio potette raggiungere Cattafi
in cella a Bellinzona per un interrogatorio ancora top secret: i verbali furono infatti trattenuti dalle autorità
elvetiche. Negli stessi mesi, Angelo Epaminonda riferì ai magistrati (tra cui ancora Francesco
Di Maggio) che nel 1983, il Cattafi, per conto del clan Santapaola, gli aveva
inutilmente proposto di gestire in società l’attività di
cambio-assegni ai giocatori del casinò di St. Vincent. Il fatto tuttavia non fu
ritenuto rilevante e il barcellonese venne tenuto fuori dalle inchieste sulla
penetrazione mafiosa a Milano.
Di Maggio e Cattafi si
sarebbero incrociati pure nel corso delle indagini sull’efferato omicidio del
Procuratore capo di Torino, Bruno Caccia. Lo ha raccontato al Corriere della sera (8 giugno 1995),
l’allora sostituto procuratore di Barcellona Olindo Canali, recentemente
condannato in primo grado a due anni per falsa testimonianza commessa nel corso
del processo contro le organizzazioni mafiose barcellonesi Mare Nostrum. “Fu Di Maggio ad arrestare Cattafi nell’85 per
l’inchiesta sull’omicidio Caccia a Torino. Fu il giudice istruttore ad
assolverlo, ma rimase dentro per un anno”. Cattafi,
in verità, non venne arrestato a seguito dell’assassinio
del magistrato, ma fu interrogato in carcere dai pubblici ministeri milanesi titolari dell’inchiesta.
Anche Canali
conosceva da lungo tempo Di Maggio. Con il magistrato barcellonese, egli aveva
fatto un periodo di tirocinio da uditore a Milano. “Sempre Di Maggio, il cui
padre era stato maresciallo dei Carabinieri a Pozzo di Gotto, m’informò,
in generale, sulla situazione barcellonese prima di trasferirmi in Sicilia”, ha
spiegato Canali.
Un oscuro passaggio sui
rapporti tra Di Maggio e Cattafi fu riportato in quegli stessi anni in uno dei
dossier anonimi fatti circolare ad arte per screditare la figura del giudice
Antonio Di Pietro e finiti nelle mani del leader Psi Bettino Craxi, latitante
ad Hammamet. “Cattafi - vi si legge - a Milano, dove aveva iniziato un’attività
nel campo dei farmaceutici e sanitari, rivede e frequenta il giudice Francesco
Di Maggio, che ha passato la sua giovinezza fra Milazzo e Barcellona, dove ha
frequentato le scuole, compreso il liceo (il padre era appuntato dei
carabinieri), e dove ha conosciuto Cattafi, di cui è coetaneo. Di Maggio
introduce Cattafi nell’ambiente dei magistrati, dove pare Cattafi abbia
conosciuto Di Pietro (allora sconosciuto) e la sua donna, poi divenuta sua
moglie”. Quella su Di Pietro era una bufala, quella su Di Maggio una mezza
verità. “Il giudice Di Maggio l’ho visto un paio di volte e sono stato anche
inquisito e poi prosciolto per una vicenda relativa ad un conto corrente
bancario con sede in Svizzera…”, ammetterà lo stesso Cattafi in un’intervista
al settimanale Centonove a fine anni
‘90.
Qualche
mese fa, il controverso avvocato barcellonese è stato arrestato perché ritenuto
uno degli uomini di vertice delle organizzazioni mafiose siciliane. Da allora,
ha riempito pagine e pagine di verbali fornendo in particolare tutt’altra
versione sui suoi rapporti con il giudice Di Maggio. Al centro, ancora una
volta, la trattativa Stato-mafia negli anni delle stragi e delle bombe in mezza
Italia. Il racconto di Cattafi parte da quando venne arrestato in Canton Ticino
e fu sentito in carcere dal magistrato barcellonese. “I pm di
Milano Di Maggio e Davigo emisero un mandato di cattura nel quale ero accusato,
fra l’altro, di essere il cassiere della mafia”, ha raccontato il boss. “Il
mandato fu notificato all’Autorità svizzera ed io fui arrestato il 17 maggio 1984.
All’incirca nello stesso periodo, quando comunque già Di Maggio si stava
convincendo della mia estraneità alla vicenda del sequestro Agrati, costui mi
chiese se ero disposto a rilasciare dichiarazioni sul conto di Salvatore Cuscunà
detto Turi Buatta, indicandolo come
uomo di Santapaola. Ricordo che Epaminonda aveva fatto dichiarazioni contro il
Cuscunà sostenendo che costui faceva parte della famiglia Santapaola e che lui
stesso aveva venduto al Cuscunà alcuni chili di cocaina. Egli negava tutto ciò
ed affermava che Epaminonda lo accusava per malanimo nei suoi confronti. A
questo punto intervennero le mie dichiarazioni rese al pm Di Maggio ed io
confermai le frequentazioni fra Angelo Epaminonda e Cuscunà…”.
Cattafi aggiunge che “negli anni ’89 - ’90”, dopo essere
tornato in libertà, ricevette la visita in casa a Milano di un carabiniere che
gli chiese di raggiungere la caserma di via Moscova dove lo attendeva per un
colloquio Francesco Di Maggio. Giunto in caserma, Cattafi incontrò il giudice
in compagnia del capitano dei carabinieri Morini. “Di Maggio mi comunicò che
aveva ricevuto una nomina presso l’Alto commissariato antimafia”, ha raccontato.
“Sempre in quel frangente, Di Maggio mi disse: so che lei ha contatti con personaggi di vario genere, con
imprenditori, se lei sa qualcosa sul riciclaggio di denaro, io sono qui.
Non posso definirmi un informatore di Di Maggio ma semplicemente una persona
che era entrata in buoni rapporti con costui e che dunque era disposta a
fornirgli informazioni nel caso in cui ne fossi venuto a conoscenza. Io
garantii la mia disponibilità ed il dottor Di maggio mi disse: da me troverete sempre un amico”.
Cattafi afferma di non aver più rivisto il magistrato
sino al maggio del ‘93. “Di Maggio si trovava a Messina, mandò un carabiniere
nella casa di mia madre e mi fece sapere che mi aspettava al bar Doddis, ed è lì che lo incontrai. Mi
disse che era stato nominato vicedirettore del Dap. C’erano state le stragi
Falcone e Borsellino e da pochi giorni l’attentato a Maurizio Costanzo. Dobbiamo bloccarli questi porci, mi
disse. Dobbiamo prendere la cosa in mano
e portare avanti una trattativa, il concetto era quello, ma non so se usò
questa parola”. Di Maggio aveva individuato un potenziale interlocutore,
Benedetto Santapaola, al tempo latitante, ritenendolo un capomafia “più
malleabile”. “Di Maggio mi chiese se,
attraverso il boss Salvatore Cuscunà che avevo frequentato a Milano nell’Autoparco
di via Salomone, potevo cercare un contatto con Santapaola, che non ho mai
conosciuto, per tentare di aprire un dialogo”, ha aggiunto Cattafi. “Dovevo
contattare l’avvocato di Cuscunà promettendogli qualunque cosa, tutti i benefici possibili per il suo cliente, pur
di riuscire a parlare con Santapaola per riuscire a trovare nuove strade per
disinnescare la violenza di Cosa nostra. Mi parlò anche di dissociazione ma
così…”. Stando a Cattafi, al faccia a faccia con il magistrato si aggiunsero in
un secondo tempo anche i carabinieri del Ros. “Al bar giunsero cinque-sei
persone, alcune delle quali in divisa ed altre in borghese. Ricordo ancora che
Di Maggio mi presentò nominativamente tutti i carabinieri presenti. Anzi
aggiunse che per le eventuali esigenze avrei dovuto contattare due di essi (…)
Qualcuno di questi ufficiali era particolarmente spiritoso e raccontava
barzellette. Non escludo che fra costoro ci fosse anche il generale Mori, ma
onestamente non posso dirlo con certezza”. Il racconto, in verità, è poco convincente. “Ma
se Cattafi da decenni è in rapporti con Santapaola perché rivolgersi a terzi
per avere un tramite?”, si domanda l’avvocato Fabio Repici nell’e-book “La
peggio gioventù”, pubblicato con il numero scorso de I Siciliani giovani. “E perché poi incontrare il giudice a Messina
quando Cattafi poteva incontrarlo più comodamente in qualche ufficio romano?”
Lo stesso Santapaola fu arrestato a Mazzarrone, in
provincia di Catania, il 18 maggio 1993, qualche giorno dopo il presunto
incontro Cattafi-Di Maggio a Messina e dopo aver liberamente scorazzato
“latitante” nel barcellonese almeno fino
al 29 aprile di quell’anno. Una prova certa della presenza di Santapaola nella
città del Longano è emersa dalle intercettazioni telefoniche e ambientali
avviate subito dopo l’uccisione del giornalista Beppe Alfano. E come
poi accertato dal Servizio
anti-criminalità organizzata della Guardia di
Finanza, tra il 30 aprile e
il 2 maggio 1993, in un hotel della città di Milazzo avevano
preso alloggio il fratello di don Nitto, Giuseppe
Santapaola, sua moglie, i quattro figli e il pregiudicato catanese Salvatore Di
Mauro.
Responsabile dell’ufficio contabile di quell’albergo era il barcellonese Stefano Piccolo, commercialista
di fiducia di Rosario Cattafi. E la moglie, Ferdinanda Corica, ha ricoperto sino
a tempo fa l’incarico di rappresentante legale e socia della Dibeca Sas, la
società tuttofare della famiglia Cattafi oggi tra i beni posti sotto sequestro
dalla DDA peloritana. Strane coincidenze. Davvero.
Rosario Cattafi ha pure spiegato di avere avuto un altro
contatto con Francesco Di Maggio nel carcere di Opera tra il 1994 e il 1995, dopo
il suo arresto nell’ambito dell’inchiesta sui traffici di armi e droga nell’Autoparco
di Milano. “Mentre ero detenuto a Milano fui convocato nella stanza
del direttore, dottore Fabozzi”, riferisce Cattafi. “Una volta che venni
portato lì trovai il dottor Di Maggio. Costui mi comunicò che presso il carcere
di Opera era o forse sarebbe arrivato il palermitano Ugo Martello, che io non
conoscevo. Di Maggio mi disse che si trattava di un personaggio importante
appartenente alla mafia palermitana e che proveniva dal 41bis e che era stato
collocato nel mio stesso carcere e nella mia stessa sezione. Di Maggio mi
chiese di recare un preciso messaggio al Martello che doveva essere poi
recapitato agli altri mafiosi palermitani. Il Martello, in sostanza, doveva
riferire che si doveva portare avanti il discorso della dissociazione e che in cambio costoro avrebbero ricevuto dei
vantaggi da parte delle Istituzioni. Di Maggio mi specificò che in questo modo,
ci sarebbe stato un atteggiamento di emulazione da parte dei mafiosi cosicché
dopo le prime dissociazioni ben presto ne sarebbero arrivate tante altre. Di
Maggio mi fece l’esempio del bastone e
della carota e mi disse che la carota
sarebbe conseguita a questa eventuale dissociazione. Mi ribadì
che io potevo promettere qualsiasi cosa…”. La lusinghiera proposta avrebbe però
scatenato le proteste del pregiudicato. “Gli risposi male, rinfacciandogli che mi ero prestato a recare il
messaggio a Cuscunà come mi era stato richiesto e tuttavia mi trovavo in
carcere ingiustamente… Di Maggio mi rispose: per quella vicenda abbiamo risolto, abbiamo fatto tutto, tutto a posto,
senza specificarmi altro”. Cattafi avrebbe incontrato Cuscunà nel centro
clinico del carcere milanese di san Vittore. “Presso quello stesso centro, in un’altra stanza posta sulla mia sinistra
c’era il Cuscunà. Costui mi trattò malissimo dal momento che lo avevo accusato
nell’ambito del procedimento Autoparco.
Io cercai di calmarlo: ti dico una cosa
che forse può aiutarti a farti uscire e gli riferì quello che mi aveva
detto il Di Maggio: che se fossi riuscito a trovare un contatto con il
Santapaola c’era la disponibilità del giudice a fargli ottenere gli arresti
domiciliari”.
L’allora direttore Aldo Fabozzi, odierno provveditore
dell’amministrazione penitenziaria della Lombardia, ha seccamente respinto sul
settimanale Panorama le dichiarazioni
del barcellonese: “All’epoca non c’era
il regime del 41bis ad Opera e nella mia lunga esperienza professionale, mai ho
permesso che un detenuto oltrepassasse la porta carraia”. Fabozzi ha tuttavia
ammesso di aver conosciuto molto bene il giudice Di Maggio. “Posso
garantire che era un magistrato serio, fra i migliori, con valori istituzionali
ferrei e inossidabili, mai avrebbe trattato con la mafia, mai sceso a compressi
o a semplici contatti con malavitosi. Queste dichiarazioni sono un affronto
alla memoria di un magistrato per bene e alla sua intelligenza”. Diversamente
da come la pensava la pensava Loris
D’Ambrosio, il consigliere del Quirinale scomparso prematuramente qualche tempo fa. “La
linea di Di Maggio era quella di consentire un agevole accesso nelle carceri ai
suoi amici che in qualche modo collaboravano, come confidenti…”, si lasciò
sfuggire in un colloquio telefonico del 25 novembre 2011 con l’ex ministro
degli interni Nicola Mancino che
lamentava le modalità d’indagine sulla “trattativa” dei magistrati di Palermo.
Come se non bastasse, il 28
settembre 2012 Rosario Cattafi ha raccontato ai Pm di Messina di aver
avuto rapporti telefonici con il
giudice Di Maggio anche quando era detenuto in isolamento nel carcere di Sollicciano. “Venivo portato
nella stanza del direttore Quattrone, costui chiamava al telefono il Ministero
e mi passava il dottore Di Maggio. Il suo ufficio era al primo piano, di fronte
all’ingresso avvocati. Di Maggio anche in questo caso mi esortò ad avere
contatti con Cuscunà”. Per la cronaca, il direttore Paolo Maria Quattrone è
morto suicida nel luglio del 2010 dopo essere stato rinviato a giudizio per
abuso d’ufficio, nell’ambito di un’inchiesta sui lavori di ammodernamento del
carcere di Cosenza. A difenderne la memoria sono scesi in campo i familiari che
in una lettera aperta hanno definito come ridicole,
oltraggiose e vergognose le parole di Cattafi. “Il dottor Quattrone è sempre stato un leale e integerrimo uomo di
Stato, di Giustizia e di Cultura”, hanno spiegato. “Dalla ‘ndrangheta ha
ricevuto numerose intimidazioni e attentati. Il più grave, una bomba esplosa
nella sua camera da letto, quando dirigeva il carcere di Reggio Calabria.
L’allora capo del Dap, Nicolò Amato, per salvargli la vita lo trasferì a
Sollicciano”.
Nicolò Amato ha ricoperto l’incarico al Dap fino al 4 giugno 1993 quando fu sostituito da
Adalberto Capriotti. Originario di Messina, animatore negli anni ’50 dell’associazione
“universitaria” Corda Fratres insieme
a Franco Antonio Cassata (odierno Procuratore generale della città dello
stretto) e Francesco Paolo Fulci (poi ambasciatore a Washington e alla Nato e,
negli anni delle stragi mafiose, direttore del Cesis, il comitato esecutivo dei
servizi segreti), Amato ha poi intrapreso l’attività di avvocato. Tra i suoi
assistiti, secondo Massimo Ciancimino, il padre don Vito “su consiglio del
generale Mario Mori”. Adesso Nicolò Amato sostiene che fu proprio Francesco Di
Maggio a non volere avuto il rinnovo del 41bis contro i mafiosi nel novembre
del ’93. “Amato nulla ha saputo (o voluto o potuto) dire, però, su un
documento, da lui redatto nel marzo 1993, nel quale veniva sollecitata la messa
in mora della normativa sul carcere duro per i mafiosi”, rilevano l’avvocato
Fabio Repici e Marco Bertelli in una documentata inchiesta giornalistica.
“Quella nota dell’ex capo del Dap faceva riferimento ad orientamenti già emersi
il 12 febbraio 1993, lo stesso giorno dell’insediamento di Conso al posto di
Martelli in via Arenula, nel corso di una seduta del comitato nazionale per
l’ordine e la sicurezza pubblica (…) Nei verbali di quel comitato, risulta che fu
lo stesso Nicolò Amato a sollecitare un alleggerimento del 41bis”. E i giochi in quei tragici
giorni delle stragi si fanno ancora più torbidi.
Nelle carte della Procura
palermitana sulla trattativa Stato-mafia si ripete, troppo spesso, il nome del
senatore Marcello dell’Utri, una condanna in appello per concorso esterno in
associazione mafiosa annullata con rinvio dalla Cassazione. Dell’Utri, per gli
inquirenti, potrebbe essere stato uno dei maggiori “intermediari” con Cosa
nostra che cercava d’imporre gli obiettivi del papello minacciando altro sangue dopo Capaci e via d’Amelio. Nel
biennio 92-93, secondo alcuni
collaboratori di giustizia, il manager di Publitalia sarebbe stato un
visitatore abitudinario del messinese. Maurizio Avola ha riferito di avere
accompagnato nel 1992 a
Barcellona Pozzo di Gotto il boss Marcello D’Agata per un appuntamento con
Dell’Utri. Nel corso di un interrogatorio davanti ai Pm di Catania e
Caltanissetta, Avola ha pure accennato ad un incontro avvenuto - sempre a Barcellona
- tra Marcello Dell’Utri e i boss catanesi Aldo Ercolano, Nino Pulvirenti e
Benedetto Santapaola. Gli
inquirenti hanno accertato che nel periodo compreso tra il 1990 e il 1993,
Marcello Dell’Utri ha realizzato ben 58 viaggi aerei tra Roma e la Sicilia, di
cui ben 34 da e per Catania nel solo 1992. Nella loro requisitoria al processo contro
il braccio destro di Silvio Berlusconi, i pubblici ministeri di Palermo riportano
che quando Santapaola era ospite dei clan barcellonesi, Rosario Cattafi si
teneva in contatto con l’utenza in uso a Giuseppe Gullotti. “E non deve
sfuggire che lo stesso Cattafi è stato identificato come soggetto più volte
chiamato da persone appartenenti al circuito del Dell’Utri, cioè da persone
entrate con lui in contatto telefonico od esistenti nelle sue agende”, specificano
i Pm. Sempre e ancora Cattafi. E l’inferno di Barcellona PG.
Inchiesta pubblicata in I Siciliani giovani, n.11, gennaio 2013
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