Le mafie nel mondo. Lo stretto di Hormuz, quello di Messina e la Libia
Fusiorari intervista Antonio Mazzeo, giornalista impegnato negli ambiti dell’antimilitarismo e dell’ecopacifismo ed esperto di temi come il commercio internazionale d’armi. Ai nostri microfoni Mazzeo ha parlato delle spese militari dell’Italia, del silenzio dei media, delle ingerenze dei colossi industriali e finanziari nelle scelte di politica estera e del controverso intervento in Libia.
In questi giorni il nostro Paese è alle prese con una crisi economico-finanziaria che ha richiesto dei sacrifici ai cittadini italiani. Eppure le spese relative agli armamenti continuano a essere cospicue. Proprio lei nel suo blog informava che nel mese di novembre l’Italia ha siglato con il Dipartimento della Difesa Usa un contratto da 15 milioni di dollari per l’acquisto di due Predator, ossia due velivoli senza pilota (transazione poi negata dal Congresso per timore della diffusione di informazioni sulla tecnologia utilizzata, nda). Inoltre le missioni italiane all’estero sono costate nel 2011 un miliardo e mezzo di euro. Perché non sono stati effettuati dei tagli anche su questo fronte?
L’elemento più preoccupante di questo governo è la continuità con il precedente di centro-destra, che nel corso di quattro anni ha aumentato in termini reali la spesa militare e la percentuale di uscite destinate alle operazioni militari all’estero e all’acquisto di armi. Per’altro non si tratta soltanto dei Predator, ma soprattutto degli F35, i cacciabombardieri prodotti dalla statunitense Lockheed Martin, il cui acquisto potrebbe richiedere una spesa che si aggira intorno ai 15, 16 miliardi di euro. Inoltre la nomina a Ministro della Difesa dell’ammiraglio Giampaolo Di Paola, già capo di Stato maggiore della difesa, che ha seguito direttamente e indirettamente la vicenda degli F35 e di altre armi che dovevano essere acquistate, è la prova che non ci si può aspettare nessun cambiamento di rotta dal nuovo governo. Nonostante gli enormi tagli alle spese sociali nulla si dice e nulla si è fatto a proposito delle spese militari. Continuare a pensare di potersi ritagliare un ruolo da potenza mondiale, anche se la nostra economia viene scavalcata giorno dopo giorno da Paesi del sud del mondo come Brasile e Argentina, comporta il continuare a considerare un tabù l’abbassamento delle spese militari.
Perché i mezzi di informazione nazionale si interessano così poco al tema del commercio internazionale d’armi e soprattutto a quello delle spese che lo Stato destina ogni anno all’acquisto di mezzi bellici e al sostegno delle missioni all’estero?
L’inchiesta della Procura di Roma su alcune società del gruppo Finmeccanica ha dimostrato che i fondi neri da esse creati, oltre a nutrire un sistema di corruzione politica, hanno finanziato anche fondazioni e un’enorme quantità di testate giornalistiche e scientifiche: Finmeccanica si è dunque assicurata un controllo diretto sui mezzi di informazione. Controllo diretto che viene esercitato anche da parte delle banche, che sono le principali fonti di finanziamento dei più importanti quotidiani italiani. Fin tanto che i mezzi di informazione saranno controllati da colossi industriali e banche e fin tanto che il governo italiano sarà il governo dei banchieri, purtroppo dobbiamo aspettarci pochi cambiamenti. Un esempio concreto? Io sono rimasto sconvolto nell’occuparmi delle vicende relative all’installazione dei cosiddetti radar anti-migranti. Prodotti in Israele, hanno come rappresentante italiana l’AlmavivA Spa di Roma che vede tra i propri azionisti la Rai. Ebbene, nessuno ha saputo nulla di queste vicende. Se la Rai, che dovrebbe fare informazione, di fatto è un’impresa che controlla società che hanno interessi enormi nei complessi industriali militari, mi pare evidente che ci sia poco da aspettarsi dal punto di vista dell’informazione su questi temi.
L’Eni coinvolto negli affari libici, la Finmeccanica che sigla contratti con Paesi come Qatar, Bahrein, Kuwait, Algeria, Kenya, Pakistan: quanto le scelte della politica estera italiana sono influenzate da questi grandi colossi industriali?
Credo sia possibile affermare che nonostante l’Italia sia un Paese democratico, dotato di una Costituzione che prevede ruoli specifici per le grandi scelte della politica nazionale ed estera, sono sempre state le grandi industrie, le grandi holding ad avere deciso. Storicamente l’Eni, negli ultimi anni anche Finmeccanica. La vicenda libica ne è una grande conferma: l’Italia aveva firmato un trattato internazionale con la Libia e aveva in ballo grandi interessi con lo stesso Gheddafi. Ma l’amministratore delegato Eni (Paolo Scaroni, nda), che ha intelligentemente individuato in anticipo i vincitori di questa guerra, ha fatto sì che l’Italia si schierasse contro il regime, demonizzando l’ex alleato Gheddafi per dittatura. Tutto a vantaggio dell’Eni e a svantaggio dell’Italia, che ha perso l’occasione di giocare un naturale e importante ruolo di mediazione, prima per evitare il conflitto, poi per risolverlo nel modo più indolore per le popolazioni civili Oggi abbiamo riconosciuto il nuovo governo, nuovo partner dell’Eni, nonostante non abbia ancora una Costituzione e non abbia ancora firmato nessun trattato internazionale in difesa dei diritti umani.
Perché la comunità internazionale è intervenuta tempestivamente in Libia e non ancora in Siria? E soprattutto, perché i massacri dei civili, che per settimane hanno giustamente occupato le copertine dei giornali e dei tg ai tempi della Libia, ricevono sensibilmente meno attenzione oggi nel caso della Siria?
Interessi. Questo vale per tutti i Paesi africani, perché la guerra non è solo a Damasco, ma in tutto il Medio Oriente, nel Corno d’Africa, in Somalia, con la presenza di Paesi stranieri come gli Stati Uniti, in Kenya; è in corso una guerra nell’area dei Grandi Laghi, una guerra si sta scatenando in alcuni Stati della Nigeria. Di ciò non si parla. Anche perché lì sono enormi gli interessi di gruppi petroliferi come l’Eni. Penso però che intorno alla Siria orbitino anche altre questioni. Innanzitutto la Siria è un protettorato dell’Iran, un Paese con il quale l’Italia continua ad avere grossi interessi economici, principalmente l’Eni, ma anche il complesso militare-industriale: ricordo per esempio che alcuni anni fa delle testate sarde denunciarono l’addestramento di caccia militari iraniani nei poligoni sardi. Insomma, l’Iran è un Paese nei confronti del quale non conviene innalzare il rischio di scontro e questa problematica si riflette sull’atteggiamento dell’Italia e di tutta la comunità internazionale nei confronti della Siria.
In effetti proprio in questi giorni il premier italiano Mario Monti nella conferenza stampa di fine anno apriva all’intenzione dell’Unione Europea di praticare l’embargo nei confronti del petrolio iraniano a eccezione delle forniture di greggio che l’Eni importa a titolo di pagamento di crediti della National Iranian Oil Company, che pare ammontino a due miliardi di dollari. Forse è anche alla luce di questi interessi che si può spiegare il non intervento italiano in Siria…
Certamente, ma l’esperienza libica indica quanto i grandi gruppi economici italiani abbiano la capacità di mutare alleanze quando fiutano che stanno cambiando i rapporti di forza. Questo dimostra ancora una volta come non sia il Parlamento, o non solo il Parlamento, e in esso le forze politiche, a confrontarsi sulle scelte e sul ruolo internazionale che dovrebbe assumere l’Italia. Sono invece i grandi manager con i loro interessi a poter imporre che quello che oggi è un nostro alleato principale, l’Iran, diventi domani un nemico. Questo potrebbe portare l’Italia a una scelta scellerata perché aprire oggi un contenzioso con l’Iran significherebbe rischiare la terza guerra mondiale L’Iran non è né l’Iraq, né l’Afghanistan: l’Iran è una potenza con capacità nucleari, è una potenza che gode del riconoscimento religioso datogli dai gruppi sciiti. Oggi uno scontro con l’Iran potrebbe avere un effetto domino devastante su tutto il Medio Oriente, dal Nord Africa, sino al Sud-Est Asiatico.
Proprio l’attualità, e in particolare il braccio di ferro fra Iran e Stati Uniti intorno allo stretto di Hornuz, ha reso in questi giorni più che mai possibile lo scoppio di un nuovo conflitto. La situazione si fa ancora più pericolosa se collegata alla notizia, pubblicata da The Guardian e mai smentita, secondo la quale fonti ufficiali britanniche avrebbero dichiarato che nel caso di attacco statunitense all’Iran la Gran Bretagna fornirebbe il suo pieno sostegno. Attacco all’Iran che, pare, coinvolgerebbe come partner anche Israele e Turchia…
Aggiungerei anche l’Arabia Saudita, che ha firmato qualche giorno fa un ricco contratto con gli Stati Uniti d’America per la fornitura d’armi. Gli Americani ritengono che nell’ambito del processo di accerchiamento dell’Iran si possa chiudere un occhio con un Paese come l’Arabia Saudita, che senza dubbio ha avuto delle responsabilità colossali nell’11 settembre e nella protezione di gruppi politico-militari afferenti alla cosiddetta costellazione di Al Qaeda.
Quanto è alto il rischio dello scoppio di una guerra oggi?
Purtroppo la mia generazione si sta abituando a pensare che la follia umana non conosca limiti. La razionalità spingerebbe a pensare che si voglia fare soltanto un gioco di muscoli per innalzare il livello di tensione e che nessuno abbia intenzione di andare oltre. Io credo che le esperienze delle guerre in Iraq e Afghanistan, insieme alla follia di quella in Libia, possano dimostrare da un lato la totale inopportunità di un nuovo conflitto, ma dall’altro che, di fronte a quello che è accaduto in questi anni, purtroppo dobbiamo abituarci ad aspettarci il peggio.
Qual è il possibile ruolo dell’Italia in questo scenario?
Se l’Italia fosse un Paese governato da intelligenza e razionalità, potrebbe giocare un grande ruolo di mediazione internazionale, per gli interessi economici che la legano all’Iran, per il riconoscimento di cui gode da Paesi nemici dell’Iran, come l’Arabia Saudita, Israele e Stati Uniti. Dal momento che invece è stata governata per anni dal folle superomismo di Berlusconi e oggi dalle banche con l’enorme pressione di Eni e Finmeccanica, dubito che avrà realmente la capacità di giocare questo ruolo. E stesso discorso vale per Germania, Francia e in primis Gran Bretagna, che appunto ha già dichiarato la disponibilità a scendere in campo a fianco degli Stati Uniti nel caso di un attacco all’Iran. E sarà l’ennesima occasione sprecata per l’Europa.
Tra i principali acquirenti delle armi made in Italy figurava la Libia. Ciò è avvenuto anche durante i primi giorni del conflitto, prima della risoluzione 1970 dell’Onu che ha introdotto l’embargo, in violazione della legge 185 del 1990 che vieta la vendita di armi a Paesi belligeranti. Inoltre all’inizio delle ostilità le truppe ghedaffiane imbracciavano armi italiane…
Pecunia non olet. La Libia è l’unico Paese al quale non dovevamo vendere armi e con il quale non dovevamo firmare un contratto bilaterale di quel tipo (il trattato di Bengasi, nda), a cui si lasciava il lavoro sporco che la Marina Militare non voleva fare, ossia quello di tenere distanti dalle nostre coste i migranti africani. A costo che essi venissero rinchiusi, affamati e assetati, come effettivamente è successo nei lager aperti nel deserto meridionale della Libia. L’Italia continua a esportare armi in buona parte dei Paesi americani e si avvale di triangolazioni a mio parere illegali per far giungere aerei, per esempio in Afghanistan. A Vicenza, nell’Istituto CoESPU, addestriamo le forze armate di Paesi africani o del Medio Oriente che sono all’indice per la violazione dei diritti umani presso Amnesty International e Human Rights Watch. A questo proposito reputo che la vera vergogna sia costituita dalla totale assenza di attenzione e interesse da parte dei media: sono solo i blog, le testate di movimento, i piccoli ricercatori a occuparsi e denunciare costantemente queste situazioni. Inoltre trovo veramente grave che simili temi non vengano discussi nel luogo che la Costituzione prevede come sede sovrana, ossia il Parlamento.
Recentemente Fusiorari ha intervistato il professor Carlo Tombola, coordinatore scientifico di OPAL (Osservatorio Permanente sulle Armi Leggere). Il professore ha esposto una tesi molto interessante secondo la quale la maggior parte dei conflitti in corso, concentrati nel Sud del mondo, sarebbero fomentati e scatenati dai governi dei Paesi più sviluppati come una sorta di misura di protezione dalla pressione demografica che dal Mediterraneo meridionale e dall’America Latina preme oggi sull’Occidente. Lei cosa ne pensa?
Io credo ancora che le guerre vengano fatte scatenare per interessi economici rispetto allo sfruttamento delle risorse, il controllo delle fonti idriche, l’export delle armi ecc. Sicuramente ci sono tra i gruppi di estrema destra americani o internazionali coloro che ritengono necessario colpire il Sud del mondo per il pericolo di grandi invasioni: credo però che non siano queste le ragioni che portano i grandi Paesi a spingere sui confini. Sicuramente le guerre, insieme allo sfruttamento dissennato dei territori, hanno l’effetto di provocare il flusso di milioni di persone, che dal sud sono costrette, per problemi climatici, per fame, per sfuggire alla distruzione, a spostarsi vero il nord. Pertanto, se davvero ci fossero queste logiche, sarebbero perdenti, perché provocherebbero proprio l’effetto di investire il nord del mondo di grandi quantità di rifugiati. E a queste masse, che noi stessi abbiamo messo in movimento con dissennate scelte politiche, economiche e ambientali, non siamo in grado di rispondere altrimenti se non attraverso la militarizzazione delle coste e i respingimenti…
Restiamo in Italia, ma cambiamo argomento. Ad aprile del 2010 ha pubblicato “I padrini del ponte”, in cui parlava del coinvolgimento delle cosche mafiose nel progetto di costruzione del ponte sullo Stretto di Messina e in particolare di quello dei Rizzuto, una delle più potenti famiglie mafiose del Nord America. A più di un anno di distanza dalla pubblicazione del suo lavoro (per cui ha già rilasciato un’intervista a Fusiorari) a che punto è il progetto?
Innanzitutto ritengo opportuno parlare, per il ponte di Messina, di non-progetto. Esiste un progetto definitivo, una montagna di cartacce, che dovrebbe andare in discussione al CIPE, il quale appunto dovrebbe prendere la decisione definitiva. Questo non-progetto il mese scorso è stato distrutto a 360 gradi dalle organizzazioni ambientaliste che hanno presentato migliaia di motivazioni circa l’insostenibilità del ponte dal punto di vista tecnico-ingegneristico, ambientale, economico, sociale. Il governo dovrebbe mettere una pietra tombale su questo progetto, che già è costato tra i 400 e i 500 milioni di euro solo per tenere in vita la società Stretto di Messina. Non nutro però grandi speranze nel governo: il Ministro Passera e Monti continuano a rinviare di giorno in giorno la decisione definitiva. Quello che mi preoccupa è la nomina a viceministro allo Sviluppo Economico con delega alle Infrastrutture di Mario Ciaccia, già amministratore delegato di Banca Infrastrutture Innovazione e Sviluppo del gruppo San Paolo, che ha fornito le fidejussioni al general contractor del ponte sullo stretto di Messina. Senza dimenticare che i grandi gruppi bancari sono quelli che hanno garantito la copertura dei buchi finanziari di grandi società di costruzioni, Impregilo in testa. Se perdesse il grande affare del ponte sullo stretto, credo che Impregilo resterebbe con uno scoperto di 500 milioni di euro, che significherebbe il tracollo. Credo dunque che i grandi gruppi bancari, ben rappresentati al governo, non abbiano intenzione di lasciar fallire le imprese di costruzioni per paura di perdere gli enormi crediti concessi.
Si intravede l’infiltrazione di altre organizzazioni criminali, soprattutto internazionali?
La manifesta insostenibilità del ponte e le inchieste giudiziarie che hanno praticamente decapitato e decimato la famiglia dei Rizzuto sembrano aver allontanato l’interesse delle organizzazioni criminali, anche se le cosche mafiose siciliane e calabresi continuano a scommettere sulla grande opera. Nel caso in cui essa venisse realizzata, il suo alto valore simbolico attrarrebbe indubbiamente i capitali finanziati delle mafie internazionali
Intervista a cura di Federica Casarsa pubblicata in FusiOrari.org International Weekly Magazine
Parte 1, Martedì 10 Gennaio 2012,
Parte 2, Lunedì 16 Gennaio 2012,
http://www.fusiorari.org/interviews/interviste/744-le-mafie-nel-mondo-parla-antonio-mazzeo-pt-2.html
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