L’assalto di ferro e carbone alle rotte fluviali d’America Latina
Futuro a ferro e carbone per la Repubblica Orientale d’Uruguay.
È ai nastri di partenza uno dei più devastanti progetti previsti per il Cono Sud dell’America Latina: il trasporto di decine di milioni di tonnellate di minerali di ferro, carbone e acciaio su una rotta fluviale di oltre
L’impianto, per la cui costruzione saranno spesi 320 milioni di dollari, sorgerà sulle spiagge del Rio Uruguay, a 260 km circa dalla capitale Montevideo. A La Agraciada sarà depositato in via transitoria il ferro proveniente dalla miniera che la stessa Río Tinto possiede nella città brasiliana di Corumbá, Mato Grosso del Sud. Il materiale ferroso arriverà in Uruguay su speciali chiatte che partiranno da un altro terminal portuale che la Río Tinto sta realizzando ad Albuquerque, cittadina del Mato Grosso a circa 30 km dalle miniere di ferro. Le chiatte attraverseranno i fiumi Paraná, Paraguay ed Uruguay; successivamente il ferro sarà caricato su imbarcazioni di dimensioni più grandi che raggiungeranno le acque internazionali del Río de La Plata. Qui avverrà un ultimo trasferimento dei materiali a bordo di navi transoceaniche dirette in Europa, Cina e India.
Nel nuovo complesso portuale di La Agraciada sorgeranno pure le aree per lo stoccaggio dell’acciaio prodotto dal polo siderurgico che la Río Tinto possiede nei pressi della località mineraria di Corumbá e che sarà poi inviato ai mercati argentino, europeo e mediorientale. Il nuovo terminal uruguaiano funzionerà infine per le operazioni di carico e scarico del carbone prodotto nelle miniere australiane e sudafricane e destinato alle acciaierie brasiliane della transnazionale. In quest’ultimo caso si invertiranno le rotte e i mezzi di trasporto: grandi navi carboniere dall’Oceano Pacifico al Río de La Plata e al Río Uruguay; le imbarcazioni-chiatte sui fiumi Uruguay, Paraguay e Paraná, secondo un modello di produzione “globale” dagli insostenibili costi economici, sociali e ambientali.
Le quantità di minerali che si conta di movimentare tra il Brasile e l’Uruguay sono gigantesche. Attualmente si estraggono dalle miniere a cielo aperto di Corumbá, 2 milioni di tonnellate di minerale di ferro all’anno, ma grazie ad un’operazione finanziaria di circa 2,15 miliardi di dollari, la Río Tinto prevede di estrarre e trasportare, via fiumi, 10 milioni di tonnellate entro il 2010. Nei cinque anni successivi, si punterà al trasporto di 23,2 milioni di tonnellate di prodotto, valore undici volte superiore a quello odierno. Più incerta invece la quantità di carbone che dall’Uruguay risalirà sino a Corumbá. Si sa solo che la società anglo-canadese sta investendo un miliardo di dollari per il potenziamento del polo siderurgico in Mato Grosso e che l’intera produzione verterà sulla combustione di carbon fossile.
I deficit socio-ambientali di un Paese governato dal centrosinistra
In attesa dell’avvio dei lavori, la Río Tinto ha acquistato da privati 267 ettari di terreno ricadenti in buona parte nella frangia fluviale del dipartimento di Soriano, spendendo una cifra pari a 1,3 milioni di dollari. Nel luglio 2008, la società ha pure acquistato altri 80 ettari di proprietà dell’Istituto Nazionale della Colonizzazione, ente pubblico uruguaiano, previa autorizzazione del governo del Frente Amplio (centrosinistra), guidato dal medico Tabaré Vasquez. Dubbi di incostituzionalità sono stati sollevati dall’opposizione sull’atto di alienazione di una proprietà statale, in un’area di frontiera, a favore di un’impresa privata straniera. Altrettanto giustificati i rilievi di alcune organizzazioni ambientaliste argentine (quelle uruguaiane, purtroppo, sono debolissime e demonizzate da partiti e mass media), su un megaprogetto, fortemente impattante, implementato senza aver previamente investito la Commissione Amministratrice del Río Uruguay, l’entità che regola le attività di maggiore incidenza sul fiume-frontiera tra Argentina e Uruguay.
Si è ripetuto, nel caso del progetto di La Agraciada, quanto accaduto qualche anno fa per la realizzazione del complesso di produzione di polpa di cellulosa “Botnia” a Frey Bentos, altra opera eco-impattante caldeggiata dall’esecutivo del Frente Amplio. Ad essa si affiancherà presto una seconda cartiera prospiciente le acque del Río Uruguay, in località Conchillas, a meno di 40 chilometri dal nuovo terminal ferro-carbonifero. Senza contare che la produzione della carta ha avuto l’effetto di generare una catena socioeconomica perversa, segnata dalla trasformazione di milioni di ettari di campagne in monocolture di eucalipti e pini, alberi non autoctoni. Secondo quanto rilevato dal ricercatore italiano Antonio Graziano, “ciò ha comportato nel paese, la sostituzione di un modello con produzione di basso valore aggregato, l’allevamento di bovini per la carne, con un altro ugualmente a basso valore aggregato”. “La produzione di carta – aggiunge Graziano - porta con sé i rischi di depauperamento delle risorse idriche, riduzione della biodiversità, perdita di colture tradizionali, trasformazione del paesaggio rurale, spopolamento della campagna a favore della creazione di “cittadine” forestali, alterazione dei ritmi del lavoro e sfruttamento di manodopera. Un modello di produzione che ha accelerato i processi di concentrazione della proprietà della terra nelle mani del capitale straniero”.
Per la transnazionale l’impatto è quasi pari a zero
A metà novembre è arrivato il parere favorevole della Direzione Nazionale di Idrografia sulla concessione alla Río Tinto dello sfruttamento dell’alveo fluviale di La Agraciada. Perché i lavori di costruzione possano iniziare, manca solo il parere della Direzione Nazionale del Ministero dell’Ambiente (Dinama), atteso entro la fine del 2008. Nonostante il fortissimo impatto sull’intero ecosistema del dipartimento di Soriano (territorio con notevoli potenzialità ecoturistiche), che si genererà con la costruzione e il funzionamento del porto-terminal, nessuno studio d’impatto ambientale è stato predisposto autonomamente da Dinama o dalle autorità locali. Gli unici documenti prodotti sino ad oggi sono gli “studi previi” sull’area di stoccaggio ferro-carbone a La Agraciada, su un altro impianto d’immagazzinamento presso la Zona Franca di Nueva Palmira (Colonia) e sulle operazioni di “transhipment” dei minerali in alto mare, eseguiti dalla società Gea Consultores Ambientales SA di Montevideo per conto della Río Tinto.
Secondo il progetto esecutivo, sul fiume Uruguay sorgeranno un ponte, un enorme molo a forma di T per l’attracco delle chiatte e delle piccole imbarcazioni, più i tralicci per reggere un nastro trasportatore di circa 900 metri di lunghezza (altri 1.100 metri di nastro passeranno sulla terra ferma). Sarà inoltre necessario dragare il vicino canale Martín García, modificare l’alveo e le spiagge limitrofe, sbancare le aree collinari, movimentare tonnellate di materiali di risulta e di costruzione, installare accampamenti, officine e magazzini. Buona parte delle infrastrutture sorgeranno nei pressi del delta del torrente Agraciada, un’area in cui vivono numerose specie di uccelli e di fauna terrestre protette.
Ciononostante la società di consulenza giudica comunque “sostenibili” questi interventi, grazie ad alcuni “correttivi” proposti alla società committente. Nel corso di un’audizione pubblica, il biologo di Gea Consultores, Aramís Latchinian (ex direttore Dinama durante una parte dell’ex governo di Jorge Batlle e odierno membro del consiglio d’amministrazione di ANCAP, la società petrolifera statale uruguaiana), ha riconosciuto che le modificazioni del territorio “post opera” saranno “significative” anche se le “emissioni di materiali e polveri nell’aria dei minerali ferrosi sarà minimo”. “Quando sarà utilizzato il carbone ci sarà la dispersione nell’atmosfera delle sue polveri”, ha aggiunto Latchinian. “Ci saranno poi gli effluenti liquidi, in buona parte derivati dal lavaggio dei materiali e la produzione di residui solidi industriali. Ma questi problemi ambientali potranno essere risolti con corrette misure di gestione”.
Eppure il polo minerario e siderurgico di Corumbá inquina…
Una visione “minimista” quella della consulting “ambientale” che focalizza la propria valutazione solo su alcuni elementi d’impatto e che si scontra con quanto invece accade nell’impianto “madre” in Brasile. I dati forniti dal “Rapporto sullo Sviluppo Sostenibile 2007” pubblicato dalla transnazionale Río Tinto, registrano che negli ultimi tre anni a Corumbá è aumentato esponenzialmente la quantità di gas con effetto serra emesso nell’atmosfera. Per ogni milione di tonnellata di acciaio prodotto, si è passati da 6,29 tonnellate di CO2 nel 2005 a 7,11 nel 2007. A ciò si aggiunge l’emissione di 31,04 tonnellate di CO2 durante le operazioni di trasporto dei materiali per via fluviale.
Ancora più rilevante la crescita delle emissioni di anidride solforosa nelle attività di trasporto terrestre e marittimo, dove complessivamente sono stati emessi 31,42 kg di SO2 per ogni milione di tonnellata di acciaio. Da rilevare a proposito che dal 2006 gli impianti di Curumbá hanno subito una riduzione della produzione, principalmente per le difficoltà di transito delle unità trasportatrici sul Río Paraguay, a seguito della lunga siccità che ha colpito la regione.
Il polo siderurgico è poi un superdivoratore di energia: nel 2007 sono stati consumati 11,26 tonnellate di carburanti per ogni 1.000 tonnellate di acciaio prodotto (il dato comprende il costo energetico per il trasporto fluviale). C’è poi il capitolo relativo alla generazione di rifiuti “pericolosi” (principalmente oli, grassi, batterie, ecc.) e “non pericolosi” (materiali riciclabili o di origine organica). Stando sempre ai dati forniti dalla Río Tinto, nel complesso di Curumbá sono stati prodotti, solo lo scorso anno, 144,7 tonnellate di rifiuti “pericolosi” e 148,6 tonnellate di rifiuti “non pericolosi”, a cui si aggiungono le 223,56 tonnellate di rifiuti “pericolosi” e le 16,6 tonnellate di “materiale organico” prodotto durante la navigazione sui fiumi Paraná, Paraguay e Uruguay. La stessa transnazionale riconosce poi che la stramaggioranza dei lavoratori sono esposti durante la loro giornata di lavoro a rumori superiori agli 85 decibel.
Ancora più scoraggiante il quadro sugli effettivi risultati delle azioni intraprese dalla società anglo-canadese per mitigare l’impatto ambientale delle attività produttive del polo siderurgico-minerario brasiliano. Del tutto fallimentari le misure relative alla riduzione dei “rifiuti pericolosi”, cresciuti invece del 400% solo negli ultimi due anni. Si era previsto pure di ridurre la quantità di acqua destinata agli altiforni e al lavaggio dei minerali di ferro e dell’acciaio, calcolata in 1.600 milioni di metri cubi l’anno. Il target per il 2007 era di 0,86 metri cubi d’acqua per tonnellata di acciaio, ma alla fine dell’anno la Río Tinto ha registrato il consumo di 0.96 metri cubi. Attualmente solo il 59,4% dell’acqua è riutilizzata a Curumbá. Il resto proviene da numerosi pozzi scavati in profondità del “Piraputangas Creek”, che hanno fortemente ridotto l’approvvigionamento idrico degli abitanti della regione.
Per garantire entro i prossimi sette-otto anni una crescita di 11 volte della produzione di minerali ed acciaio, la transnazionale ha deciso di pompare direttamente l’acqua dal Río Paraguay e di dirigerla agli impianti attraverso un nuovo acquedotto. Una misura che inciderà profondamente sulla portata dell’importante sistema fluviale e, di conseguenza, sul fragilissimo complesso delle risorse idriche del Sud del Brasile e dei paesi confinanti del Cono Sud.
Voglia di nucleare e violazione dei diritti umani
La presenza di Río Tinto in Mato Grosso è realizzata tramite la controllata Mineração Corumbaense Reunida (MCR), società che ha svolto una potente azione di lobbing tra i politici più influenti della zona. Il piano d’investimenti per l’espansione degli impianti di Corumbá è stato pure uno dei temi del vertice anglo-brasiliano del gennaio 2006, quando l’allora primo ministro Tony Blair incontrò a Londra il presidente Luiz Inácio Lula da Silva. Sempre in Brasile, nello Stato di Minas Gerais, la Río Tinto controlla il 51% della “Rio Paracatu Mineracao SA”, società proprietaria di un altro complesso minerario. Altra importante miniera di sali di potassio è posseduta nella vicina Argentina (Potasio Río Colorado), nella zona limitrofa alle province di Mendoza e Neuquén. Sempre in Argentina, la Río Tinto controlla il centro di stoccaggio e imbarco di materiali ferrosi di San Nicolás, città portuale sul Paraná. È qui attualmente fanno scalo le imbarcazioni che trasportano i minerali e l’acciaio di Corumbá. La realizzazione del terminal uruguaiano di La Agraciada non comporterà comunque la chiusura di San Nicolás, in quanto presso la zona portuale opera un’altra industria siderurgica che continuerà a funzionare con il ferro di origine brasiliano.
La Río Tinto non produce solo carbone, ferro ed acciaio. Grazie alla recente acquisizione della canadese Alcan, la transnazionale si è trasformata nella principale produttrice di alluminio al mondo. Un ruolo chiave è ricoperto pure nel settore dell’estrazione di oro, diamanti, rame, boro, titanio e, soprattutto, uranio, destinato interamente all’alimentazione di centrali e alla produzione di armi nucleari. Le riserve uranifere di Río Tinto sono valutate in 6 miliardi di dollari e provengono quasi per intero dai due centri minerari di “Ranger”, nei pressi del Parco Nazionale di Kakadu in Australia, e “Rossing”, Namibia.
A seguito del rilancio internazionale dei programmi atomici, la transnazionale ha deciso d’investire 36 miliardi di dollari per l’espansione dell’attività estrattiva in Australia, affidando il trasporto dell’uranio alla statunitense “Halliburton”, contractor di fiducia delle forze armate USA in Iraq ed Afghanistan.
Alla caduta d’immagine di Río Tinto non concorre solo la produzione a favore di micidiali strumenti di morte. La società è stata più volte denunciata per aver depredato le risorse naturali, devastato l’ambiente e violato i diritti umani. Il Fondo pensione Statale della Norvegia ha deciso di escludere Río Tinto dal proprio portafoglio d’investimenti a seguito degli effetti devastanti delle attività della miniera d’oro “Grandsberg” sulle comunità indigene Amungme e Kamoro di Papua, Indonesia. “Grandsberg” è la più grande miniera d’oro del mondo e annualmente scarica circa 230 mila tonnellate di rifiuti direttamente nel fiume Akywa, contaminandone irrimediabilmente le acque. I rifiuti soffocano anche la vegetazione causando la morte di alberi e palme da sago, alimento fondamentale per la tribù locali. Militari dell’esercito indonesiano, pagati dalla transnazionale per “proteggere” gli impianti, sarebbero stati pure responsabili di omicidi e torture di appartenenti alle comunità indigene.
Articolo pubblicato in Agoravox.it il 20 novembre 2008
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