“Nessun progetto funzionale alla cultura di guerra dovrebbe entrare a scuola”
Il processo di militarizzazione delle scuole italiane
è oggi un fenomeno onnicomprensivo che investe istituti di ogni ordine e grado,
riducendo la libertà di docenti e studenti e trasformando le radici di un
sistema che dovrebbe invece promuovere il futuro. Antonio Mazzeo, insegnante e
tra i fondatori dell’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e
delle università, spiega i passi fatti, il ruolo dei media e l’importanza della
denuncia pubblica
Interessa
infatti non solo gli istituti di ogni ordine e grado, dalle scuole per
l’infanzia alle università, ma anche di tutta l’Italia e non si limita dunque a
quelli prossimi a infrastrutture militari oppure a industrie belliche.
Se in alcuni
casi sono le forze armate che entrano nelle scuole, in altri sono le caserme a
ospitare delegazioni di studenti organizzando attività di gioco, motorie o
sportive che spesso simulano l’addestramento militare. “Poi ci sono vere e
proprie attività di cooptazione”, afferma Mazzeo, facendo riferimento
all’alternanza scuola lavoro, oggi chiamata Percorsi per le competenze
trasversali e per l’orientamento (Pcto), sia all’interno delle industrie
belliche sia delle basi militari. “Anche in quelle della Nato, abbiamo denunciato
ad esempio quanto accade nella base di Sigonella (SR) o di Solbiate Olona (VA), in cui gli studenti effettuano un
grande numero di attività dalla manutenzione di mezzi militari come elicotteri
o apparati navali, operando a fianco dei militari, alla fornitura di servizi,
come nelle mense degli ufficiali”. Una serie di iniziative viene inoltre
promossa direttamente attraverso convenzioni o accordi tra il ministero
dell’Istruzione e quello della Difesa, come ad esempio l’organizzazione di
concorsi, premi, presentazioni di calendari dell’esercito, mostre che
riguardano vicende della Seconda guerra mondiale in cui vengono invitati gli
studenti o questi partecipano nell’allestimento.
“Purtroppo è
diventata una prassi quella dell’invito in caserma delle scuole per attività
come l’alza bandiera -prosegue-. In più aggiungerei che si moltiplicano le
volte in cui i rappresentanti delle forze armate sono presenti all’interno
delle classi sostituendosi di fatto alla figura dei docenti nello svolgimento
di attività prettamente didattiche ad esempio in relazione alle cosiddette
materie Stem (le discipline scientifico-tecnologiche), dove tra l’altro sta
assumendo un ruolo centrale la Fondazione
Leonardo che propone pacchetti educativi sia per gli studenti
sia per la formazione dei docenti”.
Mazzeo,
quali sono gli obiettivi di queste attività?
AM Gli obiettivi che vengono perseguiti
sono molteplici. C’è bisogno di legittimazione, di ottenere consenso e di utilizzare
queste attività per trasmettere valori come l’autorità, il rispetto e
l’obbedienza su cui poi si strutturano le forze armate. Tra l’altro questo
traspare anche da molti documenti e convenzioni firmati dal ministero
dell’Istruzione e da quello della Difesa dove si parla espressamente
dell’affermazione della cultura della difesa e della sicurezza. Si cerca dunque
di far aderire i cittadini a un sistema in cui viene privilegiato il modello
delle forze armate in funzione dei processi di riarmo e di militarizzazione che
sono in atto e che purtroppo promuovono una concezione bellica di guerra
costante, globale e permanente. Si vuole ottenere compartecipazione e
condivisione riguardo alle strategie militari, le missioni, le operazioni ma
anche assicurarsi approvazione tra le nuove generazioni, soprattutto in vista
della trasformazione delle forze armate che hanno sempre più bisogno di
coscritti. L’invasione russa dell’Ucraina ha rappresentato sicuramente un
cambiamento nelle valutazioni, perciò oggi alcuni Paesi ripropongono il
problema della leva obbligatoria o di formule ibride in cui ai professionisti
si affiancano i riservisti per ampliare il numero dei militari. Credo che il
modello bellico, quello che si è affermato attraverso la militarizzazione dei
territori, dell’economia, del sapere, non potesse non investire il luogo per
eccellenza della formazione e della trasmissione di contenuti e di valori che
sono elementi chiave nella strutturazione bellico militarista di una società.
Com’è la
situazione oggi in termini di consapevolezza e che ruolo hanno i media
nazionali e locali?
AM Se penso a due anni fa la
situazione è oggettivamente cambiata, si è diffusa una maggiore consapevolezza.
Lo stato di guerra attuale, e le preoccupazioni che desta, sono servite anche a
una maggiore attenzione ai processi in atto e a come la guerra poi viene
narrata nella società, nella scuola, nell’informazione. Questo ha come
conseguenza la moltiplicazione di iniziative, di prese di posizione anche da
parte delle famiglie e di una minoranza del corpo insegnante. Il fatto che
all’Osservatorio ormai arrivino quotidianamente decine di segnalazioni non
significa che sono aumentati i fatti, ma che c’è più attenzione. Ci sono
diversi consigli di istituto o collegi di docenti che hanno approvato mozioni
di opposizione, di rifiuto alle attività militari nelle scuole o di solidarietà
con il popolo palestinese. Ho notato anche una maggiore attenzione sia a
livello di testate nazionali sia locali che, proprio perché vivono grazie alle
relazioni con i lettori di un posto, pubblicano con sempre maggiore diffusione
le lettere di protesta di insegnanti o studenti. Se guardo indietro, a quando
abbiamo cominciato con alcuni docenti a monitorare quello che stava accadendo,
esprimendo preoccupazione per un processo che è iniziato una decina di anni fa
e che soprattutto dopo il 2020 è diventato dilagante in tutto il Paese, credo
che si siano fatti enormi salti in avanti, non soltanto nella consapevolezza ma
anche nell’analisi. Vorrei ricordare infatti che questo non è un fenomeno
estemporaneo e non è neppure legato a una forza politica. È purtroppo
strutturale e riguarda tutta la società italiana che ha fatto una scelta verso
la logica della guerra.
Come si
concretizza nella scuola questo processo che lei definisce strutturale?
AM L’obbedienza non è soltanto
quella che viene veicolata dal fatto che le forze armate entrano a scuola
proponendo attività didattiche o pedagogiche ma diventa anche un elemento di
riorganizzazione strutturale del sistema scolastico. Sempre di più si tenta di
minare il principio della libertà di insegnamento che è sacrosanto e sancito
nella Costituzione della Repubblica italiana, attraverso l’uso di forme di
controllo. La militarizzazione dell’istituzione scolastica prevede tutta una
serie di interventi in cui il corpo insegnante e gli studenti subiscono
pressioni e si riducono enormemente gli spazi di opposizione e di agibilità per
valorizzare pensieri altri. La scuola perde piano piano la sua complessità, la
sua funzione di luogo di sviluppo della criticità e vengono imposti modelli
dall’alto. Si è inoltre affermato un sistema autoritario. Non a caso, abbiamo
assistito in questi ultimi due anni a punizioni esemplari di studenti che hanno
occupato le scuole in solidarietà con il popolo palestinese. Può essere anche
letto in questo senso il voto in condotta che diventa preponderante anche in
sede di maturità. Sorvegliare e punire sono due verbi che oggi, anche
attraverso forme di controllo del registro elettronico, hanno di fatto militarizzato
anche l’organizzazione stessa del sistema scolastico. La scuola in questo senso
sta abbandonando la sua funzione che dovrebbe essere proprio il luogo di
analisi di questi elementi e non di accettazione, mentre il registro
elettronico è stato accettato ormai da tutti gli istituti senza, tra l’altro,
essere mai stato regolamentato. Vi immettiamo milioni di dati e monitoriamo
tutta la vita scolastica dello studente dai due fino ai 18 anni, ma non
sappiamo assolutamente chi sia il titolare di questi e che cosa ne possa fare.
Ma soprattutto è la modalità con cui viene esercitato il controllo sugli
studenti che li porta a perdere la possibilità di essere autonomi: i genitori
sanno tutto quello che succede in tempo reale. Questo delegittima la scuola come
luogo di risoluzione non violenta dei conflitti.
In questo
scenario invece che cosa possono fare gli insegnanti e gli educatori per
introdurre strumenti di pace?
AM Innanzitutto partirei da una
questione fondamentale, la scuola ha storicamente una funzione: promuovere il
futuro. Dunque nessun progetto funzionale alla cultura di guerra dovrebbe
entrarci, perché la guerra è morte, non crea futuro, lo distrugge, è dunque in
antitesi con quello che è il luogo della proiezione e della promozione della
vita. Gli insegnanti dovrebbero ricordarsi del loro ruolo di sviluppo della
società e che non possono quindi diventare strumenti che mettono in discussione
la vita stessa, anche perché in questo momento la guerra sarebbe una guerra
totale, globale, nucleare e porterebbe alla fine dell’umanità. Poi non
dimentichiamo che ci sono già elementi giuridici, sia del diritto
internazionale sia interno e costituzionale, che sanciscono il ruolo della
scuola e stigmatizzano qualsiasi tipo di relazione tra l’educazione e la guerra.
Ad esempio, il protocollo aggiuntivo della Convenzione sui diritti dei minori delegittima qualsiasi
rapporto tra i bambini e le forze armate, perché quell’attività che ci sembra
così neutra, come far giocare i bambini di tre anni con i militari con il
fucile è in realtà una forma di violenza strutturale e psicologica perché
parliamo di individui che non hanno nessun “anticorpo” e che invece vengono avvicinati
alla guerra, presentata loro come normalizzata ed edulcorata. Poi ci sono anche
le norme del diritto scolastico che, come ci capita di verificare, vengono
spesso violate. Qualsiasi attività educativa effettuata a scuola o all’esterno
deve essere infatti discussa e deliberata dagli organi collegiali. Purtroppo
succede tutto il contrario. Ormai il 90% delle attività in presenza di forze
armate o di invio in industrie belliche non viene mai discussa e deliberata. Il
ministro dell’Istruzione manda la circolare al provveditore e questo lo manda
ai presidi e loro decidono autonomamente. I docenti devono intervenire e
ribadire che se le attività non sono state adottate collegialmente non possono
essere effettuate. È inoltre ancora prevista dalla legge l’opzione di
minoranza. E dunque anche se in sede di collegio viene presentata una proposta
di questo genere e passa a maggioranza, l’insegnante può far mettere a verbale
che si è opposto. Credo che vadano promossi questi strumenti che sono del tutto
legittimi, legali e diventano “granelli di sabbia” in questo ingranaggio di
guerra. Anche la denuncia pubblica è un elemento fondamentale. Permette di
raccogliere consenso, di estendere l’attenzione all’esterno della scuola, ma ha
anche effetti diretti all’interno, crea dibattito, spaccatura, conflitto e
generalmente poi alla fine l’abbandono formale di questo tipo di attività per
evitare il ritorno negativo di immagine.
Intervista a cura di Martina
Ferlisi, pubblicata in Altraeconomia
il 10 luglio 2025, https://altreconomia.it/nessun-progetto-funzionale-alla-cultura-di-guerra-dovrebbe-entrare-a-scuola/


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