Gli emiri, il Milan, l’Inter, la Juve e il Ponte sullo Stretto
La notizia dei 500 milioni di euro offerti dall’Abu Dhabi United Group for the Development and Investment (ADGDI) per rilevare il 40% del pacchetto azionario del Milan calcio ha fatto il giro del mondo, mettendo in fibrillazione azionisti, scommettitori e tifosi. Il presidente del Consiglio e proprietario della blasonata squadra italiana, Silvio Berlusconi, ha smentito qualsivoglia trattativa di cessione, ma ci sono troppe strane coincidenze per poter archiviare frettolosamente l’intera vicenda. Innanzitutto perché dietro l’operazione ci sarebbe lo sceicco Mansour Bin Zayed Al Nayhan, membro della famiglia che governa l’emirato di Abu Dhabi, nonché proprietario del Manchester City, team inglese del solo qualche mese fa aveva chiesto di acquistare Kaká dal Milan, in cambio di 108 milioni di euro.
Poi perché dal 10 agosto 2007, l’Abu Dhabi Investment Authority, il principale fondo degli Emirati Arabi Uniti, possiede il 2,04% del capitale di Mediaset, la cassaforte dell’impero Berlusconi e, secondo alcuni analisti economici, punterebbe a rastrellare un altro 3% delle azioni del biscione, sfruttando l’uragano finanziario che si è abbattuto sulle borse mondiali. Terzo, perché è sotto gli occhi di tutti la convergenza di politiche ed interessi economici tra il governo italiano e il piccolo emirato arabo. A fine gennaio, ad esempio, l’Abu Dhabi Tourism Authority (ADTA), l’autorità statale che dirige l’industria turistica, ha aperto due uffici di rappresentanza in Italia, uno a Roma e uno a Milano. Il 4 febbraio, la sottosegretaria al Turismo, Michela Brambilla, fedelissima berlusconiana, si è recata in Medio Oriente per inaugurare il forum del turismo alberghiero Italia-Abu Dhabi ed insignire lo sceicco Sultan Bin Tahnoon Al Nahyan (stretto congiunto del titolare del Manchester) e presidente di ADTA, dell’onorificenza di Grande Ufficiale Ossi della Repubblica italiana.
Poi perché dal 10 agosto 2007, l’Abu Dhabi Investment Authority, il principale fondo degli Emirati Arabi Uniti, possiede il 2,04% del capitale di Mediaset, la cassaforte dell’impero Berlusconi e, secondo alcuni analisti economici, punterebbe a rastrellare un altro 3% delle azioni del biscione, sfruttando l’uragano finanziario che si è abbattuto sulle borse mondiali. Terzo, perché è sotto gli occhi di tutti la convergenza di politiche ed interessi economici tra il governo italiano e il piccolo emirato arabo. A fine gennaio, ad esempio, l’Abu Dhabi Tourism Authority (ADTA), l’autorità statale che dirige l’industria turistica, ha aperto due uffici di rappresentanza in Italia, uno a Roma e uno a Milano. Il 4 febbraio, la sottosegretaria al Turismo, Michela Brambilla, fedelissima berlusconiana, si è recata in Medio Oriente per inaugurare il forum del turismo alberghiero Italia-Abu Dhabi ed insignire lo sceicco Sultan Bin Tahnoon Al Nahyan (stretto congiunto del titolare del Manchester) e presidente di ADTA, dell’onorificenza di Grande Ufficiale Ossi della Repubblica italiana.
Il presidente del consiglio e il ministro della difesa Ignazio La Russa, sono andati ben oltre. Hanno inviato il pattugliatore d’altura Comandante Bettica per fare da ambasciatore del complesso militare industriale italiano al salone internazionale della difesa IDEX 2009 organizzato ad Abu Dhabi dal 22 al 26 febbraio 2009.
All’appuntamento dei mercanti di guerra, il gruppo Finmeccanica, in buona parte proprietà del Tesoro, si è presentato al gran completo: la controllata Alenia Aeronautica per piazzare aerei antisommergibile e anti-nave ATR-72-ASW ed i velivoli da trasporto tattico C-27J Spartan; Alenia Aermacchi, gli addestratori M-311 ed M-346; Agusta Westland, gli elicotteri da combattimento AW-119 Koala, AW-129, Super Lynx 300 ed NH-90; Oto Melara, i cannoni navali 76/62 e i blindati Centauro; Drs Technologies, i sistemi di rilevamento e sorveglianza utilizzati in mezzo mondo contro i migranti.
All’appuntamento dei mercanti di guerra, il gruppo Finmeccanica, in buona parte proprietà del Tesoro, si è presentato al gran completo: la controllata Alenia Aeronautica per piazzare aerei antisommergibile e anti-nave ATR-72-ASW ed i velivoli da trasporto tattico C-27J Spartan; Alenia Aermacchi, gli addestratori M-311 ed M-346; Agusta Westland, gli elicotteri da combattimento AW-119 Koala, AW-129, Super Lynx 300 ed NH-90; Oto Melara, i cannoni navali 76/62 e i blindati Centauro; Drs Technologies, i sistemi di rilevamento e sorveglianza utilizzati in mezzo mondo contro i migranti.
C’è pure l’ombra di Abu Dhabi sui lavori del Ponte sullo Stretto di Messina, obiettivo strategico dell’esecutivo Berlusconi. Lo hanno scoperto i magistrati romani che indagavano su un anziano ingegnere italo-canadese, Giuseppe Zappia, che aveva partecipato alla fase di pre-qualifica per la progettazione e l’esecuzione dell’opera. Secondo la Procura capitolina che ne ha chiesto il rinvio a giudizio, il professionista si sarebbe mosso per conto del boss Vito Rizzuto (capo della criminalità organizzata del Canada e stretto alleato del clan Bonanno di New York), intenzionato ad investire nell’operazione Ponte un paio di milioni di dollari provenienti dal traffico di stupefacenti.
Sempre secondo i magistrati romani, una parte del denaro per i lavori nello Stretto di Messina sarebbe dovuto arrivare dalla riscossione di una ingente somma in Medio Oriente da parte dell’ingegnere Zappia e di alcuni associati del Rizzuto. In particolare, il professionista italo-canadese aspirava ad entrare in possesso di un miliardo e settecento milioni di dollari corrispondenti al valore di alcuni lavori realizzati ad Abu Dhabi dalla ZMEC - Zappia Middle East Company Ltd., società costituita nel paradiso fiscale delle Isole Vergini. Nell’emirato arabo, tra il 1979 e il 1982, mister Zappia aveva progettato un acquedotto di oltre quattrocento chilometri ed ottenuto ben otto contratti di costruzioni civili. Sorsero tuttavia dei contrasti con gli enti committenti e la vicenda finì davanti ad un tribunale civile degli Stati Uniti d’America.
Sempre secondo i magistrati romani, una parte del denaro per i lavori nello Stretto di Messina sarebbe dovuto arrivare dalla riscossione di una ingente somma in Medio Oriente da parte dell’ingegnere Zappia e di alcuni associati del Rizzuto. In particolare, il professionista italo-canadese aspirava ad entrare in possesso di un miliardo e settecento milioni di dollari corrispondenti al valore di alcuni lavori realizzati ad Abu Dhabi dalla ZMEC - Zappia Middle East Company Ltd., società costituita nel paradiso fiscale delle Isole Vergini. Nell’emirato arabo, tra il 1979 e il 1982, mister Zappia aveva progettato un acquedotto di oltre quattrocento chilometri ed ottenuto ben otto contratti di costruzioni civili. Sorsero tuttavia dei contrasti con gli enti committenti e la vicenda finì davanti ad un tribunale civile degli Stati Uniti d’America.
Ottenute le commesse e avviati i lavori ad Abu Dhabi, intorno alla metà del 1982, la ZMEC si vide prima ritardare il pagamento di una tranche, poi ricevere comunicazione del blocco dei restanti pagamenti. Nel gennaio 1983, l’ingegnere Zappia fu costretto a chiedere un prestito alla Emirates Commercial Bank (ECB). L’istituto impose alla ZMEC di trasferire le commesse ad un’altra società internazionale. “Ho dovuto sottoscrivere quest’accordo perché mi minacciarono di mettermi in prigione”, ha dichiarato Giuseppe Zappia.
Due anni più tardi, la ECB ed altre due banche dell’emirato furono ricapitalizzate e si fusero nell’Abu Dhabi Commercial Bank. Dopo aver chiesto ripetutamente alle autorità dell’emirato un congruo rimborso per le attrezzature della ZMEC che erano state sequestrate e cedute ad altre imprese, nel 1994 l’ingegnere citò di fronte alla giustizia americana l’Abu Dhabi Commercial Bank e l’Abu Dhabi Investment Authority, l’autorità statale che qualche anno più tardi avrebbe acquistato una consistente quota azionaria di Mediaset.
Il giudice distrettuale di New York rigettò il ricorso e nel giugno del 2000 arrivò per l’italo-canadese una sentenza d’appello altrettanto sfavorevole. A questo punto, per ottenere l’ambito risarcimento dall’allora presidente del consiglio di Abu Dhabi, Sheikh Kalifa bin Zayed Al Nahyan, Zappia contattò inutilmente il generale in capo dell’esercito USA di stanza nell’emirato ed alcune delle maggiori autorità del mondo arabo, come il sovrano del Marocco, il presidente siriano, il re di Giordania e il presidente palestinese Yasser Arafat. L’ingegnere si affidò allora ad un mediatore d’affari franco-algerino, Hakim Hammoudi, personaggio che secondo la Procura di Roma stava seguendo per conto del boss Rizzuto alcuni affari in Europa e nel Golfo Persico. Alla vigilia della gara per i lavori del Ponte, Hammoudi comunicò a Zappia di essere riuscito a sbloccare il credito avanzato ad Abu Dhabi grazie alla collaborazione di un non meglio specificato “principe” della casa regnante in Arabia Saudita, anch’egli interessato ad entrare nel grande affaire dello Stretto.
Il 19 luglio 2003, Zappia veniva intercettato mentre dialogava al telefono con Vito Rizzuto ed Hakim Hammoudi. “Penso che stiamo arrivando alla fine adesso, o no?!”, domandava Rizzuto. “Comunque loro, da come la vedo io, vogliono dare qualche cosa ma non è abbastanza. Vediamo se possiamo prendere di più”. Gli ordini di cattura emessi dalla Procura di Roma nell’ambito dell’inchiesta Brooklin contro Zappia, Rizzuto e Hammoudi impedirono la conclusione della controversia finanziaria con le autorità statali di Abu Dhabi.
Il 19 luglio 2003, Zappia veniva intercettato mentre dialogava al telefono con Vito Rizzuto ed Hakim Hammoudi. “Penso che stiamo arrivando alla fine adesso, o no?!”, domandava Rizzuto. “Comunque loro, da come la vedo io, vogliono dare qualche cosa ma non è abbastanza. Vediamo se possiamo prendere di più”. Gli ordini di cattura emessi dalla Procura di Roma nell’ambito dell’inchiesta Brooklin contro Zappia, Rizzuto e Hammoudi impedirono la conclusione della controversia finanziaria con le autorità statali di Abu Dhabi.
A rendere piuttosto ingombranti amicizie e affari dell’establishment italiano con la famiglia che governa l’emirato non c’è solo però l’episodio che ha visto protagonisti Zappia e Rizzuto. Lo sceicco Kalifa bin Zayed Al Nahyan, padre dell’odierno emiro di Abu Dhabi, Khalifa bin Zayed bin Sultan Al Nahyan, sino alla sua morte avvenuta nel 2006 è stato strettamente legato alle organizzazioni dell’estremismo religioso islamico. Negli anni ’60, Sheikh Kalifa bin Zayed visitò il Beluchistan pakistano sotto la protezione di un anziano funzionario dei servizi segreti di quel paese, che lo mise in contatto con molti dervisci e mistici locali. Fu proprio grazie a questi contatti che l’emiro di Abu Dhabi incontrò l’uomo d’affari pachistano Agha Hassan Abedi, divenendone grande amico e collaboratore sul piano economico-finanziario. Agha Hassan Abedi è il fondatore della BCCI, la Bank of Credit and Commerce International, più nota come Criminal Bank, per anni il più importante centro di “lavaggio” del denaro proveniente dal narcotraffico, utilizzata dalla CIA per la conduzione di operazioni clandestine a favore dell’ex alleato Saddam Hussein, del dittatore pakistano Mohammed Zia, della Contra nicaraguese e della resistenza islamica all’occupazione sovietica dell’Afghanistan. Fu proprio grazie all’amicizia con il potente emiro Zayed Al Nahyan, che la BCCI ebbe la possibilità di aprire tre filiali negli Emirati Arabi Uniti.
Il fervore religioso dell’ex capo di governo lo convinse a finanziare la realizzazione ad Abu Dhabi della più grande moschea del mondo, 500 mila metri quadrati di superficie. Il primo lotto dei lavori per un importo di 120 milioni di dollari, fu affidato nel 1996 a due imprese italiane, la Rizzani de Eccher di Udine ed Impregilo.
Quest’ultima è oggi capofila della cordata general contractor per i lavori del Ponte di Messina. Attraverso la controllata Fisia Italimpianti, Impregilo ha pure realizzato ad Abu Dhabi sette dissalatori; recentemente ha sottoscritto con l’emirato un contratto per un nuovo dissalatore della capacità di cento milioni di galloni al giorno ed una centrale elettrica di 1.500 MW a Shuweihat, lungo la costa del Golfo Persico.
Quest’ultima è oggi capofila della cordata general contractor per i lavori del Ponte di Messina. Attraverso la controllata Fisia Italimpianti, Impregilo ha pure realizzato ad Abu Dhabi sette dissalatori; recentemente ha sottoscritto con l’emirato un contratto per un nuovo dissalatore della capacità di cento milioni di galloni al giorno ed una centrale elettrica di 1.500 MW a Shuweihat, lungo la costa del Golfo Persico.
Ma non finiscono qua i flirt interessi italiani con Abu Dhabi. Nel luglio 2005, la maggiore società d’investimenti del governo, la Mubadala Development Company, ha acquisito il 5% del pacchetto azionario della prestigiosa scuderia automobilistica Ferrari, controllata in parte da Gemina-Fiat, al tempo maggiore azionista d’Impregilo. Successivamente è arrivato l’acquisto del 35% della Piaggio Aereo Industry, storico gruppo produttore di velivoli civili e militari. Mubadala è oggi uno dei maggiori partner internazioni del colosso dell’industria bellica statunitense Lockheed Martin.
Dopo l’automobilismo è arrivato il calcio. Dicevamo del Manchester City. Poi, a fine 2008, l’Abu Dhabi Sports Council, il ministero dello Sport nazionale, ha stipulato un accordo triennale con l’Inter Football Club di Milano per lo sviluppo del calcio giovanile nell’emirato e la formazione degli allenatori delle 5 squadre presenti sul suo territorio: Al Jazeera, Al Wahda, Al Ain, Baniyas, Al Dafra. È notizia di questi giorni il tentativo di scalata al Milan da parte dell’Abu Dhabi United Group for the Development and Investment.
Come se ciò non bastasse, ci sono le cointeressenze “indirette” in un’altra grande squadra del calcio italiano. L’Abu Dhabi Investment Authority possiede il 25% dell’Arab Banking Corporation (ABC), istituto finanziario d’eccellenza in Nord Africa e Medio oriente, con sede a Manama, Bahrain. Un altro 26% delle quote dell’ABC è in mano alla Central Bank of Lybia, la banca centrale dello stato nord africano.
Partner strategico del governo di Gheddafi nell’implementazione del piano di privatizzazione di istituti finanziari ed imprese, l’Arab Banking Corporation detiene il 7,5% delle azioni della Juventus di Torino, più altri cospicui pacchetti di Unicredit, Fiat ed ENI.
Gheddafi è un altro leader arabo super corteggiato da Berlusconi & C. I capitali generati dall’export petrolifero fanno gola a banche, assicurazioni, società di costruzioni e produttori d’armi. E chissà che fanta-campionato ci aspetta con emiri e colonnelli a contendersi squadre, calciatori, allenatori e presidenti…Partner strategico del governo di Gheddafi nell’implementazione del piano di privatizzazione di istituti finanziari ed imprese, l’Arab Banking Corporation detiene il 7,5% delle azioni della Juventus di Torino, più altri cospicui pacchetti di Unicredit, Fiat ed ENI.
Articolo pubblicato in Agoravox.it il 26 febbraio 2009
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