L’Italia armata e le “lezioni” afghane

 


Herat, 23 febbraio 2018. Alla presenza del presidente afgano Ashraf Ghani, di quello turkmeno Gurbanguly Berdymukhamedov, del primo ministro pakistano Shahid Khaqan Abbasi, del comandante supremo delle forze alleate in Europa gen. Curtis Scaparrotti e dei rappresentanti diplomatici di Stati Uniti, Germania, Turchia e Italia, prendono il via i lavori di realizzazione del gasdotto TAPI Turkmenistan-Afghanistan-Pakistan-India, 1.814 chilometri di tubazioni per collegare i giacimenti turkmeni di Galkynysh alla città indiana di Fazilka. Un progetto di oltre 10 miliardi di dollari, finanziato dai quattro paesi, dall’Asian Development Bank e dall’Islamic Development Bank, con tanto di benedizione di Washington, Mosca e Pechino. Il tratto afgano del gasdotto attraverserà da nord a sud l’Afghanistan, da Herat a Farah e Kandahar fino al confine pakistano.

“Imponenti le misure di sicurezza che hanno protetto la cerimonia d’inaugurazione e che  hanno coinvolto 3.000 militari e poliziotti afghani e 400 militari italiani del contingente schierato a Herat incentrato attualmente sulla Brigata Sassari dell’Esercito”, riporta la nota del Comando NATO. Fanti e tricolore sono ancora una volta schierati a difesa degli interessi geostrategici transnazionali, con la remota speranza che anche l’Italia e le sue imprese possano sedersi un giorno al banchetto di gas e petrolio. Siamo andati anche per questo a combattere per vent’anni in Afganistan, così come lo abbiamo fatto in Iraq e in Libia e lo andremo a fare in Sahel e nel Golfo di Guinea. Peccato che i giochi li facciano gli altri in maniera spesso occulta, anche se però sulla pelle e il sangue di milioni di cittadini inermi.

“La disponibilità dei talebani a negoziare la pace nel paese asiatico martoriato da quasi 40 anni di guerra sembra legato strettamente allo sviluppo del gasdotto TAPI”, scriveva il 1° marzo 2018 l’analista militare Gianandrea Gaiani. “ll portavoce dei talebani, Zabihullah Mujahid, ha dichiarato che il TAPI è un importante progetto economico per l’Afghanistan ricordando che il primo contratto per la sua costruzione fu firmato quando eravamo al governo dell’Emirato islamico (1996-2001) e aggiungendo che nelle aree sotto il nostro controllo annunciamo l’appoggio al progetto”. Forse a Doha i leader ultrafondamentalisti devono aver dato sufficienti garanzie agli USA e ai partner TAPI sul futuro del gasdotto e ciò potrebbe spiegare l’incontrastata avanzata delle milizie e l’occupazione finale di Kabul. Prolungare il conflitto sarebbe stato del tutto insostenibile per l’alleanza internazionale a guida NATO. Meglio un tacito accordo, specie se gli interessi e gli affari non vengono rimessi in discussione dalle parti. E in fondo anche al partito unico di Draghi, Letta, Conte, Meloni e Salvini l’exit strategy va bene. Nel dicembre 2019 un contratto di 13 milioni di dollari per le ispezioni e la consulenza ingegneristica di 214 km di gasdotto TAPI in territorio turkmeno è stato assegnato a RINA - Registro Italiano Navale SpA, società con sede a Genova partecipata da Ministero delle Infrastrutture, Camera di Commercio, Associazione nazionale imprese assicuratrici, Confederazione armatori, Associazione costruttori navali, ecc.. Solo briciole, certo. Ma in Afghanistan ci siamo stati due decadi e una quota dell’affaire gas alla fine, magari, ci toccherà. Peccato che di denaro ne abbiamo sperperato tanto per guerreggiare. Poco meno di nove miliardi di euro secondo Milex, l’Osservatorio sulle spese militari promosso della Rete Italiana Pace e Disarmo.

In Afghanistan ci siamo andati sulla scia delle forze armate USA dopo l’attentato alle Torri gemelle dell’11 settembre 2001. Dopo aver fornito il supporto logistico e le basi di Sigonella, Aviano, Vicenza e Camp Darby per i primi bombardamenti statunitensi in territorio afgano (operazione Enduring Freedom), il 18 novembre 2001 l’allora governo Berlusconi autorizzò il trasferimento in Golfo Persico di un gruppo navale guidato dalla portaerei Garibaldi. “Gli aerei Sea Harrier della Marina ebbero compiti di sorveglianza, interdizione marittima e di monitoraggio di eventuali traffici illeciti e parteciparono indirettamente ai bombardamenti americani sulle basi di Al Qaeda in Afghanistan”, ricorda la Repubblica. Indirettamente, come se in combattimento uccide solo chi preme alla fine il grilletto, mentre chi carica i proiettili e prende la mira è esente da crimini e responsabilità. Ma per tutti questi vent’anni il ritornello di stampa e politica è stato lo stesso: Italiani brava gente e comunque esportiamo diritti e democrazia…

Dopo navi e aerei arrivarono le truppe di terra. Dal 15 marzo al 15 settembre 2003 fu schierata al confine tra Afghanistan e Pakistan la task force Nibbio con 1.000 militari “contro le infiltrazioni di talebani e terroristi”. L’11 agosto 2003 fu avviata la missione ISAF a guida NATO e le forze armate italiane raggiunsero presto le 3.500 unità. Due anni più tardi l’Italia ottenne il comando delle operazioni nella regione occidentale di Herat, al confine con l’Iran. L’1 gennaio 2015 ancora la NATO trasformò la missione ISAF in Resolute Support e sempre ad Herat le unità italiane furono messe alla guida del Train Advise Assist Command West “dedicato alle attività di addestramento, assistenza e consulenza delle istituzioni e delle Forze di sicurezza locali”, così come riporta il Ministero della difesa.

“Si è tratta di un’operazione non-combat”, ha dichiarato il ministro Lorenzo Guerini (Pd). “In oltre venti anni si sono alternati in Afghanistan più di 9.600 militari di tutte le Forze Armate con assetti terrestri, aerei e delle forze speciali. Complessivamente sono state condotte oltre 53.000 attività, tutte di elevatissimo livello, con l’addestramento, diretto o indiretto, di più di 20.000 militari afgani del 207° corpo d’armata dell’esercito nazionale”. Prima di abbandonare precipitosamente Herat e Kabul, l’Italia manteneva in Afghanistan 800 militari, 145 mezzi terrestri e 8 aerei che, nonostante le tranquillizzanti dichiarazioni del ministro, hanno combattuto e sostenuto i combattimenti sino alla fine.

Gli italiani scoprirono presto che di pacifico e umanitario la nostra missione in territorio afgano non aveva neppure l’ombra. Dopo gli “Harrier” a decollo verticale giunsero infatti gli elicotteri d’assalto “Mangusta” AW129 prodotti da Leonardo-Finmecanica e armati con missili anticarro e razzi da 81mm, strumenti di morte e devastazione. A fine 2010 la Difesa diede l’ok per schierare pure i cacciabombardieri Amx del 51° Stormo di Ghedi. “Non effettueranno missioni di strike”, fu promesso. Poi però a fine gennaio 2010 l’allora ministro-ammiraglio Giampaolo Di Paola (governo Monti) annunciò la possibilità di un loro impiego “anche in azioni di bombardamento”. Fu il mensile E di Emergency a documentare che gli Amx facevano la guerra al 100%. “Come ci conferma il tenente colonnello Francesco Tirino, portavoce del contingente italiano in Afghanistan, il loro impiego con lo sgancio di bombe si è moltiplicato nelle ultime settimane con il lancio dell’operazione Shrimp Net (rete per gamberi) nella provincia di Farah, volta a debellare la resistenza talebana nei distretti del Gulistan e di Bakwa in vista della loro riconsegna alle forze armate afgane in autunno”, rivelo la testata nel luglio 2012.

E bombe e combattimenti ci sono stati sino a qualche mese fa. “Si è conclusa un’importante offensiva dell’Esercito afgano contro alcuni capi dell’insorgenza presenti nella Regione ovest sotto il controllo del contingente italiano su base Brigata Sassari”, riporta una nota dello Stato maggiore del 28 dicembre 2017. “L’operazione condotta a guida intelligence che aveva l’obiettivo di disarticolare la catena di comando e controllo dei nemici dell’Afghanistan, è avvenuta attraverso l’impiego degli elicotteri in dotazione alle forze armate afgane. L’intervento chirurgico condotto dai militari locali, senza alcun impiego di militari italiani in attività operative cinetiche, ha portato alla neutralizzazione delle forze insorgenti nell’intera area di Farah”.

Sempre secondo la Difesa a giugno 2020 i “Mangusta” avevano già effettuato 13.500 ore di volo “come supporto di fuoco, scorta e protezione a basi avanzate, convogli, personale e assetti nazionali e internazionali” e le operazioni “sono state effettuate congiuntamente con gli elicotteri d’attacco AH-64 Apache statunitensi, anch’essi presenti ad Herat”. A luglio 2020 era l’elicottero da trasporto tattico NH-90 dell’Esercito a festeggiare il traguardo delle 5.000 ore di volo con più di 2.000 missioni a supporto delle operazioni NATO. L’Afghanistan è stato pure un laboratorio sperimentale per l’impiego di nuovi sistemi d’arma come ad esempio il drone spia “Shadow” 200 RQ-7C di produzione statunitense (oltre 3.000 ore di volo e 780 missioni). Così come a partire del 2007 sono stati utilizzati da Herat i droni “Predator” del 32° Stormo dell’Aeronautica di Amendola, uno dei quali, nell’ottobre 2014 ha stabilito il record di missione, 20 ore di volo ininterrotto per individuare i “target” da colpire con i caccia NATO.

Dovremo portare le lezioni apprese dalla vicenda afgana in termini di modelli di intervento ed approccio a 360° nelle regioni di elevato interesse strategico nazionale in cui oggi siamo impegnati”, ha dichiarato il ministro Guerini. E il complesso militare-industriale già plaude e ringrazia.

 

Articolo pubblicato in Sicilia Libertaria, n. 419, ottobre 2021

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