La pirateria “somala”

Per Washington, Nazioni unite, Nato e Unione europea la pirateria è una dei principali nemici per la sicurezza e la libertà dei commerci, pericolosa quanto il “terrorismo islamico”, al punto che, per impedire i sequestri dei mercantili e delle petroliere, nelle acque del Corno d’Africa sono state dislocate oltre 50 unità navali dotate dei più sofisticati sistemi di guerra.

L’assalto alle imbarcazioni non è un fenomeno esclusivo delle coste somale, tutt’altro. Ci sono mari e regioni fluviali dove la pirateria è fenomeno antico e fortemente strutturato (l’arcipelago indonesiano, il delta del Niger, le foci del rio delle Amazzoni ecc.), ma gli interessi dominanti delle grandi compagnie di navigazione e dei Lloyds assicurativi hanno spostato l’attenzione mediatica quasi esclusivamente all’area marittima compresa tra il Mar Rosso e il Golfo persico. Ciononostante la cosiddetta “pirateria somala” (espressione del tutto impropria dato che la nazionalità dei sequestratori è molto più articolata) è scarsamente conosciuta e non esistono analisi sulle sue cause socio-economiche. A ciò si aggiunge l’inaffidabilità dei dati sui sequestri realmente realizzati: i data base in possesso dell’International Maritime Organization (Imo) e dell’International Maritime Bureau (Imb), gli unici due organismi che effettuano monitoraggi “costanti” sugli assalti, divergono enormemente tra loro, rendendo ancora più ardua la comprensione della reale portata del fenomeno. Dobbiamo così attenerci a dati “ufficiali” del Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite, che contro la pirateria in Corno d’Africa ha votato tre risoluzioni di condanna nel solo 2008, autorizzando perfino gli stati membri a usare la forza contro i presunti responsabili anche in pieno territorio somalo.

UN BUSINESS IN CRESCITA
Secondo l’Onu nei primi nove mesi del 2008 si sono verificati 199 episodi di pirateria marittima, di cui 60 nel solo Golfo di Aden. In quest’ultima regione, dove transitano sino a 30.000 navi mercantili all’anno, gli assalti sono iniziati solo recentemente: nel 2004 sono stati registrati appena 2 sequestri, 35 l’anno successivo. Per i riscatti, le compagnie di navigazione verserebbero ai sequestratori una media di 20 milioni di euro per nave. Un business che frutterebbe pertanto 1.200-1.500 milioni di euro all’anno.
Sempre secondo un calcolo delle Nazioni unite, il numero di pirati “somali” è passato da una cinquantina di “addetti” nel 2006 a 1.500 alla fine dello scorso anno. Essi sarebbero “ben organizzati e ben addestrati”, indosserebbero divise militari, sarebbero “armati con lancia-razzi portatili anticarro, lanciagranate e ogni sorta di armi automatiche”, si avvarrebbero di “telefoni satellitari e sistema di posizionamento Gps in grado di determinare la posizione geografica, piccoli radar, binocoli potentissimi ecc.”. Secondo Matt Brydan, coordinatore del gruppo nominato dal Consiglio di sicurezza per monitorare le violazioni dell’embargo sulle armi in Somalia, i pirati, sarebbero organizzati alla stregua di una holding privata: “Ci sono i finanziatori, con una strategia militare e una pianificazione, e gli sponsor, che procurano le barche veloci, il carburante, le armi e le munizioni, i sistemi di comunicazione e i salari (…) Possono contare su spie dislocate nei maggiori porti limitrofi” (“Corriere della Sera”, 25-1-2009). I pirati “somali” godrebbero inoltre dell’appoggio di un certo numero di espatriati e al loro addestramento parteciperebbero istruttori provenienti da Bangladesh, Yemen e Indonesia.
Una descrizione del tutto differente da quanto è stato mostrato a fine febbraio dalla US Navy in occasione della cattura di 7 presunti sequestratori del mercantile “Polaris”, battente bandiere delle Isole Marshall, l’11 febbraio 2009. I “pirati” erano a bordo di una piccola imbarcazione a motore, apparivano denutriti e mal vestiti e le uniche armi trovate a bordo sarebbero state un paio di vecchi kalashnikov e qualche coltello da pesca. Stando al racconto dei marinai del mercantile che aveva richiesto il soccorso dell’US Navy, essi avevano tentato l’abbordaggio con una scaletta di legno.

PIRATERIA E TERRORISMO
Ma torniamo al rapporto presentato al Consiglio di sicurezza. Stando ai suoi estensori, esisterebbero attualmente in Somalia due grandi gruppi dediti alla pirateria. Il primo opererebbe nella regione nord-orientale di Puntland, con base primaria a Eyl, “distretto abitato dagli Issa Mohamud, sottoclan della grande tribù dei migiurtini”, e i porti di Bosaso, Ras Alula, Ras Hafun, Bayala, Qandala, Bargal e Garad. Il secondo gruppo opererebbe più a sud, da Harardhere fino a Chisimaio. Per Bruno Schiemsky, altro ricercatore che per conto delle Nazioni Unite ha studiato la pirateria, quest’ultima organizzazione “sta stringendo un’alleanza con i gruppi fondamentalisti islamici al-Shabab”, organizzazione che ormai controlla buona parte del territorio somalo e che compare nella lista nera delle potenze occidentali perché considerata “vicina” ad al Qaeda.
La presunta equazione “pirati = forze insorgenti = Al Qaeda” non è però condivisa all’interno delle forze armate Usa. Innanzitutto non ci sarebbero prove certe di legami tra le bande che assaltano le navi e gli al-Shabab. Inoltre, il generale William “Kip” Ward, comandante di Africom, a fine novembre ha dichiarato alla stampa che “l’eventuale” relazione dei pirati con Al Qaida è “una preoccupazione condivisa da tutti, ma della quale non vi è alcuna prova”. All’Advanced research workshop, indetto dalla Nato a Lisbona nel maggio 2008 per analizzare il possibile rapporto tra la pirateria e il “terrorismo marittimo”, i partecipanti si sono dichiarati scettici sull’esistenza di legami tra i moderni pirati, il crimine internazionale organizzato e i gruppi terroristici.
A sposare la tesi di un’organizzazione fortemente centralizzata nella gestione degli assalti alla navigazione, sono invece alcuni organi di stampa. Secondo il quotidiano londinese in lingua araba “Al-Sharq al-Awsat”, “l’attività della pirateria somala ha  subìto una rivoluzione logistica fondamentale; si è costituita una “cupola” organizzativa, atta a coordinare le attività di pirateria per aumentare la forza e l’intensità degli attacchi alle navi che transitano nel Mar Rosso”. Per l’organo di stampa esisterebbe un comitato direttivo “composto da otto elementi, ognuno dei quali fa capo a un gruppo; ognuno di questi gruppi è composto da 300 miliziani circa”. Un organigramma che sarebbe similare alla “struttura mafiosa delle organizzazioni criminali siciliane”.
Un rapporto dell’unità contro-terrorismo del comando della 5ª Flotta US Navy con sede in Bahrein sosterrebbe pure che i pirati somali si “appoggiano su una rete logistica, finanziaria e d’intelligence presente in Golfo persico, Africa orientale ed Europa”. A capo delle operazioni di riciclaggio del denaro proveniente dai sequestri ci sarebbe una specie di “ufficio centrale” con sede ad Abu Dhabi e “agenzie” a Mombasa (Kenya), Pireo (Grecia), Rotterdam (Olanda) e Napoli (Italia). In queste città portuali, “agenti coperti” seguirebbero le attività delle agenzie di navigazione, per poi informare i pirati sul valore del carico dei mercantili diretti nel Golfo di Aden e nel Mar Rosso. Se è veritiero questo scenario, perché allora è stata privilegiata solo l’azione militare in Somalia contro il segmento più debole della catena criminale e non sono state avviate accurate indagini sulle “teste di ponte” finanziarie?

TASK FORCE NATO E NON SOLO
Nel dare priorità a quella che è ormai una guerra a tutti gli effetti l’amministrazione statunitense ha affidato le operazioni antipirateria alla Combinated Task Force 151 (CTF-151), una forza navale “multinazionale”, giuridicamente dipendente dalla 5ª Flotta Usa. Alla task force collaborano 14 nazioni di Africa, Asia e Nord America (tra esse Canada, India, Kenya, Malesia, Singapore, Turchia), più la flotta navale dell’Unione europea Eu Navfor, giunta nelle acque del Corno d’Africa nel dicembre 2008. A marzo giungeranno pure sei unità militari battenti bandiera Nato.
Una missione analoga era stata effettuata dal 24 ottobre al 12 dicembre 2008 e aveva sancito l’ennesimo salto di qualità negli interventi di pronto intervento e in scala planetaria dell’Alleanza atlantica. Alla task force Nato impegnata nel pattugliamento delle acque somale aveva partecipato allora il cacciatorpediniere italiano Durand de la Penne. E italiano era pure il comandante della flotta, l’ammiraglio Giovanni Gumiero.
“Stiamo inoltre cooperando con le marine di Pakistan e Australia”, ha dichiarato l’ammiraglio Terry McKnight, che comanda la CTF-151. “L’Arabia saudita partecipa con noi all’organizzazione di questo impegno antipirateria. Stiamo equipaggiando e addestrando gli Emirati arabi uniti perché inviino navi a operare con o dentro la CTF-151. Ci sono poi paesi che si sono attivati autonomamente, come Cina e Russia. Gli Stati uniti stanno comunicando con la Cina attraverso e-mail in codice e con le unità russe grazie a un ponte radio diretto”. Alla straordinaria potenza di fuoco schierata contro i non oltre 1.000-1.500 pirati somali dovrebbero presto aggiungersi alcune unità da guerra di Giappone e Svizzera.
Anche l’Iran ha inviato due unità nel Golfo di Aden, creando più di un disappunto tra i comandi Usa, anche perché uno degli scopi paralleli della task force “multinazionale” è quello di impedire il possibile trasferimento di armi iraniane al movimento di Hamas nella Striscia di Gaza. Il Pentagono ha ripetutamente accusato i Guardiani della rivoluzione di Teheran di rifornire di armi il gruppo islamico palestinese. I rischi di un possibile confronto aperto Usa-Iran nelle acque somale sono reali.
La lotta alla pirateria apre scenari altrettanto gravi anche in materia di diritto internazionale e di violazione dei diritti umani. La nave munizioni USS Lewis and Clark, facente parte della CTF-151, è stata trasformata in una vera e propria Guantanamo galleggiante per la detenzione dei sospettati di atti di pirateria. Nelle anguste celle ricavate nelle stive della Lewis and Clark sono detenuti attualmente una ventina di somali che rischiano la deportazione in Kenya. Un memorandum, sottoscritto a gennaio dal Dipartimento di stato con le autorità keniane, prevede che le persone catturate siano processate nel paese africano, ma al vaglio dell’amministrazione Usa ci sarebbe pure la possibilità di consegnare i prigionieri agli stati a cui appartengono i mercantili attaccati. Aberrazioni giuridiche che segnano il battesimo di una nuova stagione di “extraordinary renditions”, più sofisticata e ancora meno visibile di quella avviata dall’amministrazione Bush dopo l’11 settembre 2001. E congiuntamente ai carceri galleggianti, Stati uniti, Nato e partner internazionali stanno pure sperimentando nuove tecnologie applicate ai sistemi di guerra (velivoli senza pilota, sofisticati sistemi di sorveglianza navale, misteriose “armi non letali” ecc.),  trasformando così la crociata per la “libertà dei mari” in una grande fiera mondiale del complesso militare industriale.     

ARRIVANO I CONTRACTOR
Nonostante l’incomparabile struttura militare schierata in Somalia, gli strateghi di guerra Usa hanno richiesto alle compagnie di navigazione commerciale e croceristiche di collaborare direttamente contro la pirateria, adottando “misure minime d’intelligence e prevenzione”, quali l’uso di “tecnologie non letali come sistemi di sorveglianza e allarme, sistemi antiabbordaggio come cannoni ad acqua e fili elettrici, apparecchiature acustiche che generano rumori dolorosi a lungo raggio”. Il Pentagono ritiene che le compagnie potrebbero risolvere molti dei loro problemi con i pirati, se assumessero guardie “leggermente” armate a difesa di merci e petrolio.
I suggerimenti sono stati seguiti dalle maggiori compagnie di sicurezza privata. Appena qualche giorno dopo l’insediamento a Stoccarda (Germania) del quartier generale di Africom (1 ottobre 2008), la famigerata “Blackwater Worldwide”, protagonista del massacro di 17 civili a Baghdad nel settembre del 2007, ha offerto uomini e mezzi per assistere le società di navigazione in transito nel Golfo di Aden. In particolare la Bilackwater  ha acquistato una vecchia nave oceanografica, la McArthur, che ha poi ristrutturato e armato con cannoni navali ed elicotteri lanciamissili. Per la lotta ai pirati la Blackwater ha pure offerto piloti, sofisticate attrezzature tecnologiche, servizi di manutenzione, aerei da guerra e velivoli-spia senza pilota. Secondo la pagina web della corporation, è stato pure programmato l’acquisto di alcuni caccia brasiliani “Super Tucano”.
La Hollowpoint Protective Services, Mississippi, società emergente nel firmamento dei contractor Usa, punta a un ampio ventaglio di servizi, a partire da “analisi sui rischi e le potenzialità dei pirati”, l’“implementazione di piani per prevenire gli attacchi”, l’“addestramento del personale dalle compagnie di navigazione” e finanche la “conduzione di negoziati con i pirati per assicurare il rilascio delle navi e degli ostaggi sequestrati”.
Alla campagna mondiale contro la pirateria chiedono di partecipare, ovviamente, altri due colossi della sicurezza privata made in USA, la Halliburton Co. (di cui è azionista l’ex vicepresidente Richard Bruce “Dick” Cheney) e la DynCorp International, attive da alcuni anni nel caldissimo scenario geostrategico del Corno d’Africa.
Tra le società di sicurezza privata che hanno fiutato il business c’è pure la Security Consulting Group (Scg) di Roma, che ha aperto una filiale a Gibuti. “La nostra tecnica di difesa si basa sull’uso di armi non letali affidate a personale specializzato”, ha dichiarato l’amministratore delegato Carlo Biffani. La Scg promette miracoli con i “dissuasori acustici” da poco brevettati. “Agiscono fino a una distanza di 200 metri e colpiscono l’udito fino a far male”, aggiunge Biffani.
A un’entità di sicurezza privata italiana si è affidata la Nato per preparare l’unico evento di “studio” sino ad oggi realizzato sul fenomeno della pirateria marittima (l’Advanced research workshop di Lisbona). Si tratta di EuroCrime, un istituto con sede a Tavarnelle Val di Pesa (Firenze), impegnato principalmente a collaborare con alcuni comuni toscani nella predisposizione di “piani di sicurezza urbana” e nella formazione per le forze dell’ordine e le polizie private.
Dopo l’11 settembre l’affidamento delle missioni di guerra ai contractor è divenuto un elemento chiave degli interventi Usa e Nato in Africa e in Medio Oriente. In Iraq e Afghanistan si è già avuto modo di conoscerne le devastanti conseguenze; ignote quelle nel continente africano. Il giornalista Massimo Alberizzi, del “Corriere della Sera”, ha scritto il 28 gennaio 2009 di aver raccolto a Mombasa (Kenya) informazioni confidenziali sulla presenza di istruttori occidentali al servizio dei pirati somali. “Si tratta di impiegati delle società di sicurezza che erano state incaricate dal Governo federale di transizione somalo di proteggere le coste”, scrive Alberizzi. “Non sono stati mai pagati e così si sono riciclati loro stessi organizzando corsi di pirateria applicata. Per questo servizio sono stati pagati un milione di dollari”.
Dopo aver contribuito ad alimentare la criminalità locale, la comunità internazionale invia le flotte navali per debellarla.

Articolo pubblicato in Guerre & Pace, n. 153, aprile-maggio 2009

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