Barcellona PG e la trattativa Stato-Mafia
Un immenso cratere in
autostrada, allo svincolo per Capaci. Il gran botto in via d’Amelio, carcasse
d’auto e corpi straziati. Poi le bombe e le stragi a Roma, Firenze, Milano.
L’offensiva mafiosa, la direzione strategica delle centrali del terrore. E la
trattativa degli apparati infedeli dello Stato. Sino alla capitolazione: la
seconda repubblica di matrice neoliberista, il colpo di spugna sul carcere duro
per boss e gregari. Vent’anni di segreti e veleni, una tragedia infinita su cui
indagano senza sosta tre Procure. Per inchiodare i mandanti dal volto coperto,
esecutori e protettori, spie e doppiogiochisti.
Sui presunti registi e
intermediari della trattativa tra Stato e Antistato girano nomi eccellenti.
Alcuni sono deceduti e non potranno fornire chiarimenti, né difendersi. I pm
nutrono forti sospetti sull’allora capo della polizia Vincenzo Parisi e sull’ex
capo dei Ros dei Carabinieri Mario Mori,
imputato di favoreggiamento del superboss Bernardo Provenzano. O sull’ex
ministro Calogero Mannino che - secondo gli inquirenti - avrebbe esercitato
“indebite pressioni finalizzate a condizionare in senso favorevole a detenuti
mafiosi la concreta applicazione del 41bis”. Nel novembre ’93, l’allora
guardasigilli Giovanni Conso decise di non rinnovare il carcere duro a 326
mafiosi, 45 dei quali ai vertici di Cosa nostra, ‘ndrangheta, Camorra e Sacra
corona unita.
Al
vaglio della Procura l’ipotesi che tra i consiglieri
dell’ammorbidimento del regime detentivo ci fosse pure l’allora vicecapo
del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) Francesco Di Maggio, il magistrato scomparso prematuramente nel 1996,
noto per aver fatto arrestare Angelo Epaminonda, il re delle bische e della
droga di Milano convertitosi in collaboratore di giustizia. Dopo un breve
periodo all’Alto commissariato antimafia, Di Maggio aveva preferito trasferirsi
a Vienna per fare da
consulente giuridico in un’agenzia delle Nazioni Unite. Poi, nel ’93,
inaspettatamente, era stato chiamato a Roma per assumere l’incarico di supervisore
delle carceri italiane.
Di Maggio era originario di
Barcellona Pozzo di Gotto, il maggiore centro tirrenico della provincia di
Messina. Come il giornalista de La
Sicilia Beppe Alfano, assassinato dalla mafia nel gennaio ’93, in piena
stagione stragista. Ed è a Barcellona che convergono e s’incrociano gli attori,
i programmi eversivi, gli esplosivi e telecomandi di uno dei più funesti
periodi della storia dell’Italia repubblicana.
Sino al suo arresto e alla
condanna in via definitiva quale mandante dell’omicidio di Beppe Alfano, a guidare
le cosche di Barcellona c’era Giuseppe Gullotti. “Il barcellonese si sarebbe
dovuto occupare di reperire l’esplosivo necessario per l’attentato che venne
progettato tra il ’92 e il ’93 contro il leader del Partito socialista Claudio
Martelli, attraverso l’interessamento e la mediazione del clan Santapaola”, ha
raccontato Giovanni Brusca. Deponendo al processo Mare Nostrum contro la mafia peloritana, lo stesso Brusca ha
dichiarato che il telecomando da lui adoperato per la realizzazione della
strage di Capaci, gli era stato materialmente consegnato poco prima proprio da
Gullotti. L’assegnazione al barcellonese di tale incarico, secondo Brusca,
sarebbe stata patrocinata da Pietro Rampulla, l’artificiere del tragico
attentato del 23 maggio ‘92 contro il giudice Falcone.
Ancora più inquietante la figura del professionista
subentrato a Gullotti alla guida dei mafiosi del Longano, l’avvocato Rosario
Pio Cattafi. “Una figura quanto mai sfuggente ed enigmatica, dotata di
sorprendenti attitudini relazionali e di non comuni abilità”, lo definiscono i
magistrati della DDA di Messina, nell’ordinanza di custodia cautelare nei suoi
confronti di due mesi fa. L’ultimo “principe nero” dell’apocalisse mafiosa, genio
della finanza e del riciclaggio, in contatto con le maggiori organizzazioni
criminali siciliane, la massoneria e i servizi segreti deviati.
Da giovanissimo, Rosario Cattafi aveva militato nelle
file della destra eversiva rendendosi protagonista nell’ambiente universitario
messinese di alcuni pestaggi (unitamente all’allora ordinovista Pietro Rampulla),
risse aggravate, danneggiamento, detenzione illegale di armi. Trasferitosi in
Lombardia a metà degli anni ’70, Cattafi fu sospettato di essere stato uno dei
capi di una presunta associazione operante a Milano, responsabile del
sequestro, nel gennaio 1975, dell’imprenditore Giuseppe Agrati, rilasciato dopo
il pagamento di un riscatto miliardario. Nei primi di maggio del 1984, Cattafi
fu raggiunto da un mandato di cattura firmato dall’allora pm di Milano, Francesco
Di Maggio.
Cattafi,
al tempo, risiedeva in Svizzera e ciò gli consentì di sfuggire all’arresto. Giorni
dopo però fu la Procura di Bellinzona ad emettere un’ordinanza cautelare nei
suoi confronti per reati in materia di stupefacenti. Il 30 maggio ‘84, Cattafi fu
raggiunto in carcere nel Cantone Ticino dal giudice Di Maggio per un
interrogatorio il cui verbale fu trattenuto dalle autorità elvetiche. Ottenuta l’estradizione
in Italia per l’inchiesta sul rapimento Agrati, Cattafi fu prosciolto nel 1986
su richiesta del giudice Di Maggio.
Il magistrato e Cattafi s’incrociarono
ancora durante le indagini sull’efferato omicidio del procuratore capo di
Torino, Bruno Caccia, avvenuto il 26 giugno 1983. Lo ha raccontato al Corriere della sera (8 giugno 1995),
l’allora sostituto procuratore di Barcellona Olindo Canali, condannato in primo
grado a due anni per falsa testimonianza commessa nel corso del processo Mare Nostrum. “Fu Di Maggio ad arrestare
Cattafi nell’85 per l’inchiesta sull’omicidio Caccia a Torino. Fu il giudice
istruttore ad assolverlo, ma rimase dentro per un anno”. In verità,
Cattafi non venne arrestato a
seguito dell’assassinio del magistrato, però
fu interrogato in carcere dai
pubblici ministeri milanesi titolari dell’inchiesta.
Un oscuro passaggio sui
rapporti tra i due personaggi di origini barcellonesi fu riportato in uno dei
dossier anonimi fatti circolare ad arte per screditare la figura del giudice
Antonio Di Pietro e finiti nelle mani del leader Psi Bettino Craxi, latitante
ad Hammamet. “Cattafi - vi si legge - a Milano, dove aveva iniziato un’attività
nel campo dei farmaceutici e sanitari, rivede e frequenta il giudice Francesco
Di Maggio, che ha passato la sua giovinezza fra Milazzo e Barcellona, dove ha
frequentato le scuole, compreso il liceo (il padre era appuntato dei
carabinieri), e dove ha conosciuto Cattafi, di cui è coetaneo. Di Maggio
introduce Cattafi nell’ambiente dei magistrati, dove pare Cattafi abbia
conosciuto Di Pietro (allora sconosciuto) e la sua donna, poi divenuta sua
moglie”. Quella su Di Pietro è una bufala, quella su Di Maggio una mezza
verità. “Il giudice Di Maggio l’ho visto un paio di volte e sono stato anche
inquisito e poi prosciolto per una vicenda relativa ad un conto corrente
bancario con sede in Svizzera…”, ammetterà in un’intervista al settimanale Centonove lo stesso Cattafi, tornato in
libertà (a fine anni ’90) dopo l’annullamento della sua condanna a 11 anni e
sei mesi nell’ambito del processo sull’autoparco di Milano, centro degli affari
di droga e armi delle cosche siciliane trapiantate in nord Italia.
A rendere ancora più ambigui
i “contatti” tra Cattafi e Di Maggio quanto trapelato qualche giorno fa dal
carcere di Messina Gazzi. Nel corso di un interrogatorio con il procuratore Guido Lo Forte e i due suoi sostituti della Dda, Vito
Di Giorgio e Angelo Cavallo, Rosario Cattafi avrebbe rivelato di aver ricevuto nei
primi anni ’90, quando era agli arresti a Milano per il processo sull’autoparco,
un “incarico specifico” dall’allora vicecapo del Dap Di Maggio, per agevolare
la trattativa post-stragista tra Stato e mafia. Il “principe nero” avrebbe
lasciato intendere di essere pure in possesso di alcuni audionastri con una
sere di colloqui registrati con il magistrato-concittadino. Le ultime carte
dell’avvocato barcellonese per tentare di sfuggire alla condanna definitiva e
al 41bis, in una partita con uno Stato che stenta a far luce sul terrorismo
politico-mafioso del biennio 1992-93.
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