Perché all’Italia non interessa degli italiani assassinati dai droni
Vittime collaterali, inconsapevoli e innocenti, dell’ennesimo atto di una guerra unilaterale.
Niente più eserciti contro eserciti, solo killer-robot contro uomini, donne,
bambini. Il cooperante siciliano Giovanni Lo Porto, colpevolmente ignorato
dalla politica con la P maiuscola, dalle istituzioni e dall’intero Parlamento
italiano, è stato brutalmente assassinato in Pakistan in uno degli innumerevoli
bombardamenti scatenati dagli stormi di droni Usa. “Si è trattato di un tragico e fatale errore dei nostri alleati
americani, riconosciuto dal presidente Obama, ma la responsabilità della morte
di Lo Porto e di un secondo ostaggio, lo statunitense Warren Weinstein, è
integralmente dei terroristi, contro i quali confermiamo l’impegno dell’Italia”,
il liquidatorio commento del ministro degli Esteri Paolo Gentiloni. Nessuna
colpa dunque per gli agenti Cia che hanno ordinato l’attacco, nessuna
responsabilità politica per chi, a Washington - violando il diritto
internazionale - ha promosso e legittimato l’uso dei droni, in un’escalation
infernale verso la totale disumanizzazione dei conflitti.
I
raid Usa contro le presunte postazioni delle milizie filo-al Qaida al confine
con l’Afghanistan risalgono allo scorso mese di gennaio. Warren Weinstein,
originario di Rockville, Maryland, direttore per il Pakistan della J. E. Austin Associates, era stato rapito a Lahore nell’agosto
2011, qualche giorno prima di rientrare
negli Stati Uniti per la fine del contratto lavorativo con l’U.S. Agency for International Development.
Giovanni Lo Porto era stato rapito invece nel gennaio 2012 a Multan, nella
provincia centro-occidentale del Punjab,
dove lavorava per la ong tedesca “Welthungerhilfe” (Aiuto
alla fame nel mondo), impegnata nella ricostruzione della regione colpita
dalle inondazioni del 2011. Nel bombardamento
in cui ha trovato la morte il cooperante siciliano, sarebbe rimasto ucciso
anche un altro cittadino statunitense, Ahmed Farouq, ritenuto dalla Cia come uno
dei maggiori leader di al Qaida in Pakistan. Pochi giorni dopo, sempre con un
missile sganciato da un drone, è stato assassinato in Pakistan un terzo cittadino
statunitense, Adm Gadahn, indicato come uno dei “portavoce ufficiali” di al
Qaida. Secondo Washington, i militari Usa non erano a conoscenza dell’identità
degli “obiettivi” spiati dai droni. “Sebbene Farouq e Ghadahn fossero membri di
al Qaida, nessuno dei due è stato specificamente preso di mira, non avevamo
informazioni che indicassero la loro presenza nei siti delle operazioni”, ha
dichiarato il portavoce della Casa Bianca, Josh Earnest. “L’autorizzazione
al raid è stata data dopo centinaia di ore di sorveglianza; sulla base delle informazioni in nostro possesso, al momento
dell’attacco nel compound controllato c’erano solo quattro militanti di al Qaeda,
ma non ostaggi o civili pakistani”.
Il
20 gennaio 2015, una nota d’agenzia aveva rivelato che qualche giorno prima un
drone Usa aveva attaccato un compound nell’area di Shahi Khel, nel Waziristan
settentrionale, “causando la morte di almeno quattro persone”. La zona oggetto
dei raid era già stata bombardata dai velivoli senza pilota statunitensi un
anno prima; secondo Amnesty International, quegli attacchi nel Waziristan avevano
causato la morte di “numerose persone non legate ad alcun tipo di attività
terroristica”. Fonti dell’intelligence americana hanno confermato al New York Times che le operazioni dei droni-killer
al confine tra il Pakistan e l’Afghanistan del gennaio 2015 rientravano nella
categoria definita in ambito militare come signature
strikes, cioè quei raid che vengono attuati sulla base non di informazioni
certe sull’identità dei bersagli da colpire ma sulla base “del riscontro,
attraverso attività di ricognizione ed intercettazione, di modelli di comportamento che vengono ritenuti conformi a quelli di
una possibile organizzazione terroristica”. Cioè l’ordine a migliaia di
chilometri di distanza di un omicidio extragiudiziale, già di per sé
illegittimo e immorale, viene dato semplicemente sulla valutazione soggettiva
di meri elementi “comportamentali” della vittima-target e non certo sulla
raccolta di prove certe e inequivocabili sui suoi legami con il terrorismo
internazionale.
In Pakistan i signature
strikes della Cia (più di 400 solo nell’ultimo anno) hanno causato un
numero impressionante di vittime tra la popolazione civile, tra i 556 e 1.128 morti secondo diverse ong
internazionali, e ingentissimi danni ad abitazioni, scuole, ospedali.
I droni hanno sganciato missili teleguidati contro feste religiose, banchetti nuziali
e funerali, scambiando pacifici assembramenti di donne e bambini per campi
d’addestramento delle milizie anti-governative. Le stragi hanno prodotto un forte
risentimento tra la popolazione e le stesse autorità di governo pakistane. Già nell’ottobre 2012 l’allora ministro dell’Interno
Rehman Malik aveva denunciato che appena un 20% delle persone uccise nei raid Usa
erano militanti filotalebani o terroristi. Il 24 ottobre 2013, nel corso di un
faccia a faccia con il presidente Obama, il primo ministro Nawaz Sharif aveva
chiesto di porre fine agli attacchi di droni in territorio pakistano. Qualche
tempo dopo Washington si era impegnata a sospendere gli attacchi nel 2014, comunque
prima della data in cui si sarebbero dovute concludere le operazioni di guerra
in Afghanistan.
Oggi si scopre dal Wall
Street Journal che Barack Obama ha invece mentito deliberatamente al
governo pakistano e all’opinione pubblica internazionale. Mentre infatti
l’amministrazione Usa varava nel 2013 un regolamento più severo sull’impiego
dei droni onde ridurre il rischio di vittime “non combattenti”, secondo il
quotidiano economico “veniva approvata segretamente un’esenzione che ha
concesso alla Cia più flessibilità in Pakistan rispetto che in altri paesi per
attaccare militanti sospetti”. Sempre per il Wall Street Journal, “se l’esenzione non fosse stata in vigore per
il Pakistan, alla Cia avrebbero potuto essere richieste più informazioni d’intelligence
prima degli attacchi che hanno causato la morte di Warren Weinstein e Giovanni Lo
Porto”.
Predator
tricolore
Il drone-killer protagonista
delle sanguinose incursioni Usa nei principali scacchieri di guerra
internazionali (oltre al Pakistan, l’Afghanistan, lo Yemen, la Somalia, la regione
dei Grandi Laghi, il Mali, il Niger, la Libia, ecc.) è il Predator, armato con missili AGM-114 “Hellfire”, bombe a guida
laser Gbu-12 “Paveway II” e Gbu-38 “Jdam” (Joint
direct attack munition) a guida Gps. Nonostante sia dotato di
sofisticatissime tecnologie di telerilevamento, il Predator non è in grado di distinguere i “combattenti” nemici dalla
popolazione inerme. Pur essendo oggi tra i sistemi bellici più stigmatizzati
dalle organizzazioni non governative umanitarie e dallo stesso Consiglio per i
diritti umani delle Nazioni Unite, questi famigerati velivoli senza pilota sono
ospitati dall’autunno del 2012 nella stazione aeronavale siciliana di Sigonella,
sulla base di un’autorizzazione top secret del
Ministero della difesa italiano che consente alle forze armate Usa di impiegarli
nell’area nordafricana e nel Sahel.
Le
forze armate italiane sono inoltre le prime in tutta Europa ad aver acquistato
i Predator dall’industria
statunitense “General Atomics”. Sino ad oggi questi droni sono privi
d’armamento, ma si attende a breve l’autorizzazione del Congresso Usa per una loro
conversione in velivoli-killer automatizzati. Il governo italiano ha pure candidato
la base aerea di Amendola, Foggia, quale sede per la formazione dei militari europei
nella gestione degli aerei senza pilota. Proprio ad Amendola, l’1 marzo 2002 è stato costituito il 28°
Gruppo Velivoli Teleguidati per
condurre le operazioni aeree con i Predator.
Il
battesimo di fuoco dei droni “italiani” avvenne in Iraq nel gennaio 2005, nell’ambito
della missione “Antica Babilonia”. Nel maggio 2007 i Predator furono trasferiti pure nella base di Herat, sede del
Comando regionale interforze per le operazioni in Afghanistan, dove hanno continuato ad operare ininterrottamente
sino a qualche mese fa. Nel corso delle operazioni belliche contro
la Libia di Gheddafi della primavera-estate 2011, i velivoli a pilotaggio remoto schierati ad Amendola
ebbero un ruolo chiave nelle operazioni d’intelligence dell’Aeronautica
italiana e dei partner della coalizione internazionale a guida Usa, volando complessivamente
per più di 360 ore. Le ultime missioni all’estero risalgono allo scorso anno: due
velivoli-spia sono stati schierati a Gibuti (Corno d’Africa), nell’ambito della
missione antipirateria dell’Unione Europea “Atalanta”, mentre altri due Predator sono stati trasferiti nello
scalo aereo di Kuwait City per operare a favore della coalizione internazionale
anti-Isis in Iraq e Siria. Attualmente i velivoli
senza pilota del 28° Gruppo di Amendola sono operativi in Kosovo a sostegno
delle attività della forza militare internazionale a guida Nato (Kfor).
Per
la loro flessibilità d’impiego, i Predator
dell’Aeronautica italiana sono utilizzati pure in funzioni d’ordine pubblico,
per il controllo delle frontiere e nelle controverse operazioni di “sorveglianza”
delle imbarcazioni di migranti e richiedenti asilo nel Mediterraneo centrale
(le ultime, in ordine cronologico, Mare Nostrum e Triton). L’“accordo tecnico” di cooperazione bilaterale Italia-Libia
sottoscritto il 28 novembre 2013 dai ministri della difesa Mario Mauro e Abdullah Al-Thinni ha autorizzato l’impiego
di mezzi aerei italiani a pilotaggio remoto in missioni a supporto delle
autorità libiche per il “controllo” del confine meridionale del Paese. Grazie ai Predator,
gli automezzi dei migranti possono essere intercettati quanto attraversano il
Sahara, consentendo ai militari libici d’intervenire tempestivamente per
detenerli in campi-lager o deportarli prima che essi possano raggiungere le
città costiere. Nei giorni scorsi, tra le proposte più drastiche per “contenere”
i flussi migratori nel Mediterraneo c’è stata quella dell’ex generale
dell’Aeronautica Leonardo Tricarico, presidente della Fondazione ICSA: “impiegare
i droni per distruggere i barconi nei porti libici”.
In Sicilia la capitale mondiale dei droni
Nel
campo dei droni, l’Italia si è già conquistata una leadership in ambito internazionale.
Nei piani delle forze armate Usa e Nato la base siciliana di Sigonella è stata prescelta
infatti per fare da vera e propria capitale
mondiale dei droni, cioè in centro d’eccellenza per il comando, il
controllo, la manutenzione delle flotte di velivoli senza pilota chiamati a
condurre i futuri conflitti globali. Oltre ai Predator, dall’ottobre 2010 Sigonella ospita anche tre o quattro
aeromobili teleguidati da osservazione e sorveglianza RQ-4B Global Hawk dell’US Air Force. Lunghi
14,5 metri e con un’apertura alare di 40, questi droni possono volare in
qualsiasi condizione meteorologica per 32 ore sino a 18,3 km d’altezza e a migliaia di km dalla loro base operativa. Alla
iperdronizzazione delle guerre si prepara pure l’Alleanza Atlantica. Entro la
fine del 2016 sarà pienamente operativo il programma denominato Alliance Ground Surveillance (AGS) che
punta a potenziare le capacità d’intelligence, sorveglianza e riconoscimento
della Nato. Il sistema AGS verterà su una componente aerea basata su cinque
velivoli a controllo remoto “Global Hawk” versione Block 40, che saranno schierati anch’essi a Sigonella. L’AGS
fornirà informazioni in tempo reale per compiti di vigilanza aria-terra a
supporto dell’intero spettro delle operazioni nel Mediterraneo, nei Balcani, in
Africa e in Medio oriente. Il nuovo sistema Nato potrà contare pure sul
supporto dei velivoli senza pilota Sentinel
in dotazione alle forze armate britanniche ed Heron R1 che la Francia ha prodotto congiuntamente ad Israele.
Successivamente l’AGS s’interfaccerà con il programma d’intelligence Bams (Broad Maritime Area Surveillance) che la Marina militare Usa avvierà
grazie all’acquisto dei nuovi pattugliatori marittimi P-8 Poseidon e dell’ultima generazione di droni-spia Triton della Northrop Grumman. Il 2 febbraio scorso, il Dipartimento della difesa ha
chiesto al Congresso l’autorizzazione per l’anno fiscale 2016 a spendere
102.943.000 dollari per costruire nella base siciliana gli hangar e una serie
di infrastrutture di supporto per i Triton
e i Poseidon. Lungo
14,5 metri e con un’apertura alare di 39,9, il Triton potrà operare entro un raggio di 2.000 miglia nautiche dalla
base di decollo, a un’altitudine massima di 18.288 metri e una velocità di
crociera di 575 km/h. Il velivolo
godrà di un’autonomia di volo tra le 24 e le 30 ore consecutive.
Come
se ciò non bastasse, Sicilia e Sardegna sono state trasformate in poligoni dove
sperimentare altri nuovi velivoli senza pilota d’attacco. Le società Piaggio
Aereo Industries e Selex Es (Finmeccanica) utilizzano dal novembre 2013 la base
del 37° Stormo dell’Aeronautica militare di Trapani Birgi per i test di volo
del dimostratore P.1HH DEMO, l’aereo a pilotaggio remoto realizzato nell’ambito
del programma denominato “HammerHead” (Squalo
Martello). Con un’apertura alare di 15,5 metri, il drone può raggiungere la
quota di 13.700 metri e permanere in volo per più di 16 ore. Il velivolo è
stato dotato di torrette elettro-ottiche, visori a raggi infrarossi e radar
“Seaspray 7300” che consentono d’individuare l’obiettivo, anche in movimento,
fornendo le coordinate per l’attacco aereo o terrestre, o colpendolo
direttamente con missili e bombe a guida di precisione (lo Squalo martello può trasportare sino a 500 kg di armamenti). I decolli e gli atterraggi a Trapani Birgi
costituiscono un grosso pericolo per il traffico aereo passeggeri di quello che
è oggi uno dei principali scali low cost
europei e per le popolazioni delle vicine città di Trapani e Marsala. Il 19
marzo scorso si è pure sfiorata la tragedia: un prototipo dello Squalo martello è uscito fuori pista durante le prove di rullaggio, terminando
la sua corsa nel prato circostante. L’aeroporto di Trapani è stato
temporaneamente chiuso e il traffico civile è stato dirottato a Palermo - Punta
Raisi.
A
fine marzo, nella base aerea sarda di Decimomannu è giunto il primo prototipo di
robot-killer volante nEUROn, l’aereo senza pilota da combattimento
coprodotto da Italia, Francia, Svezia, Spagna, Svizzera e Grecia, per
intraprendere una serie di test operativi nel grande poligono militare di
Perdasdefogu (Ogliastra). Il nEUROn
è dotato di materiali con accentuate caratteristiche stealth che gli consentiranno di penetrare nello spazio aereo
nemico senza essere individuato. Il drone è più grande di un normale aeromobile
a pilotaggio remoto e possiede capacità di carico, autonomia e capacità di volo
quasi simili a quelle di un qualsiasi caccia pilotato. Con un costo unitario superiore ai 25 milioni di euro, il
nEUROn è lungo 9,2 metri e ha un’apertura alare di 12,5 metri. Il velivolo può
raggiungere la velocità di 980 chilometri l’ora e volare per più di otto ore
consecutive. Opererà a tutti gli effetti per colpire e uccidere a distanza
grazie agli ordigni di precisione per gli attacchi aria-suolo a guida laser da
250 kg. Il drone verrà controllato da terra attraverso un datalink ad
alta capacità e standard Nato. “Tramite questo datalink vengono inviati al
velivolo i dati della missione, da lì in poi sarà l’intelligenza artificiale
del nEUROn ad intraprendere tutte le necessarie azioni che permetteranno il
raggiungimento dell’obiettivo”, spiegano le aziende produttrici. “Non vi sarà
quindi un controllo diretto e continuo da terra e questo permetterà di
mantenere un quasi assoluto silenzio radio, necessario per evitare l’intercettazione”.
Il drone avrà inoltre le capacità di controllare a distanza, in modo
automatico, le operazioni dei cacciabombardieri di ultima generazione prodotti
in Europa, come il “Rafale” e il JAS 39 “Gripen”, consentendo così ai piloti
d’intraprendere diverse azioni di combattimento contemporaneamente. Ancora più
dei Predator Usa e degli Squalo martello Piaggio (Emirati Arabi Uniti),
i nEUROn assumeranno tutti i contorni dei famigerati “LAR”
(Lethal Autonomous Robotics), i sistemi
d’arma robotizzati che, una volta attivati, possono selezionare e colpire un
obiettivo in piena autonomia, esautorando l’operatore umano da ogni intervento.
“Se utilizzati, i LAR possono avere conseguenze di enorme portata sui
valori della società, soprattutto quelli riguardanti la protezione della vita,
e sulla stabilità e la sicurezza internazionale”, ha denunciato il Consiglio per i
Diritti Umani dell’Assemblea generale
delle Nazioni Unite in un rapporto speciale pubblicato il 9 aprile 2013.
“Raccomandiamo agli Stati membri di stabilire una moratoria nazionale sulla sperimentazione, produzione,
assemblaggio, trasferimento, acquisizione, installazione e uso dei Lethal Autonomous Robotics, perlomeno sino a quando non venga
concordato a livello internazionale un quadro di riferimento giuridico sul loro
futuro”, ha aggiunto il Consiglio D.U. dell’Onu. “Essi non possono essere
programmati per rispettare le leggi umanitarie internazionali e gli standard di
protezione della vita previsti dalle norme sui diritti umani. La loro
installazione non comporta solo il potenziamento dei tipi di armi usate, ma
anche un cambio nell’identità di quelli che li usano. Con i LAR, la distinzione
tra armi e combattenti rischia di divenire indistinta”. Un accorato appello che
Washington, Parigi, Tel Aviv, Londra, Roma e adesso pure Bruxelles non
intendono per nulla ascoltare.
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