Insostenibile il cimitero navale NATO nell’Arsenale di Messina


La conversione dell’Arsenale di Messina in Centro d’eccellenza NATO dove demilitarizzare e smaltire le unità navali militari sino a 2.000 tonnellate è, tuttora, “nella fase istruttoria da parte dell’Agenzia Industrie Difesa (AID)”. Così ha risposto il ministro della difesa Giampaolo Di Paola all’interrogazione parlamentare presentata dall’on. Americo Porfidia di Noi Sud lo scorso mese di luglio.

“Affermare che il progetto sia sposato dalla NATO Maintenance and Supply Agency (NAMSA), l’agenzia logistica con sede a Capellen (Lussemburgo), è ancora prematuro”, ha aggiunto Di Paola. “Il progetto potrà passare alla fase propositiva solo dopo tutti gli accertamenti di sicurezza e di convenienza. Anche nel caso in cui gli approfondimenti da parte dell’AID portino a riscontri complessivamente positivi, non è detto però che NAMSA giudichi accettabile la candidatura dell’Arsenale di Messina”.

Ancora tutto da decidere insomma sul futuro della struttura industriale militare peloritana, in crisi produttiva ed occupazionale da ormai lungo tempo. A volere la realizzazione nella centralissima zona falcata di Messina di un grande cimitero-pattumiera del naviglio da guerra NATO è soprattutto il direttore generale dell’Agenzia Industrie Difesa, Marco Airaghi, pure presidente della Consulta Nazionale per l’Aerospazio e vicepresidente dell’Agenzia Spaziale Italiana (ASI). “L’AID, avendo come compito istituzionale il conseguimento dell’autosufficienza economica delle unità produttive assegnate alla sua gestione deve necessariamente prendere in esame progetti di riconversione, totale o parziale, allo scopo di portare le attività a livelli sufficienti per il loro mantenimento in funzione”, spiega il ministro Di Paola. “La via della riconversione presenta le maggiori probabilità di conseguire un risultato positivo, in particolare, proprio per l’Arsenale militare di Messina, tenuto conto della profonda crisi del settore della cantieristica”. Per il cosiddetto progetto NAMSA saranno necessari investimenti per un importo di circa 25-30 milioni di euro, che consentiranno la costruzione all’interno dell’arsenale di “aree per l’accumulo di materiali da smaltire” e degli impianti necessari per la sicurezza ambientale.

Durante le operazioni di dismissione delle unità NATO i lavoratori opereranno a stretto contatto con innumerevoli agenti inquinanti, rifiuti tossici e speciali, ma ciò non sembra preoccupare le autorità di governo. “È opportuno precisare che lo smontaggio e lo smaltimento di navi militari radiate dal servizio, comporta operazioni su unità completamente scariche e asciutte, quindi con esclusione della presenza di prodotti chimici e di idrocarburi, e trattamenti secondo legge di taluni materiali di allestimento”, afferma Di Paola escludendo dunque i rischi di inquinamento ambientale. “Le modalità operative sono sostanzialmente riconducibili a quelle delle operazioni di raddobbo e di riparazione navale usualmente svolte dall’arsenale. Qualora si dovessero realizzare nuove opere, in particolare connesse ad attività concernenti la gestione di materiali pericolosi, è evidente che si dovrà acquisire il parere del comitato misto paritetico regionale costituito ai sensi del decreto legislativo n. 66 del 2010”. Strano gioco di parole quello del ministro: prima si esclude l’esistenza di prodotti inquinanti, poi invece si ipotizzano nuove infrastrutture per la loro gestione. Di Paola omette inoltre di rilevare che il comitato paritetico ha meri poteri consultivi sui “problemi connessi all’armonizzazione tra i piani di assetto territoriale e di sviluppo economico e sociale e i programmi delle installazioni militari”. Inoltre l’organo regionale non possiede alcuna competenza tecnico-scientifica per poter valutare i rischi per l’ambiente e la salute di eventuali nuove attività e impianti.

La versione ultratranquillizzante del ministro della Difesa sugli interventi di dismissione e smaltimento delle unità da guerra è smentita però dai contenuti di uno specifico studio della Commissione dell’Unione Europea risalente al maggio del 2007. Il Libro Verde - Per una migliore demolizione delle navi, presentato in vista della preparazione di una strategia comune “finalizzata alla tutela dell’ambiente e della salute umana” e alla “promozione di strutture di riciclaggio ecologiche”, si apre con l’affermazione che la demolizione è un’attività “pericolosa”. “Nell’epoca della globalizzazione, la demolizione delle navi è motivo di preoccupazione”, aggiunge il Libro Verde. “Per il momento è sostenibile sotto il profilo strettamente economico, ma presenta costi elevati per la salute umana e per l’ambiente. Occorre dunque al più presto un cambiamento radicale”.

Bruxelles ha stimato che nei dieci anni successivi alla pubblicazione del Libro Verde saranno smantellate circa 100 tra navi da guerra e altre unità battenti bandiera di uno Stato dell’UE, “soprattutto francesi e britanniche”. Si tratta in buona parte d’imbarcazioni militari costruite tra gli anni ‘60 e i primi anni ’80, con quantitativi “relativamente elevati” di materiali pericolosi. “Con le navi destinate alla rottamazione tra il 2006 e il 2015, si prevede che nei cantieri di demolizione confluiranno circa 5,5 milioni di tonnellate di materiali potenzialmente rischiosi per l’ambiente, in particolare morchie, oli, vernici, metalli pesanti, PVC, PCB (bifenili policlorurati) e amianto”, aggiunge lo studio UE. Sempre secondo la Commissione, le morchie derivanti dalle navi da rottamare inciderebbero annualmente per 400.000-1.300.000 tonnellate, l’amianto per 1.000-3.000 tonnellate, il tributilstagno (TBT) per 170-540 tonnellate, le “vernici nocive” per 6.000-20.000 tonnellate.

La lettura del Libro Verde dell’Unione Europea pone inoltre serissimi interrogativi sulla reale sostenibilità economica-finanziaria del progetto NAMSA per l’Arsenale di Messina. La domanda internazionale di dismissione di unità navali non coprirebbe infatti minimante l’offerta d’intervento a basso impatto ambientale da parte dei numerosissimi cantieri e arsenali navali già esistenti in ambito UE o nei principali paesi partner. “La capacità oggi esistente di demolizione ecologica delle navi all’interno dell’UE e in Turchia (paese membro dell’OCSE dove è possibile esportare anche rifiuti pericolosi e dove sono presenti sul litorale di Aliaga, vicino Smirne, circa 20 cantieri di demolizione con una capacità complessiva di quasi 1 milione di tonnellate l’anno) è sufficiente per le navi da guerra e le altre imbarcazioni di Stato che saranno smantellate nei prossimi dieci anni, un centinaio circa, con una capacità di oltre 1.000 ldt, per una stazza complessiva di 500.000 ldt”, afferma Bruxelles. Se poi si guarda a livello mondiale, la capacità di riciclare le navi nel rispetto delle norme di tutela ambientale e di sicurezza viene stimata in 2 milioni di ldt/anno, come dire quattro volte in più della domanda europea per dieci anni.

A complicare il quadro subentrano però alcuni degli effetti più negativi del mercato globale di matrice neoliberista. I costi nettamente più bassi offerti dai cantieri navali proliferati soprattutto in Asia meridionale hanno infatti reso sempre meno utilizzati e concorrenziali gli impianti ecologici o ammodernati degli Stati membri dell’Unione. “Viste le attuali condizioni di mercato, per gli operatori dell’UE è impossibile competere con quelli dell’Asia meridionale”, annota il Libro Verde. Attualmente oltre i due terzi delle imbarcazioni navali sono demoliti sui litorali e sulle rive dei fiumi di Bangladesh ed India. In questi paesi i lavoratori guadagnano appena 1-2 dollari al giorno, una cifra irrisoria se paragonata a quanto versato ad un operaio nei Paesi Bassi (250 dollari) o nella più “economica” Bulgaria (13). Ancora più infime le spese che i datori di lavoro devono sostenere per la salute e la sicurezza negli impianti industriali asiatici. “Nessuno dei siti impiegati per smantellare le navi nel subcontinente indiano è dotato di sistemi di contenimento per impedire l’inquinamento del suolo e delle acque, solo pochi dispongono di strutture per il conferimento dei rifiuti e il loro trattamento è raramente conforme anche a norme ambientali minime”, denuncia la Commissione europea. Di conseguenza le condizioni di sicurezza e salute all’interno di questi cantieri di demolizione sono ipercritiche. I dati ufficiali riportano che nel più grande sito di rottamazione indiano, Alang, tra il 1996 e il 2003 si sono verificati 434 incidenti con la morte di 209 persone. In Bangladesh negli ultimi 20 anni sarebbero rimasti uccisi invece più di 400 lavoratori e gravemente feriti 6.000 circa.

“A questi dati vanno aggiunte le migliaia di persone che contraggono malattie irreversibili perché entrano in contatto o inalano sostanze tossiche senza la minima precauzione o protezione”, aggiunge il Libro Verde. “Secondo un rapporto medico presentato alla Corte suprema dell’India nel settembre del 2006, il 16% della manodopera che manipola amianto ad Alang risultava affetto da asbestosi e correva dunque un rischio elevato di contrarre il mesotelioma”, una forma di tumore al polmone che raggiunge il picco di incidenza solo vari decenni dopo l’esposizione.
“Finché non ci sarà parità di condizioni sotto forma di norme obbligatorie efficaci e valide per le attività di demolizione delle navi a livello mondiale, gli impianti europei avranno sempre difficoltà a competere sul mercato e i proprietari delle navi tenderanno sempre a dirigere le loro navi verso siti asiatici che non soddisfano gli standard minimi”, conclude l’UE. Appare dunque impossibile che l’Alleanza Atlantica, guardiano armato del capitale finanziario globale, possa assumere comportamenti diversi. E comunque se pure non volesse scegliere l’India o il Bangladesh per rottamare fregate e sommergibili, sono già belli e funzionanti i centri navali della Turchia, pedina chiave NATO per il controllo del Mediterraneo e del Medio oriente. Perché allora il governo d’Italia si ostina a candidare l’obsoleto Arsenale di Messina impedendone nei fatti la conversione a bene comune?

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