Messina provincia della borghesia stragista
Testo del Monologo presentato a Monforte San Giorgio (Me) il 13 agosto
2013 in occasione della serata anti-mafia “Se s’insegnasse la bellezza”, organizzata
dall’Associazione Generazione 98041 con la collaborazione dell’Associazione
antimafie “Rita Atria”.
Omicidi efferati. Brutali. Corpi arsi vivi nei
greti dei torrenti. Minorenni sequestrati, torturati, sgozzati. Il devastante
saccheggio delle risorse di un territorio unico per bellezze e tradizioni. La
capacità d’infiltrazione in ogni livello delle istituzioni.
Cosa nostra messinese. Un ibrido di cosche e
‘ndrine straviolente con comportamenti e atteggiamenti patriarcali e
postmoderni. Ideologicamente neo e postfascista ma pragmaticamente ora
democristiana e liberal-liberista, ora socialista, forzista o
sinistrocentrodestrista.
Mafia finanziaria e imprenditrice, onnipresente
nella gestione delle opere pubbliche e private, i lavori ferroviari e
autostradali sulla Messina-Palermo, la miriade di porti, porticcioli e approdi
di buon vento, i residence e i centri commercial-immobiliari.
Una borghesia ecocriminale che aspira ad alimentarsi
con i miliardi del Ponte sullo Stretto, disseminando di cementifici, cave e
depositi d’inerti Villafranca Tirrena, Valdina, Venetico, Rometta. Ma che
intanto onora il dio denaro nel gran tempio della munnizza. La discarica di rifiuti
di ogni specie a Mazzarrà Sant’Andrea e Furnari, una delle più grandi del
Mezzogiorno d’Italia. Pozzo
di san Patrizio di clan, politici e imprenditori sodali. Bomba ecologica a
cielo aperto che espande miasmi e liquami sino ai complessi turistici del Golfo.
Quello poteva essere il paradiso. A destra la rocca con le rovine e il
santuario di Tindari e la straordinaria riserva naturale dei laghetti di
Marinello. Dalla parte opposta il promontorio col capo di Milazzo e i
Peloritani. Di fronte l’azzurro del Tirreno. Nello sfondo, nitide, le sette
isole delle Eolie. L’eden si è però trasformato in inferno.
Cemento, cemento, cemento. Il comprensorio di Falcone, Furnari e Oliveri
è irrimediabilmente deturpato da orribili complessi abitativi, alveari-dormitori
per i sempre più pochi turisti dei mesi estivi. Miriadi di loculo-appartamenti che
soffocano le spiagge erose dal malaffare e dalle correnti.
Speculazioni su speculazioni che hanno richiamato le potentissime
“famiglie” di Barcellona Pozzo di Gotto, gli alleati e gli affiliati di Terme
Vigliatore, Mazzarrà Sant’Andrea e Tortorici. E che hanno convertito il territorio
in un campo di battaglia dove tra la fine degli anni ’80 e la prima metà degli
anni ’90 hanno trovato morte più di un centinaio di persone. Un bagno di sangue
per accaparrarsi appalti e sub-appalti, gestire cave e discariche,
cementificare la costa ed i torrenti.
Il disordinato residence di Portorosa, le ville e i villini di Furnari e
Falcone utilizzati come rifugio per le latitanze dorate di boss, killer e
gregari di mafia. Palermitani e catanesi. Uno di essi, Gerlando Alberti Junior,
è stato condannato in via definitiva per aver assassinato, nel dicembre ‘85, la
diciassettenne Graziella Campagna di Saponara, testimone inconsapevole degli
affari di droga e armi della borghesia peloritana.
Cinque colpi di lupara sul volto. E la benedizione dell’onnipotente
patriarca di Villafranca, don Santo Sfameni, amico degli amici e degli amici
degli amici. Amministratori locali e regionali, dc, psi e finanche comunisti. Separatisti
e nostalgici di Benito Mussolini. Il benefattore magnanimo di una comunità che non
gli ha voltato le spalle neppure al momento della morte. Funerali d’altri
tempi, col parroco affranto, un vicesindaco, gli assessori e i vigili urbani in
alta uniforme.
Non si vive male a Milazzo.
Molto meglio certo che nei centri senz’anima della fascia tirrenica tra Messina
e Patti. Qui, per tanti, la mafia non
esiste. Ancora. Nonostante giudici ed inquirenti l’abbiano bollata come “importante snodo” e
“terminale d’investimento in attività commerciali dei proventi dei traffici
illeciti della mafia barcellonese”.
Dalla
metà degli anni ’90 Milazzo è una delle basi operative del boss dei boss
Bernardo Provenzano. La Relazione di minoranza della Commissione parlamentare
antimafia traccia l’impietosa immagine di una cittadina cassaforte finanziaria
delle cosche, riserva di caccia di riciclatori affamati di negozi, bar, pub,
porticcioli, lidi balneari, discoteche, sale gioco e bische più o meno
clandestine.
Feudo
post-coloniale di una classe dirigente scaltra, dinamica, imprenditrice. Paramassonica
e paramafiosa. Generatrice di un’invidiabile mobilità sociale: i pescivendoli
che diventano imprenditori, industriali e operatori turistici; gli spacciatori
ristoratori; i sorvegliati speciali costruttori e pasticceri; i muratori con il
grembiulino architetti, primari o manager sanitari; i paramedici consigliori e
capo-consiglieri a vita; gli sponsor dei vecchi boss onorevoli regionali.
Il
suo ospedale, inossidabile centro di potere, dispensatore di carriere, denaro e
pacchetti di voti. Sempre meno per gli indigeni e sempre più per i cugini della
vicina Barcellona Pozzo di Gotto.
Il
capoluogo del Longano è crocevia di poteri più o meno occulti,
laboratorio sperimentale per le alleanze della Seconda Repubblica, centro strategico
di traffici di droga e armi. Eldorado delle ecomafie e ponte-cerniera tra
organizzazioni criminali siciliane, ‘ndrangheta, camorra ed estrema destra. Un
paradiso per i latitanti di primo livello come Pietro Aglieri, Benedetto
Santapaola, don Binnu Provenzano e chissà quant’altri.
Una Corleone
del XXI secolo dove campieri, ex vivaisti e piccoli allevatori
semianalfabeti hanno imposto il proprio dominio agli eredi di una borghesia
locale consociativa e parassitaria. Una colonia di cosche sanguinarie e
predatrici.
Mere coincidenze, forse. Ma a Barcellona convergono
e s’incrociano filoni investigativi, protagonisti, programmi eversivi,
esplosivi e telecomandi. Le stragi. Quelle maledettissime stragi di Stato del
biennio 1992-93.
Un immenso cratere in autostrada, allo svincolo per
Capaci. Il gran botto in via d’Amelio. Carcasse d’auto e corpi straziati. Poi,
le bombe e le stragi a Roma, Firenze, Milano. L’offensiva mafiosa, la sapiente
direzione strategica delle centrali del terrore. E la trattativa degli apparati
infedeli dello Stato. Sino alla capitolazione: la seconda repubblica di matrice
neoliberista, i nuovi interlocutori politici all’ombra del biscione, il colpo
di spugna sul carcere duro per boss e gregari.
Ventun’anni di segreti e veleni, una tragedia
infinita su cui indagano senza sosta tre Procure. Per inchiodare i mandanti dal
volto coperto, esecutori e protettori, spie e doppiogiochisti. Nonostante i non ricordo di ex ministri e presidenti.
Sui presunti registi e intermediari della
trattativa girano nomi eccellenti. Alcuni sono deceduti e non potranno né
chiarire né difendersi. I Pm nutrono forti sospetti sull’allora capo della
polizia Vincenzo Parisi. E sull’alto dirigente del Sisde, il servizio segreto
civile, Bruno Contrada. Nella black list
c’è pure l’ex capo dei Ros dei Carabinieri e direttore del Sisde, Mario
Mori. E l’ex ministro Calogero Mannino che - secondo gli inquirenti - avrebbe
esercitato “indebite pressioni” finalizzate a condizionare a favore dei
detenuti mafiosi la concreta applicazione del 41bis.
Nel novembre ’93 fu deciso
di non rinnovare il carcere duro a 326 mafiosi. 45 erano ai vertici di Cosa
nostra, ‘ndrangheta, Camorra e Sacra corona unita. Tra i consiglieri dell’ammorbidimento del regime detentivo ci sarebbe
stato l’allora vicecapo del Dipartimento dell’amministrazione
penitenziaria Francesco Di Maggio, prematuramente scomparso. In
quella maledetta estate delle bombe stragiste,
il magistrato usciva a cena con il generale Mori e il colonnello dei
carabinieri Umberto Bonaventura, capo della 1^ divisione dei servizi segreti
militari. Cene inopportune. Inquietanti.
Sulla relazione
privilegiata tra Mario Mori e il giudice Di Maggio c’è un’annotazione
nell’agenda personale del militare. Alla data del 27 luglio 1993, vigilia della
notte in cui esplosero tre autobombe. La prima a Milano e le altre due a Roma.
“Per prob. detenuti mafiosi” c’è
scritto in riferimento ad un appuntamento fissato quel giorno con Di Maggio.
Cinque mesi prima Mori aveva incontrato il magistrato per discutere
sull’omicidio del giornalista de La
Sicilia Beppe Alfano, assassinato dalla mafia l’8 gennaio 1993 a Barcellona
Pozzo di Gotto.
Come Alfano, anche Di Maggio era originario di
Barcellona. E barcellonesi sono pure alcuni dei padrini in odor di massoneria e
servizi segreti deviati entrati a pieno titolo nelle cronache nere di quegli
anni. Barcellonesi sono anche certi garanti dell’impunità e del depistaggio
istituzionale.
Il boss Giuseppe Gullotti, l’avvocaticchiu, condannato in via definitiva quale mandante
dell’omicidio Alfano. Al processo Mare
Nostrum contro le cosche della provincia di Messina, Giovanni Brusca ha
dichiarato che il telecomando da lui adoperato per la realizzazione della
strage di Capaci, gli era stato consegnato proprio da Gullotti. L’assegnazione
al barcellonese di tale incarico, secondo Brusca, fu patrocinata dal mafioso di
Mistretta e Caltagirone Pietro Rampulla, l’artificiere del tragico attentato
del 23 maggio ‘92 contro il giudice Falcone.
Compare d’anello di Gullotti è il principe nero del
Longano, Rosario Pio Cattafi, di professione imprenditore ed avvocato.
Da giovanissimo militò nelle file della destra eversiva rendendosi protagonista
con il Rampulla di pestaggi, risse aggravate, danneggiamenti, detenzione
illegale di armi all’interno dell’Università e della Casa degli studenti di Messina.
Trasferitosi in Lombardia a metà degli anni ’70,
Cattafi fu sospettato di essere a capo di un’associazione dedita ai sequestri
di persona, ai traffici di stupefacenti e alla gestione delle case da gioco per
conto delle famiglie mafiose siciliane. A indagare il giudice Di Maggio che il
30 maggio dell’84 raggiunse Cattafi in cella a Bellinzona per un interrogatorio
i cui verbali furono provvidenzialmente trattenuti
dalle autorità svizzere.
Di Maggio e Cattafi s’incrociarono poi nel corso
delle indagini sull’omicidio del Procuratore capo di Torino, Bruno Caccia. Lo
ha raccontato al Corriere della sera
l’ex sostituto procuratore di Barcellona Olindo Canali, una condanna in primo
grado a due anni per falsa testimonianza commessa nel corso del processo Mare Nostrum.
“Fu Di Maggio ad arrestare Cattafi nell’85 per
l’inchiesta sull’omicidio Caccia”, racconta Canali. “Fu il giudice istruttore
ad assolverlo, ma rimase dentro per un anno”. Cattafi, in verità, non venne
arrestato a seguito dell’assassinio del magistrato, ma fu solo interrogato dai
pm milanesi titolari dell’inchiesta. Nella sua abitazione era stata rinvenuta
copia di una falsa rivendicazione dell’omicidio a firma Brigate rosse.
L’8 ottobre del ‘93 il principe nero del Longano venne
tratto in arresto nell’ambito dell’inchiesta sull’autoparco della mafia di via
Salomone a Milano. Dopo una condanna in primo grado a 11 anni e 8 mesi per
associazione per delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti, la
sentenza fu annullata per un vizio procedurale. Rifatto il processo, Cattafi fu
assolto perché vennero dichiarate inutilizzabili le intercettazioni ambientali
che avevano documentato le sue frequentazioni dell’autoparco.
Del barcellonese si occuparono poi le Procure di
Messina e di La Spezia per un grosso traffico di armi delle società Oto Melara,
Breda ed Agusta con paesi sottoposti ad embargo. Vi erano più o meno interessati
oscuri finanzieri trapiantati in Perù e alle Antille olandesi; imprenditori e
dirigenti di Messina, Villafranca e Rometta; un consigliere provinciale di
Forza Italia oggi capogruppo di una formazione filo-Pd al Comune. E, forse, pure
un assessore regionale e un sottosegretario alla difesa Psdi del tempo.
Don Saro Cattafi fu poi sottoposto ad indagini
(anch’esse archiviate) da parte delle Procure di Caltanissetta e Palermo sui
cosiddetti “mandanti occulti” delle stragi del 1992-93. Nel procedimento sui Sistemi Criminali, il suo nome comparve
accanto ai boss mafiosi Salvatore Riina e Nitto Santapaola, al patron della P2
Licio Gelli e all’ordinovista Stefano Delle Chiaie. Sugli indagati, il sospetto di aver promosso un’associazione con fini di eversione dell’ordine
costituzionale per determinare la secessione politica della Sicilia e di altre
regioni meridionali dal resto d’Italia.
Cattafi è tornato in carcere, al 41 bis, solo nel
luglio dello scorso anno perché ritenuto il capo dei capi delle
organizzazioni mafiose peloritane. Da dichiarante ha riempito pagine di
verbali sui suoi presunti rapporti con il giudice Di Maggio. Al centro, ancora
una volta, la trattativa Stato-mafia. “Quand'ero in carcere in Canton Ticino Di
Maggio mi
chiese se ero disposto a dichiarare che Salvatore Cuscunà, Turi Buatta, era uomo di Santapaola”, ha esordito.
“Nel maggio del ’93 rividi il giudice in un bar a
Messina. C’erano state le stragi Falcone e Borsellino e da pochi giorni
l’attentato a Maurizio Costanzo. Dobbiamo
bloccarli questi porci, mi disse. Dobbiamo
prendere la cosa in mano e portare avanti una trattativa. Di Maggio mi chiese se potevo cercare un
contatto con Santapaola per aprire un dialogo e disinnescare la violenza
di Cosa nostra…”.
Nelle carte della Procura si
ripete, spesso, il nome del senatore Marcello dell’Utri, una condanna in
appello per concorso esterno in associazione mafiosa annullata con rinvio dalla
Cassazione. Dell’Utri, per gli inquirenti, potrebbe essere stato uno dei
maggiori “intermediari” con i mafiosi che volevano imporre gli obiettivi del papello. Minacciando altro sangue dopo
Capaci e via d’Amelio.
Negli anni 92-93, secondo alcuni
collaboratori di giustizia, il manager di Publitalia sarebbe stato un
visitatore abitudinario del messinese. L’ex killer Maurizio Avola riferisce di
avere accompagnato a Barcellona PG il boss catanese Marcello D’Agata per un
appuntamento con Dell’Utri. Avola accenna pure ad un incontro avvenuto - sempre
a Barcellona - tra Marcello Dell’Utri e i mafiosi Aldo Ercolano, Nino
Pulvirenti e Benedetto Santapaola.
In quegli anni Marcello Dell’Utri ha realizzato 58
viaggi aerei tra Roma e la Sicilia, di cui ben 34 da e per Catania nel solo
1992. Nella loro requisitoria al processo contro il braccio destro di Silvio Berlusconi,
i pm di Palermo rilevano che il Santapaola era stato ospite del gruppo Gullotti
nel primo semestre del ’93. A Barcellona. “Da una verifica dei tabulati
telefonici relativi all’utenza in uso a Gullotti Giuseppe sono risultati
contatti con Cattafi Rosario”, scrivono i magistrati. “E non deve sfuggire che
lo stesso Cattafi è stato identificato come soggetto più volte chiamato da
persone appartenenti al circuito del Dell’Utri, cioè da persone entrate con lui
in contatto telefonico od esistenti nelle sue agende”.
Ancora Cattafi e Gullotti, dunque. E ancora una
volta Barcellona e la provincia dove per tanti, troppi, la mafia non esiste.
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