Il mercato criminale dell’industria italiana delle armi

Cannoni, missili, carri armati, fucili, pistole, caccia e bombardieri. Produciamo strumenti di guerra di ogni tipologia per il mercato globale, finanche braccialetti e manette che produco scariche elettriche da 50.000 volt, veri e propri sistemi di tortura per detenuti e migranti. Un business che non conosce crisi e che consente all’industria militare di affermarsi tra le prime cinque produttrici al mondo. Tra il 2008 e il 2009, quando tutti i settori produttivi del made in Italy registravano tassi di crescita negativi, l’export di armamenti è cresciuto del 74%. Un mercato che si caratterizza per essere tre volte criminale e criminogeno. Perché genera morti in ogni angolo della terra, orami quasi sempre e solo vittime civili ed innocenti, donne, bambini. Perché divora enormi risorse economiche-finanziarie e naturali, depauperando il pianeta e condannando inesorabilmente miliardi di persone alla fame e al sottosviluppo. Perché gli immensi profitti si dividono tra una ristretta minoranza di attori, manager, industriali, generali, politici, trafficanti (o più prosaicamente “mediatori”) e l’immancabile corte di faccendieri in odor di mafia.

Una zona grigia di illegalità in cui le potenti lobby dei mercanti prosperano aggirando la legge 185 del 1990 che disciplina il commercio delle armi e che vieta in particolare, le vendite ai paesi belligeranti, a quelli sottoposti ad embargo Onu e dell’Unione Europea e a quelli i cui governi sono responsabili di gravi violazioni dei diritti umani. La lista dei destinatari dei gioielli di morte del complesso militare industriale italiano è proprio “nera”: al primo posto c’è la petromonarchia dell’Arabia Saudita (commesse per 1.100 milioni di euro), poi il Qatar (317), l’India (242), gli Emirati Arabi Uniti (176), il Marocco (112), la Libia (59), la Nigeria (50), la Colombia (44), l’Oman (37). Sembra più un elenco della geopolitica della guerra totale e permanente, dei diritti violati e negati e delle discriminazioni di genere e minoranze nazionali. Ma nel bel paese vige l’indifferenza e il cinismo. Così i parlamentari e i politici che si stracciano le vesti per le sorti di Sakineh Mohammadi Ashtiani, la donna iraniana condannata a morte per lapidazione, restano in perfetto silenzio di fronte al fatto che tra gli stati lapidatori compaiono proprio quattro dei principali partner dell’industria di morte italiana. È a loro che sono state esportate nel 2009 più del 50% delle armi prodotte da Finmeccanica, la holding del settore a capitale in parte pubblico.

Con gli emiri in particolare, si profilano all’orizzonte affari a nove zeri. Dopo il voto unanime del Parlamento italiano - il 28 ottobre 2009 - che ha ratificato l’accordo di “cooperazione nel settore della sicurezza” firmato sei anni prima dall’allora ministro della difesa Martino e dal principe ereditario di Dubai e ministro della difesa degli EAU, sceicco Mohamed Bin Rashid Al Maktoum, sono state esemplificate le procedure di trasferimento di armamenti, munizionamenti, mine, propellenti, satelliti, sistemi tecnologici di comunicazione e per la guerra elettronica. Scambi che potranno avvenire anche in deroga alla legge 185 e che consentiranno la triangolazione di armi «a Paesi terzi senza il preventivo benestare del Paese cedente». E l’accordo di mutua cooperazione è stato prontamente festeggiato da Finmeccanica con una maxi-commessa da due miliardi di dollari: gli Emirati hanno affidato alla controllata Alenia Aermacchi la fornitura di 48 bimotori M-346 “Master” che saranno utilizzati per l’“attacco leggero” (sganciamento di bombe sino a 3.000 kg) e l’addestramento avanzato dei piloti destinati ai cacciabombardieri Eurofighter, Rafale, F-16, F-22 ed F-35 “Joint Strike Fighter”, acquistati di recente dall’aeronautica militare EAU.

Quando non è possibile mettere nero su bianco su triangolazioni e trasferimenti a paesi in guerra c’è sempre pronto a dare una mano l’alleato d’oltreoceano. Qualche mese fa il comandante della coalizione Usa-Nato in Afghanistan, generale Stanley McChrystal, ha rivelato all’agenzia Reuters la consegna alle forze armate afgane di due aerei da trasporto C-27A “Spartan” in dotazione dell’US Air Force, mentre altri 18 velivoli dello stesso modello saranno consegnati entro il 2011. Come dichiarato dall’alto ufficiale statunitense, «questo programma consentirà all’aviazione militare afgana di raddoppiare le proprie dimensioni per operare con efficacia dopo essere rapidamente caduta in disgrazia con l’avvento dei talebani». Velivoli prodotti nelle corporation a stelle e a strisce? Assolutamente no. I due biturboelica C-27A erano stati acquistati nel 1990 in Italia all’allora Aeritalia, oggi Alenia Aeronautica (Finmeccanica). Si tratta di una versione leggermente modificata degli aerei da trasporto G.222, in dotazione sino al 2005 alla 46^ Aerobrigata dell’Aeronautica militare di Pisa. Si dà poi il caso che il 19 settembre del 2008, proprio 18 G.222 ex AMI erano stati ceduti dal ministero della difesa italiano agli Stati Uniti in cambio di 287 milioni di dollari. Inutile aggiungere che si tratta proprio degli “Spartan” che il Pentagono consegnerà all’Afghan National Army Corps dopo che saranno conclusi i lavori di ricondizionamento delle apparecchiature di bordo, probabilmente proprio negli stabilimenti di Alenia. Anche stavolta da registrare l’imbarazzato no-comment del ministero della difesa e dei parlamentari di destra, centrodestra e centrosinistra.  

Con un altro accordo di “cooperazione” sottoscritto da Silvio Berlusconi e dal colonnello Gheddafi, Italia e Libia hanno chiuso la lunga contesa post-coloniale. In nome della comune lotta all’immigrazione “irregolare”, si è dato il via ai pattugliamenti navali congiunti e alla realizzazione in pieno deserto di carceri-lager per richiedenti asilo in fuga dagli inferni del Corno d’Africa, Iraq e Afghanistan. Ma il vero cuore dell’intesa sta negli affari e nelle commesse per le fabbriche di armi. Con il disgelo italo-libico l’AgustaWestland ha trasferito alle forze armate locali 10 elicotteri A109 Power, valore 80 milioni di euro, che saranno utilizzati per il «controllo delle frontiere». La stessa società italiana, da tempo immemorabile al centro di inchieste giudiziarie, scandali e mazzette, ha pure sottoscritto un accordo con la Libyan Company for Aviation Industry per costituire una joint venture per lo sviluppo di attività nel settore aeronautico e dei sistemi di sicurezza. Finmeccanica, la holding che detiene il controllo di AgustaWestland, ha invece firmato un accordo con Tripoli per la creazione di una joint venture nel campo dell’elettronica e dei sistemi militari di telecomunicazione. Nel gennaio 2008, è stata la volta di Alenia Aeronautica a siglare con il ministero dell’Interno libico un contratto del valore di oltre 31 milioni di euro per la fornitura del velivolo da pattugliamento marittimo ATR-42MP “Surveyor”. Sempre nel campo della “homeland security” (o della militarizzazione in funzione anti-migranti), Selex Sistemi Integrati realizzerà un grande sistema di protezione e sicurezza dei confini della Libia e fornirà direttamente sul campo l’addestramento degli operatori e dei manutentori.

Altro pozzo di San Patrizio dell’export di guerra italiano è un altro paese leader della lotta ai migranti, il Marocco. Dal 1973 occupa militarmente l’ex Sahara spagnolo, massacrando attivisti indipendentisti, deportando intere comunità, disseminando di mine anti-uomo il muro-frontiera di oltre 3.000 chilometri realizzato per isolare i territori occupati. Per numerose organizzazioni non governative internazionali, il Marocco ha collaborato attivamente con gli Stati Uniti d’America nelle extraordinary rendition, i sequestri di presunti terroristi islamici, poi deportati nelle supercarceri di Medio oriente e Guantanamo, ed ospiterebbe ancora un centro di detenzione segreto per vecchi e nuovi desaparecidos. Amnesty International denuncia che in Marocco «sono aumentati nel 2009 gli attacchi alla libertà di espressione, di associazione e di riunione» e che «difensori dei diritti umani e giornalisti fautori dell’autodeterminazione del Sahara Occidentale sono incorsi in vessazioni, arresti e perseguimenti giudiziari». «Le autorità hanno continuato ad arrestare ed espellere cittadini stranieri sospettati di essere migranti irregolari senza prendere in considerazione le loro singole necessità di protezione o permettere loro di contestare l’espulsione», aggiunge Amnesty International. «Alcuni sarebbero stati scaricati al confine con l’Algeria o la Mauritania, senza adeguate quantità di cibo e acqua». Per rendersi conto che aria si respira in uno dei principali partner dell’establishment politico-militare industriale italiano, si pensi a quanto accaduto lo scorso 8 novembre, quando le forze armate marocchine attaccarono e distrussero il campo rifugiati di Gdeim Izik, nella capitale sahrawi di Al Aaiun. Per il Fronte Polisario si è trattato di un massacro senza precedenti: 21 i morti civili, 723 i feriti e 159 i “dispersi”.

Le più importanti commesse al Marocco? A fine 2008 l’immancabile Alenia Aeronautica ha siglato un contratto del valore di circa 130 milioni di euro per la fornitura di quattro velivoli C-27J, lo stesso aereo da trasporto e per il lancio di paracadutisti girato all’Afghanistan via Washington. In joint venture con Eads, Alenia Aeronautica consegnerà pure due Atr 42-600 e quattro Atr 72-600 alla compagnia di bandiera Royal Air Maroc. Apparecchiature integrate per comunicazioni e controllo terrestri prodotte da Selex Communications finiranno al FAR du Maroc, le forze armate marocchine che non mancheranno di utilizzarle in funzione anti-Polisario e anti-migranti. La marina militare marocchina si doterà invece delle nuove fregate multimissione FREMM co-prodotte da Francia (Thales e DCNS) e Italia (Fincantieri e Finmeccanica). Le fregate saranno superarmate: siluri MU90, missili Exocet MM40 e Aster 15 ed i cannoni 76/62 SR stealth della OTO Melara, altra società Finmeccanica. Con le autorità marocchine starebbe per essere avviato pure un programma per insediare a Casablanca un polo aeronautico per la fabbricazione di componenti meccaniche destinate a velivoli civili e militari che vedrebbe la compartecipazione (o forse meglio la terziarizzazione e delocalizzazione) di alcune delle maggiori imprese aeronautiche italiane.

La lobby filo-marocchina è assai potente tra parlamentari, ministri e industriali nostrani e non c’è stata inchiesta giudiziaria negli ultimi decenni che non abbia individuato transazioni più che sospette sulla rotta Roma-Rabat. Nel 1992 erano state le Procure della Repubblica di Messina a Catania a indagare su un gruppo di faccendieri in stretto contatto con una delle più potenti cosche mafiose siciliane (quella etnea capeggiata da Benedetto “Nitto” Santapaola), che stava mediando la fornitura di armamenti prodotti dalla Breda Meccaniche Bresciane alla marina, all’esercito e all’aviazione del Marocco. L’inchiesta, come buona parte di quelle che tentano di colpire i santuari dei mercanti di morte, si concluse nel nulla. Quattro anni dopo però la Guardia di finanza di Firenze recuperò le montagne di intercettazioni telefoniche ed ambientali prodotte e inviò un’informativa alla Procura di La Spezia che indagava su quella che era stata definita la “nuova P-2”, l’ennesima organizzazione paramassonica in grado di “deviare” il funzionamento di istituzioni, istituti bancari ed holding industriali dell’Italia a sovranità assai limitata. Utilissimo rileggere alcuni dei passi dedicati al funzionamento del sistema criminale tessuto dai mercanti di morte, basati sulle risultanze delle indagini su mafie, droga ed armi condotte nei primi anni ’80 dall’allora giudice istruttore di Trento, Carlo Palermo. «La fusione tra interessi pubblici e interessi commerciali e la compenetrazione di uomini, istituzioni e risorse appartenenti alla sfera statale e al mercato rende difficile distinguere confini e responsabilità», scrivono i militari della  GdF. «La visibilità di tali gruppi di potere emerge solo in circostanze eccezionali, come le inchieste parlamentari e della magistratura, oppure in occasione di fatti di cronaca particolarmente eclatanti come lo “scandalo Lockeed” in Europa all’inizio degli anni ’70, o l’emergere della loggia P2 in Italia all’inizio degli anni ’80».

In particolare, il giudice Palermo era giunto a definire tre «diverse costellazioni» di poteri collegate alla produzione e al commercio delle armi. La prima comprende gli apparati imprenditoriali e finanziari delle industrie produttrici di armamenti, operanti in strettissimo collegamento con l’establishment militare ed i vertici dei servizi di sicurezza di quasi tutti i paesi. «I circoli in questione costituiscono l’elemento di continuità nel business dell’esportazione di armi, e la loro particolare collocazione li rende nello stesso tempo “fedeli al sistema” ed autonomi dal potere politico del momento, specie nei paesi caratterizzati da un tasso elevato di instabilità governativa. La tendenza di tali gruppi è quella di accrescere la propria coesione ed impermeabilità tramite la costituzione di associazioni segrete o semiclandestine, e di collegarsi a singoli esponenti politici di rilievo piuttosto che a partiti o correnti politiche».

Il secondo gruppo di potere comprende i mediatori e i commercianti all’ingrosso e al minuto, quasi sempre alle dipendenze dirette o in stretto collegamento con le industrie produttrici. «È presso tale categoria che troviamo gli “incroci”, molto frequenti con il mondo della droga e della finanza clandestina», prosegue l’informativa. «Si tratta della naturale tendenza ad usare circuiti di scambio semisegreti attivati per la circolazione di una data merce e per il commercio di altre merci: oggi le armi, domani gli stupefacenti, poi le informazioni politico-militari, l’alta tecnologia ecc. I motori del tutto sono quelli di sempre. Profitto economico ed ambizioni di potenza. Con l’aggiunta di una componente sempre più rilevante di “professionismo illegale”, causato dalla moltiplicazione dei soggetti e dei canali del mercato illecito». Infine il terzo tipo di coalizione di potere interessata all’esportazione di armi, composta da personalità politiche ai vertici istituzionali, in grado di percepire tangenti sulle vendite o sugli acquisti.

Un vero e proprio di blocco di potere i cui contorni sono stati ben delineati dalle indagini sui traffici gestiti dal pool di operatori vicini alle cosche siciliane e ai grandi manager militar-industriali. Oltre alla fornitura di materiali di armamento al Marocco, l’organizzazione stava seguendo freneticamente l’affare relativo alla vendita alla Guardia nazionale dell’Arabia Saudita di dodici elicotteri CH47 per il trasporto truppe ed armamenti, di produzione “Agusta SpA”. Il trasferimento dei mezzi da guerra vide scendere in campo le massime autorità saudite. Nel corso di una telefonata del 15 giugno 1992 tra un faccendiere siciliano e l’allora direttore generale dell’industria bellica, il primo forniva l’identità del suo diretto interlocutore: «È lo sceicco Hassan Hennany a tenere le fila con re Fahd. Hennany è il segretario del principe Feisal ben Fahd, il figlio del sovrano d’Arabia, e può darci una mano a vendere elicotteri anche al Marocco». Il mese precedente, lo stesso faccendiere e alcuni personaggi in contatto con i clan mafiosi erano stati ospiti del saudita a bordo del suo yacht ormeggiato a Cannes. I particolari di quell’incontro erano stati raccontati dal responsabile per le relazioni estere di Forza Italia al direttore commerciale di Pubblitalia-Fininvest, Alberto Dell’Utri. «In questi giorni sapremo le date, te le comunico e ci incontriamo. Ok?», dichiarava l’alto dirigente di Forza Italia. Poi aggiungeva: «Se per caso il tuo presidente, se potesse venire per dire... un incontro. Perché c’è pure in grande pompa magna quell’Hennany. Alberto, io non ci sto dormendo la notte!».

L’identità del “presidente” prendeva forma nel corso di una telefonata intercorsa il 3 giugno 1992 tra due delle persone sottoposte ad indagine. «Scusami Aldo, noi lunedì c’incontriamo. Possiamo parlare con questo Berlusconi o no?», domandava uno di essi. «Gioia mia, mi auguro di sì. Io non te lo posso dire in questo momento e neanche lui me lo sa dire», la risposta.

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