Vent’anni. Falcone, Borsellino, le stragi e le guerre
Un viaggio lungo. Lacerante.
Prima l’Istria e Rijeka, poi Zagabria e infine uno stop a Lubiana. Un’orgia di
nuove bandiere e canti nazionalisti, i sacchi di sabbia sotto le vetrate di
market e negozi, le schegge dei mortai lasciate impresse sui muri. A futura
memoria. Una libertà già pagata a caro prezzo, famiglie divise, spezzate e
l’angoscia di una guerra che da lì a qualche mese avrebbe devastato la Bosnia
con Mostar e Sarajevo. Rientravo a Trieste con la consapevolezza di
un’innocenza ormai perduta. Sì, c’era stato lo shock della guerra in Iraq
qualche mese prima, ma Baghdad e Bassora erano comunque lontane. La Jugoslavia,
anzi la ex Jugoslavia, era invece aldilà dell’Adriatico e l’estate prima ci
avevo trascorso ancora una splendida vacanza. Sentivo che ci sarei tornato,
forse presto, ma che non ne avrei più assaporato le acque dolci e salate. Sul
binario, ad attendermi, c’era Gianfranco. Per essere luglio inoltrato, i colori
del cielo mi sembravano troppo accesi e nitidi. Anche il suo volto era strano,
tirato. Teneva più di un giornale sotto il braccio. “Ciao Antonio, andato bene
il viaggio?” Iniziai a raccontare disordinatamente per liberarmi dall’oppressione
delle morti che mi avevano accompagnato instancabili nella neonata Croazia.
Avevo l’impressione che Gianfranco non mi ascoltasse, o che lo facesse con noia.
Eppure era stato lui che mi aveva proposto la missione suggerendomi contatti e
indirizzi. Gli parlai di Alina, giovane pacifista “jugoslava” in una Zagabria a
tinte scure, dove migliaia di altri suoi coetanei facevano a gara per indossare
i simboli dei deliri ustascia. E del fratello in carcere a Milano, corriere di
droga per conto di chissà chi e per cosa, vicenda sin troppo ambigua, contraddittoria.
Alina era stata reticente. Pareva a tratti che volesse confidarmi ben altre
verità, i suoi dubbi, i suoi timori. Ma le uscirono solo mezze frasi. E
allusioni. Dissi a Gianfranco di sospettare che il ragazzo potesse essere
l’ingenua pedina di un giro internazionale di neofascisti e spacciatori. No,
non mi sembrava proprio che gli interessasse. Poi si fermò. Fu diretto,
brutale. “Senti Antonio, c’è stata ieri una tragedia. In Sicilia. La mafia…
Hanno ammazzato Borsellino e la sua scorta…”.
Immagini in bianco e nero,
l’immenso cratere sull’autostrada, nuvole di fumo, polvere e catrame, sirene,
lampeggianti, auto in corsa, occhi sbarrati. Disgusto, orrore, rabbia,
impotenza. Gli sputi e le monetine sui fantasmi della prima repubblica, pallidi
nelle loro uniformi da funerale d’ordinanza. Neanche due mesi e tutto mi
sembrava già sfuocato, lontano. Molto più vivo il corteo tra i vicoli di
Taranto vecchia, in marcia contro l’ennesimo progetto di militarizzazione del
Sud, l’ampliamento del porto per garantire l’attracco a portaerei e sottomarini
a capacità nucleare. Il primo conflitto del Golfo ci aveva estenuati, sconfitti.
E così a Taranto ci ritrovammo in pochi. Ma comunque contenti di esserci. Insieme.
Ancora e nonostante tutto. Siamo fuori dalle antiche mura, nella piazza che ospita
il palco per il comizio finale. Ma l’evento tarda ad iniziare. Un silenzio
sospetto, irreale. Poi i sussurri e dopo ancora un tira e molla di notizie
frammentate e contorte. A Palermo. No a Punta Raisi. Il giudice Falcone. Forse
c’è anche la moglie. Un boato. Vicino all’aeroporto. Pare siano ancora vivi.
No, solo la moglie. Sono morti anche l’autista e i poliziotti. Un attentato? Sì
un attentato. Il corteo si sfilaccia. Si arrotolano gli striscioni contro la
Nato e i signori delle guerre. “Sì, compagni, la radio ha appena confermato che
il giudice Falcone e la sua scorta sono stati assassinati”. Di corsa in un bar
a vedere la tv. La Sicilia come Baghdad, Beirut, Mogadiscio. In Iraq e in
Libano c’eravamo già stati. Per la Somalia saremmo partiti a giorni. Sulla scia
di avventurieri, gladiatori e piazzisti d’armi. Guerra costante, guerra
permanente. Guerra preventiva. L’esercito ad ogni angolo di strada, ma le
strade non saranno quelle delle vecchie e nuove colonie d’oltremare. I Vespri Siciliani, invenzione di un
neoministro e due sottosegretari siciliani alla difesa, l’occupazione del
territorio per far finta di fare la guerra alla mafia. Un carosello d’impotenza
e d’arroganza. Inutile, diseducativo e costoso. Siciliani i generali e i comandanti,
siciliani i capi dei servizi ancora più deviati. A impugnare a destra mitra e
fucili e a sinistra il ramoscello d’ulivo. Per trattare la resa dello Stato
davanti ai feroci boss di Cosa nostra e Cosa loro.
Guerre e mafia. Mafia e guerre. E
la scoperta, progressiva, inarrestabile, che il non luogo in cui sono nato e
cresciuto, la città del mito-ponte sullo Stretto, era da più di vent’anni
crocevia di poteri occulti, fucina e
laboratorio di strategie e politiche liberticide e neoliberiste. Ex ordinovisti
addestrati ad armeggiare esplosivi e detonatori; trafficanti di uranio,
missili, elicotteri e carri armati; frammassoni commercialisti e finanzieri;
politici gelliani di comprovata fede nordatlantica; cupole militari e dell’Arma
dei Carabinieri. I rappresentanti di vertice d’una borghesia senza scrupoli e
mafiosa. Spietati sacerdoti e custodi del contropotere. Vent’anni a disseminare
bombe e morti nelle città d’Italia, annientando intellettuali, giornalisti,
sognatori, gli utopisti di una democrazia che fosse finalmente sostanziale.
Impedendo con i bagni di sangue che la fantasia e l’uguaglianza conquistassero
il potere. Nella vicina Barcellona Pozzo di Gotto, i vampiri assetati d’affari
a preparare il telecomando e il tritolo per il martirio di Capaci. A
festeggiare poi con bottiglie di champagne l’immane bang e mediare i papelli
per la trattativa con i futuri partner politici ed economici. Insinuandosi nel
cuore del complesso militare industriale, italiano e straniero, perché i
proventi di droga fossero reinvestiti in armi e i proventi delle armi in droga.
Moltiplicando all’infinito fatturati, conflitti e vittime. L’Italia non sarebbe
più rimasta la stessa. Le stragi di Palermo, Roma, Firenze e Milano hanno
spianato la strada all’individualismo e all’egoismo, isolando e atomizzando
donne e uomini, cancellando lo stato sociale e le socialità. Sono stati violati
i diritti soggettivi e negate le libertà. E abbiamo per sempre ripudiato la
pace. Dopo la Somalia ci siamo lanciati a bombardare i Balcani, poi abbiamo
rioccupato l’Albania e il Kosovo, infine in volo ad incendiare
irrimediabilmente Afghanistan, Iraq, Pakistan, Libia. La seconda repubblica
sorta sulle ceneri di Tangentopoli e via d’Amelio è stata consacrata agli
amplessi mortali e ai bunga bunga dei mandanti a viso coperto dell’uragano
stragista. Vent’anni serviti ad accrescere squilibri e differenze, dilapidare
risorse pubbliche e naturali, privatizzare l’acqua e l’istruzione, sprecare
l’energia, consumare territori. Per riscoprirsi assai più poveri di padri e
nonni, orfani di giustizia e legalità. La memoria di quei giorni però non è
andata perduta. Resta la stessa indignazione di allora e la tenue speranza che
un altro paese sia ancora possibile.
Pubblicato in Vent’anni (a
cura di Daniela Gambino ed Ettore Zanca), Coppola editore, Trapani, 2012.
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