La partnership Italia-Tunisia contro i migranti

“Gli assetti aerei e navali italiani messi a disposizione della NATO per l’operazione Unified Protector continuano le missioni assegnate per l’imposizione della no-fly zone e dell’embargo navale. Nell’ultima settimana sono state effettuate 39 missioni aeree. Gli assetti impiegati dall’Aeronautica militare sono stati i cacciabombardieri Tornado, F16 Falcon e AMX, gli aerofornitori KC130J e KC767A ed un velivolo a pilotaggio remoto Predator B (…) Per quanto riguarda l’emergenza immigrazione, in applicazione dell’intesa italo-tunisina, Nave Comandante Borsini, Nave Chimera ed un aereo Atlantic continuano la sorveglianza in prossimità delle acque tunisine”.
Il ministero della Difesa italiano emana settimanalmente un dispaccio con un consultivo delle missioni effettuate dalle forze armate nella ormai lunga campagna militare in Libia. Quasi a consacrare che uno degli obiettivi della guerra globale e permanente è quello di contro-arrestare i flussi migratori in direzione sud-nord, lo Stato maggiore congiunge nello stesso comunicato le scarne informazioni sui bombardamenti in Libia e l’esibizioni muscolari delle unità navali inviate per impedire la libera circolazione nel Mediterraneo di uomini, donne e bambini in fuga dalle carestie e dai conflitti africani.       
Che si tratti di vera e propria guerra alle migrazioni, anche se ufficialmente non dichiarata o mascherata dietro la formula di comodo dell’“intervento umanitario”, lo prova l’arsenale militare a bordo delle unità che presidiano le acque tunisine: Comandante Borsini è un pattugliatore d’altura dotato di cannoni OTO Breda 76/62 e mitragliere OTO Oerlikon 25/80 (più un elicottero multiruolo Agusta Bell AB-212), mentre Chimera è una corvetta della classe Minerva con cannoni Oto Melara “Compatto”, lanciatori multi razzi “Barricade” e missili “Aspide”. Truce ostentazione di morte in un mare dove sono ormai naufragate speranze, solidarietà, accoglienza.
Come se non bastasse, il tratto di mare fra Lampedusa, Malta e il nord Africa è sorvegliato giorno e notte anche da numerose unità della Guardia di finanza e della Guardia costiera italiana, in prima linea nelle operazioni di “contenimento” e respingimento dei migranti diretti verso le coste siciliane e calabresi. Poi c’è Frontex, l’Agenzia europea per la gestione della cooperazione operativa alle frontiere, che dopo aver inviato a Lampedusa uno special team operativo nei settori d’intelligence e delle identificazioni, ha schierato nel Mediterraneo centrale quattro aerei, due navi e due elicotteri messi a disposizione da Francia, Germania, Italia, Malta, Spagna e Olanda nel quadro della cosiddetta missione Hermes 2011. Alla crociata internazionale anti-migranti non fa mancare il suo apporto la flotta NATO con quattordici unità da guerra, che presidia le coste nordafricane nel quadro dell’operazione Unified Protector. Al 27 settembre 2011, come riferisce il Comando supremo dell’Alleanza Atlantica di Bruxelles, “un totale di 2.844 navi sono state contattate per un controllo, 293 abbordate e 11 dirottate dall’inizio delle operazioni di embargo sulle armi”. Come dire che nulla sfugge ai mille occhi dei radar terrestri, aerei e navali e ai satelliti della NATO, eppure nel Mediterraneo si continua a morire, troppo spesso proprio a causa di ritardi e omissioni o per l’insufficienza dei soccorsi.    
È quanto accaduto ad esempio l’1 giugno 2011 nel tratto di mare tra la Tunisia e Lampedusa, quando un’imbarcazione con oltre 800 migranti è affondata per un guasto tecnico. Secondo la ricostruzione dei media tunisini, il barcone si sarebbe  capovolto quando molte persone, impaurite, hanno cercato di mettersi in salvo e raggiungere i gommoni della guardia costiera tunisina. Le unità, però, potettero soccorrere solo 577 persone, tra cui 92 donne e 21 bambini, mentre altre 200-270 persone morirono annegate, senza che sia stato poi possibile il recupero dei loro corpi. Chissà perché, allora, i potenti sensori delle forze armate atlantiche non furono in grado d’intercettare e lanciare l’SOS in tempo per evitare una delle peggiori tragedie in mare degli ultimi anni.
Ma può anche succedere che per imperizia o cinica follia una nave da guerra giunga a speronare un battello carico di rifugiati causandone l’affondamento. Impossibile non ricordare quanto accaduto lo scorso 10 febbraio in acque internazionali, quando la motovedetta della Guardia costiera tunisina Liberté 302, secondo quanto denunciato da alcuni sopravvissuti all’agenzia France Press, avrebbe “deliberatamente speronato” un’imbarcazione con a bordo 120 migranti, causando cinque morti e ventidue dispersi. Sempre secondo il racconto dei sopravvissuti, l’imbarcazione era partita da El-Ogla, località turistica nei pressi di Zarzis, ed era diretta a Lampedusa. “Dopo lo speronamento,  il nostro battello fu avvicinato da un elicottero militare italiano che filmò quanto accadeva e da un’altra unità della Guardia costiera tunisina”, aggiungono. Le forze armate italiane e tunisine hanno scelto però di secretare le dinamiche dell’“incidente”, facendosi garanti dell’impunità dei responsabili e dell’oblio per le vittime.
Impunità e oblio che incarnano l’immane vergogna dei respingimenti in mare e delle deportazioni manu militari di chi è riuscito a scampare ai naufragi e toccar terra nel sud Italia. Per fortuna, però, si riesce talvolta a rompere il muro di silenzio, e rivelare le gravi violazioni dei diritti umani e delle convenzioni internazionali che caratterizzano l’odierna guerra ai migranti. Il 21 agosto, gli operatori dell’associazione Askausa di Lampedusa hanno documentato l’ingresso in porto di un’unità della Guardia di finanza con una trentina di immigrati a bordo. Invece di attraccare, la nave si accostò ad un imbarcazione della Guardia costiera, trasbordò sei persone che richiedevano cure mediche (tra cui un paraplegico e due donne poi condotti nel presidio ospedaliero di Lampedusa), fece manovra e riprese la direzione del mare. Si apprenderà poi dall’agenzia Ansa che gli altri migranti, scampati ad un naufragio a circa trentacinque miglia dall’isola, erano stati imbarcati sulla nave della Marina Comandante Borsini, e successivamente consegnati a una motovedetta tunisina. Un modello operativo ripetutamente sperimentato in passato dall’Italia con la Libia del colonnello Gheddafi.
Citando fonti anonime “che hanno partecipato alle operazioni di soccorso in mare” degli immigrati deportati dalla Marina militare in quell’occasione (104 in tutto), il 28 agosto l’agenzia di stampa Redattore Sociale ha pubblicato un’inchiesta sulle modalità con cui ormai vengono applicati i respingimenti collettivi da parte italiana. “Le unità navali avvistano le barche di migranti - chiamate “target” in gergo militare - che si dirigono a Lampedusa”, scrive Redattore Sociale. “Avvistato il target, l’unità della Marina militare italiana avvisa il comando della Guardia di finanza che è preposta alla difesa delle frontiere e al controllo dell’immigrazione irregolare. A quel punto si coordinano tra loro per sorvegliare le imbarcazioni cariche di migranti, verificandone la rotta, la velocità e le condizioni di navigazione. Quando si ritiene che la barca sia partita dalla Tunisia, viene raggiunta dalle motovedette o dall’unità della Marina. I migranti vengono imbarcati sulla nave italiana e poi trasbordati di nuovo su una motovedetta tunisina”. L’agenzia di stampa denuncia infine i modi sommari e superficiali con cui si procede all’identificazione in mare dei migranti. “L’elemento fondamentale è la rotta a ovest di Lampedusa, l’altro aspetto su cui si basa il respingimento sono i tratti somatici. Dalla carnagione dei migranti, i militari intuiscono a occhio se sono arabi, somali o subsahariani. Un’identificazione collettiva che non permette di valutare se sulla barca ci sono potenziali richiedenti asilo, visto che la domanda di protezione internazionale avviene su base individuale e riguarda la storia personale di chi fa richiesta…”.
Respingimenti, devoluzioni e deportazioni sono il frutto dell’accordo sottoscritto il 5 aprile 2011 dai governi d’Italia e Tunisia, a conclusione di un lungo e difficile negoziato tra le parti. Come ha dichiarato il ministro dell’Interno italiano, Roberto Maroni, “si tratta di un accordo tecnico sulla cooperazione tra i due Paesi contro l’immigrazione clandestina” e sul “rafforzamento della collaborazione tra forze di Polizia”. Tra i punti più controversi la previsione del “rimpatrio diretto per i tunisini che sbarcheranno in Italia successivamente all’entrata in vigore del decreto sul permesso di soggiorno temporaneo”, firmato il 6 aprile dal presidente del consiglio Silvio Berlusconi. Nell’accordo non si fa accenno a tempi e modalità di svolgimento dei “rimpatri coatti”, consentendo alle parti ampia discrezionalità. Unica concessione al diritto che il rimpatrio avvenga solo “successivamente all’accertamento della nazionalità del migrante”, ma la vicenda del respingimento collettivo da Lampedusa a fine agosto, è emblematica dell’inaffidabilità delle identificazioni effettuate. L’accordo, infine, assicura un’illimitata libertà di azione alle unità militari italiane impegnate nel pattugliamento delle coste tunisine, mentre assegna alla Marina militare e alla Guardia costiera tunisina l’attività assai meno edificante e assai più pericolosa del blocco in mare e della riconduzione in patria delle imbarcazioni sequestrate.
In occasione della sua ultima visita a Lampedusa lo scorso 18 settembre, il ministro della Difesa, Ignazio La Russa, ha annunciato la firma di un “ulteriore accordo” tra i rispettivi ministeri dell’Interno che “consente nell’arco di una settimana, di rimpatriare coloro che non hanno diritto di rimanere”. Due giorni dopo, il quotidiano Avvenire ha rivelato che questo nuovo accordo “prevede cento rimpatri al giorno, per cinque giorni alla settimana”. Gli annunci del ministro hanno ulteriormente esasperato gli animi dei cittadini tunisini detenuti nel centro di contrada Imbricola a Lampedusa e, il pomeriggio del 20 settembre, la tensione è sfociata nell’incendio doloso di due capannoni utilizzati come alloggi e, qualche ora dopo, nelle violentissime cariche delle forze dell’ordine. “Il pericolo incombente che da tempo si sta segnalando a Lampedusa è che i tunisini che stanno all’interno del centro, in ripetute occasioni, hanno minacciato di incendiare il centro, come è già accaduto nel 2008”, aveva “profeticamente” annunciato il sindaco Bernardino De Rubies, a conclusione dell’incontro con La Russa. Benzina su benzina, odio su odi, guerra che si sovrappone alla guerra. E l’“emergenza” migranti che diviene sempre più militare e militarizzata. Non è un caso così che dopo gli scontri di Lampedusa, sia stato attivato un ponte aereo tra l’isola e la base aereonavale siciliana di Sigonella per trasferire centinaia di immigrati tunisini con due velivoli C-130 “Hercules” della 46^ Brigata dell’Aeronautica militare (Pisa).
Altrettanto ambiguo il ruolo assunto dalla Direzione generale per la cooperazione allo sviluppo (DGCS) del ministero degli Affari esteri italiano. A seguito della richiesta tunisina di contribuire al rimpatrio dei cittadini stranieri giunti in Tunisia dopo essere fuggiti dal conflitto libico, i primi giorni di marzo la DGCS ha inviato nell’area di Ras Ejder un advanced team per collaborare “all’immediato rimpatrio delle popolazioni interessate, alla costituzione di un presidio di coordinamento internazionale per le operazioni e all’equipaggiamento dei campi di accoglienza”. I rimpatri, coordinati dalla stessa Direzione per la cooperazione allo sviluppo, con il contributo di Protezione civile, ministeri della Difesa e dell’Interno e Croce Rossa Italiana, sono stati effettuati grazie ai C-130 “Hercules” dell’Aeronautica militare e a vettori Alitalia. Si è trattato in tutto di sei voli, tre verso l’Egitto, uno verso il Mali e due verso il Bangladesh per complessivi 863 cittadini di paesi terzi e di cui ovviamente è stato impossibile conoscere la disponibilità al “rimpatrio”. La DGSC ha inoltre contribuito con 500 mila euro al Libya evacuation and stabilization project lanciato dall’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) per “facilitare il rimpatrio dei cittadini di paesi terzi fuggiti verso Egitto e Tunisia, assicurando, in particolare, le procedure di identificazione dei fuoriusciti”.
Sempre con fondi della cooperazione allo sviluppo, l’Italia prevede di “concentrare la propria attenzione”, come dichiara la Farnesina, “sullo sviluppo delle regioni costiere, dal punto di vista ambientale, turistico e della sicurezza marittima”, attraverso “programmi già predisposti (creazione di una rete radar per il monitoraggio delle coste) o già approvati (programma per la protezione del Mediterraneo e programma per la diversificazione dell’offerta turistica)”. “È allo studio, inoltre, un programma di creazione di una rete radar contro l’inquinamento marino da 35 milioni di euro a credito d’aiuto (anch’esso con un tasso di concessionalità che lo rende equiparabile a un dono)”. Nell’ambito dello stesso “piano”, l’Italia prevede infine la fornitura alle forze di polizia tunisine di sei motovedette, quattro pattugliatori e un centinaio di fuoristrada, per un valore complessivo di 100 milioni di euro, a cui dovrebbe aggiungersi successivamente un altro sistema di rilevamento radar.
Quello della primavera 2011 non è purtroppo il primo patto anti-migranti sottoscritto da Italia e Tunisia. Nel 1998, l’allora governo Prodi firmò un “accordo per contrastare l’immigrazione clandestina”, stanziando a favore del governo tunisino 150 miliardi di lire in tre anni sotto forma di “crediti all’industria”. Nello stesso anno il Parlamento italiano ratificò la “Convenzione di cooperazione nel campo militare tra il Governo della Repubblica Italiana ed il Governo della Repubblica Tunisina” che consentì l’implementazione di programmi bilaterali nel campo della sorveglianza marittima, del trasferimento di sistemi d’arma e tecnologie militari, delle esercitazioni aeronavali. Nel 2009 il governo Berlusconi concesse a Ben Ali un “aiuto” di 50 milioni di euro, condizionato all’applicazione di “una più efficace politica di identificazione” da parte tunisina. Il 27 gennaio 2009, in particolare, con la visita a Tunisi del ministro Roberto Maroni e del capo della polizia italiana Antonio Manganelli, venne definito con le autorità tunisine un piano d’interventi per la “semplificazione e accelerazione delle procedure necessarie all’identificazione degli immigrati tunisini presenti nei Centri di identificazione ed espulsione italiani e il rimpatrio graduale e costante, entro il termine massimo di due mesi, di coloro che sono già stati identificati e si trovano nelle strutture di Lampedusa”.
Il comunicato finale della Commissione militare mista italo-tunisina, riunitasi a Roma dal 14 al 16 ottobre 2008 e copresieduta dai ministri della Difesa, Ignazio La Russa e Kamel Morjane, indicava le priorità di “combattere emigrazione ed immigrazione clandestina” e “perseverare nella lotta al terrorismo ed ai gruppi terroristici”. Oltre alla previsione di nuovi accordi collaborativi tra le rispettive accademie navali ed aeronautiche, l’Italia s’impegnava a ripristinare l’efficienza dei fari di Capo Bon e delle isole dei Cani e di Kuriat, di fronte a Monastir, a continuare a fornire sistemi, materiali e mezzi militari “in surplus” e “pezzi di ricambio per camion per un valore commerciale di 200.000 euro” e a “potenziare lo scambio dati in materia di controllo del traffico marittimo attraverso il programma della Marina italiana Virtual Regional Maritime Traffic Control (VRMTC)”, utilizzato particolarmente in funzione anti-immigrati.
Il consolidamento della partnership militare con la Tunisia ha permesso grandi affari al complesso militare industriale italiano, depauperando però le casse statali tunisine d’ingenti risorse finanziarie che potevano altrimenti essere destinate a ridurre i gap nell’offerta educativa, formativa, sanitaria e assistenziale, rafforzando le politiche di welfare. Sono di produzione italiana buona parte dei cacciaintercettori e degli elicotteri da guerra oggi a disposizione dell’aeronautica militare tunisina. Nello specifico sono stati acquistati una ventina di aerei Aermacchi MB-326, venticinque SIAI Marchetti nelle versioni F260 ed S208, ventisei elicotteri Agusta Bell (versione AB-205, 212 e 412) e cinque grandi aerei da trasporto Aeritalia G.222. Si tratta di velivoli già utilizzati e che potranno ancora essere efficacemente utilizzati nelle guerre “a bassa intensità” contro le migrazioni mediterranee.
Rilevanti ai fini della formazione delle forze armate tunisine nella vigilanza e nel blocco dei flussi migratori sono state le numerose esercitazioni realizzate nel quadro della cosiddetta Iniziativa 5+5 Difesa per la cooperazione, la sicurezza e la stabilità nel Mediterraneo (avviata nel 2004 dalle forze armate di Algeria, Francia, Italia, Libia, Malta, Mauritania, Marocco, Portogallo, Spagna e Tunisia) e del “Dialogo Mediterraneo”, il programma di cooperazione fra le marine NATO e quelle di Algeria, Egitto, Israele, Giordania, Mauritania, Marocco e Tunisia. Determinante infine il sostegno fornito dai reparti militari d’eccellenza degli Stati Uniti d’America e dal comando USAFRICOM, attivato a Stoccarda (Germania) per pianificare ed eseguire nuovi interventi armati USA nel continente africano.
Qualche mese fa l’amministrazione Obama ha approvato un piano a favore delle forze armate tunisine “per sostenere l’odierno cambiamento democratico” e che prevede la vendita di armamenti e mezzi militari per un valore di venti milioni di dollari. Il Dipartimento della difesa ha spiegato che l’aiuto statunitense è finalizzato “a potenziare la marina militare tunisina, principalmente nelle sue capacità di pattugliamento delle acque territoriali”. “Gli aiuti”, aggiunge il Pentagono, “consentiranno al governo di Tunisi di acquistare pattugliatori USA in surplus per intercettare imbarcazioni sospette di al-Qaeda e di migranti illegali in rotta tra il nord Africa e l’Europa”. Washington ha inoltre offerto la propria disponibilità a modernizzare i radar e gli elicotteri di produzione statunitense, in dotazione all’esercito e all’aeronautica militare tunisina e, inoltre, a fornire “addestramenti addizionali” e “velivoli da trasporto tattico terrestre”.
Nel periodo compreso tra il 1987 e il 2009, gli “aiuti” militari USA alla Tunisia hanno raggiunto complessivamente i 349 milioni di dollari. Ad essi vanno aggiunti i 282 milioni in pezzi di ricambio, motori, supporto tecnico e logistico e formazione, richiesti lo scorso anno dalla Defense Security Cooperation Agency nell’ambito del programma Foreign Military Sale per ammodernare i dodici elicotteri multimissione SH-60F delle forze armate tunisine. “Questa proposta di vendita contribuirà alla politica di sicurezza degli Stati Uniti e alla crescita nel campo della difesa di un paese amico che è stato e continua ad essere un’importante forza per il progresso economico e militare in nord Africa”, dichiarava il Dipartimento della difesa alla vigilia dello scoppio delle rivolte popolari contro Ben Ali. “Questo programma consentirà la modernizzazione dell’aeronautica militare tunisina, migliorerà le sue capacità operative di ricerca e riscatto in alto mare e l’interoperabilità con i mezzi delle forze armate USA e di altri partner della regione, svilupperà le capacità della Tunisia a effettuare missioni umanitarie, combattere gli incendi e mantenere l’integrità delle sue frontiere”. Elicotteri polivalenti, dunque, da impiegare per interventi militari, la protezione civile e, ancora una volta, per il contenimento delle migrazioni.
Nell’agosto 2010, infine, la holding statunitense Lockheed Martin ha comunicato la stipula di un contratto con la Tunisia per la fornitura di due grandi aerei da trasporto C-130J “Super Hercules”, la cui consegna è prevista nel 2013 e nel 2014. Negli hangar militari tunisini sono stipati già quattordici C-130 nelle versioni B, E ed H, ma la nuova versione raggiunge velocità ed autonomia d’azione superiori e consente il trasporto di carichi più pesanti. I C-130J vengono utilizzati normalmente per rifornire truppe ed equipaggiamenti via terra o con aviolanci, per il rifornimento in volo e il trasporto di aiuti umanitari. Lo scorso mese di marzo l’US Air Force li ha pure utilizzati, insieme ai KC-130 del Corpo dei marines, per il ponte aereo Djerba-Il Cairo che ha trasferito 640 cittadini egiziani rifugiatisi in Tunisia dalla Libia. L’operazione, coordinata dal Comando USAFRICOM, ha preso il via dalla base aerea tedesca di Ramstein. Dopo aver caricato generi alimentari, tende e contenitori d’acqua potabile stoccati nei depositi della base US Army di Camp Darby (Pisa), i velivoli cargo hanno effettuato una sosta tecnica negli scali aerei di Souda Bay a Creta e Sigonella, in Sicilia. Da lì hanno poi preso il volo verso Djierba. Chissà se, all’occorrenza, i velivoli acquistati dai militari tunisini non verranno utilizzati per deportare nell’Africa sub-sahariana ed orientale i rifugiati espulsi dai centri-lager di mezza Europa…

Relazione presentata in occasione dell’incontro internazionale Ripensare le migrazioni: per una libera circolazione nello spazio euro-mediterraneo, tenutosi a Tunisi il 30 settembre e l’1 ottobre 2011.

Antonio Mazzeo, militante ecopacifista ed antimilitarista, impegnato in progetti di cooperazione allo sviluppo, ha pubblicato alcuni saggi sui temi della pace e della militarizzazione del territorio, sulla presenza mafiosa in Sicilia e sulle lotte internazionali a difesa dell’ambiente e dei diritti umani. È membro della Campagna per la smilitarizzazione della base di Sigonella. Nel 2010 ha ricevuto il Premio “Giorgio Bassani” di Italia Nostra per il giornalismo. Saggi e inchieste sono consultabili in http://antoniomazzeoblog.blogspot.com.

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