Corno d’Africa. L’Italia addestra le milizie paramilitari e l’ONU ne ignora la pericolosità
Gibuti, un’enclave desertica tra Eritrea, Etiopia e Somalia, 23.000 Kmq di superficie e 900mila abitanti ma con una posizione geostrategica tra le più importanti al mondo, proprio di fronte lo Stretto Bab El Mandeb che separa il Mar Rosso dal Golfo di Aden, principale rotta commerciale marittima e petrolifera tra l’Asia e l’Europa. È in questa piccola repubblica del Corno d’Africa, ex colonia francese indipendente dal giugno 1977, che le forze armate italiane hanno installato una base operativa avanzata interforze per il supporto logistico alle componenti militari impegnate in territorio somalo e nell’Oceano indiano nell’ambito della missione Ue “Atalanta” di contrasto alla pirateria in mare.
Inaugurata nell’ottobre 2013 a Loyada, a pochi chilometri a sud della capitale Gibuti e dal confine con la Somalia, la Base Militare Italiana di Supporto (BMIS) dipende dal COI – Comando operativo di vertice interforze di Centocelle, Roma – ed è stata infelicemente intitolata ad Amedeo Guillet, un ufficiale del regio esercito protagonista di tutte le campagne coloniali fasciste in Etiopia e in Libia e che ha pure comandato una compagnia carri inviata da Benito Mussolini in Spagna durante la sanguinosa guerra civile, a fianco delle truppe del generale Francisco Franco.
“La BMIS di Gibuti è stata realizzata in un’area che è crocevia strategico
per le linee di comunicazione marittime che dal Mediterraneo sono dirette,
attraverso il Canale di Suez, verso il Golfo Persico, il Sud Est asiatico, il
Sudafrica e viceversa”, ha dichiarato lo Stato maggiore della difesa (1).
Ancora più enfatiche le parole del ministro
Lorenzo Guerini, in visita ufficiale a Gibuti il 22 marzo scorso. “Siamo
in questa terra con questo stabile avamposto, la prima vera e propria base
logistico-operativa italiana costruita all’estero dopo la seconda guerra
mondiale”, ha dichiarato il ministro di casa Pd. “Gibuti è una realtà
piccola ma cruciale, che in questi anni ha fatto della sua posizione nevralgica
un punto d’accesso importante alla regione del Corno d’Africa e una cabina di
regia per le operazioni di contrasto al terrorismo, di sorveglianza dei
traffici commerciali, di contrasto alla pirateria” (2). A margine del
vertice con il presidente della Repubblica Isamail Omar Guelleh e il ministro
della Difesa Hassan Omar Mohamed Bourhan, Lorenzo Guerini ha poi spiegato ai
giornalisti “che l’Italia intende continuare a supportare lo sviluppo delle
forze di sicurezza locali attraverso i nostri programmi di addestramento (…)
anche a tutela degli interessi nazionali” (3). Per la cronaca, Guerini
aveva già incontrato il ministro omologo Bourhan il 29 gennaio 2020 a Roma, per
siglare un nuovo accordo di cooperazione bilaterale “in ambito ricerca e
sviluppo, supporto logistico e acquisizione di prodotti e servizi e attività
formative ed addestrative”. “Fra le modalità attuative dell’accordo –
riportava una nota della Difesa – sono previsti scambi di esperienze
tra esperti e partecipazione a corsi ed esercitazioni da parte del personale
delle Forze Armate” (4).
Attualmente nella base italiana di Gibuti è autorizzata la presenza sino a 117 militari e 18 mezzi terrestri.
In particolare nella BMIS “Amedeo Guillet” sono ospitati i nuclei d’élite della Brigata San Marco
destinati all’imbarco sui mercantili in transito diretti nell’Oceano Indiano e
i team delle forze speciali interforze. Alla protezione
dell’infrastruttura si alternano periodicamente i Fucilieri dell’aria del 16°
Stormo di Martina Franca, i paracadutisti della brigata “Folgore” e i fanti del
152° Reggimento “Sassari” dell’Esercito. Dall’agosto 2014 al febbraio 2015 la
base di Gibuti ha pure coordinato le attività dei droni MQ-1 Predator da ricognizione
del 32° Stormo di Amendola-Foggia (Task Force Air Gibuti), impiegati al largo
delle coste della Somalia e in missioni di supporto dell’Operazione “Atalanta”.
La base permanente italiana è il centro
nevralgico delle attività addestrative delle forza di polizie gibutine e somale
nell’ambito della cosiddetta missione “MIADIT” affidata ai reparti specializzati dell’Arma dei Carabinieri a partire
dal 2013, dopo la firma di alcuni accordi di cooperazione militare tra Italia,
Somalia e Gibuti. “La missione addestrativa MIADIT è volta a favorire la
stabilità e la sicurezza della Somalia e dell’intera regione del Corno
d’Africa, accrescendo le capacità nel settore della sicurezza e del controllo
del territorio da parte delle forze di polizia somale”, riporta il sito
ufficiale del Ministero della Difesa. “L’obiettivo a lungo termine è quello
di rigenerare la polizia federale somala mettendola innanzitutto in grado di
operare nel complesso scenario e successivamente, con i corsi training of
trainers, portarla gradualmente all’autosufficienza formativa” (5). I moduli addestrativi implementati dall’Arma
dei Carabinieri sono diretti a 150-200 agenti somali e gibutini alla
volta e hanno una durata di 12 settimane. Le attività spaziano dall’addestramento individuale al combattimento,
agli interventi nei centri abitati, alle tecniche di controllo del territorio e
gestione della folla, alla ricerca e neutralizzazione di armi ed esplosivi.
Sempre secondo la Difesa italiana, sino ad oggi gli istruttori dei Carabinieri
hanno addestrato oltre 2.600 unità appartenenti alla Polizia Somala, alla
Polizia Nazionale e alla Gendarmeria Gibutiana, contribuendo inoltre
direttamente alla ristrutturazione dell’Accademia di Polizia di Mogadiscio.
Negli ultimi mesi si sono moltiplicati in particolare i corsi rivolti al
personale delle compagnie denominate “Darawish” (o anche darwish), le nuove
unità mobili della Somali Police Force che – secondo Analisi Difesa – sono “specializzate
in attività di stability police e interventi ad alto rischio, a composizione
inter-clanica, schierate principalmente nella capitale Mogadiscio e destinate a
divenire fondamentali per la stabilità e la tutela dell’ordine e della
sicurezza pubblica della Somalia” (6). Ad aprile, in particolare, i
Carabinieri hanno formato le unità “Darawish” all’uso progressivo della forza, espressione che in ambito
sicuritario-militare identifica la scala del confronto tra le forze di polizia
e gli antagonisti. “Lo scenario prevedeva quattro differenti fasi:
protezione di soggetti ad alto rischio, ordine pubblico, intervento armato e
tecniche operative speciali del fire fighting, il controllo meccanico (arresto
ed ammanettamento), l’impiego di armi non letali (tonfa o gas)”, annota il
comando di MIASIT. Infine, “un team selezionato di militari somali ha
eseguito le tecniche dello spegnimento delle fiamme sulla persona fra lo
stupore delle autorità presenti ed il plauso dei poliziotti gibutiani…”
(7).
Della polizia militare somala fanno parte oggi perlomeno 3.500 agenti
originari del Puntland, uno dei cinque stati federali della Somalia (regione
nord-orientale all’estremità del Corno d’Africa), molti dei quali con un
passato nelle milizie armate locali (8). Nel rinnovare il mandato della
missione in Somalia (AMISOM) il
Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha previsto l’aumento del personale militare
somalo sotto addestramento da 10.900 a 13.900 uomini. L’obiettivo è
quello di incorporare il nuovo personale proprio nella Polizia federale
“Darwish” e ha prontamente ottenuto il plauso di USAfricom, il comando per le
operazioni USA nel continente africano, che ha definito il supporto logistico
alle milizie una “componente chiave della futura stabilità operativa in
Somalia”.
I “Darwish” addestrati dal personale italiano a Gibuti e da formatori delle
missioni Ue e Onu nell’accademia di polizia di Mogadiscio, sono stabilmente
impiegati in particolare nella regione meridionale di Lower Shabelle, da lungo
tempo al centro di un sanguinoso
conflitto tra le forze armate regolari e i gruppi islamisti armati di Al-
Shabaab. “A Lower Shabelle le unità Darwish della polizia federale
sono responsabili del controllo delle frontiere, della protezione delle
infrastrutture e del personale governativo, dell’assistenza in caso di
disastri, della lotta al terrorismo e all’insorgenza”, spiega la missione
delle Nazioni Unite in Somalia (9).
Le gravi e pericolose contraddizioni della
decisione ONU e Ue di affidare compiti bellico-sicuritari a queste milizie
paramilitari sono state analizzate da una delle maggiori esperte di “guerre
ibride” e “attori armati non statali”, la statunitense Vanda Felbab-Brown, con uno studio pubblicato nel 2020 dal Centro
di ricerca politica dell’United Nations University di Tokyo. “L’origine del
termine darwish scaturisce dalle differenti milizie che hanno svolto funzioni
militari o di polizia, operando indipendentemente dall’Alleanza Nazionale
Somala, sotto la direzione dei presidenti degli stati membri della federazione”,
scrive l’analista. “Relativamente alle loro origini, le forze darwish sono
state una base di potere importante per gli attori dell’élite politica, una
sorta di guardia pretoriana che fornisce protezione e minaccia di forza contro
i rivali”.
Secondo Vanda Felbab-Brown, sostenere, addestrare, armare e cooptare
milizie di questo genere può condurre a numerosi rischi. “La lealtà di
queste milizie è fluida e le stesse sono suscettibili di essere reclutate dai
loro nemici e possono mettere al primo posto i propri interessi – o quelli di
un padrone esterno – contro quelli dello Stato”, aggiunge l’analista. “Essendo
profondamente legate alla politica economica della Somalia, le milizie hanno
una forte tendenza ad appropriarsi dell’autorità politica, rafforzando forme
autoritarie di governo, monopolizzando le economie locali e finendo per
impegnarsi in altre attività paramafiose. In questo modo, i loro esasperati
conflitti locali, accrescono le lamentale e il rafforzamento politico di
al-Shabaab in parti del paese”.
Le Nazioni Unite, così come Bruxelles e Roma
sembrano poi ignorare anche le autorevoli denunce di abusi e violazioni dei
diritti umani da parte delle (ex) milizie darwish. “Quest’ultime, alla stregua delle forze di polizia somale, sono
accusate di rapine all’interno dei campi che accolgono gli sfollati, di
sparatorie incontrollate così come di un meccanismo di controllo della folla e
omicidi extra-giudiziari ai checkpoint”, conclude Vanda Felbab-Brown (10).
Era il 1992 e i parà e i blindati italiani sbarcavano in Somalia con gli
Stati Uniti e altri innumerevoli partner internazionali per la fallimentare
missione Restor Hope. Sono passati quasi trent’anni e per ridare speranza alla
Somalia, governo e militari nostrani non trovano di meglio – così come al tempo
del fascio-colonialismo – di affidarsi a milizie, mercenari e paramilitari già
al soldo dei war lord locali.
(1) https://www.difesa.it/OperazioniMilitari/op_intern_corso/BMIS/Pagine/default.aspx
(2)https://www.difesa.it/OperazioniMilitari/op_intern_corso/BMIS/notizie_teatro/Pagine/Il_Ministro_della_Difesa_in_visita_alla_BMIS_di_Gibuti.aspx
(3) https://formiche.net/2021/03/guerini-visita-gibuti-somalia/
(4) https://www.difesa.it/Primo_Piano/Pagine/il_ministro_guerini_incontra_il_collega_gibutino.aspx
(5) https://www.difesa.it/OperazioniMilitari/op_intern_corso/Somalia_MIADIT_/Pagine/default.aspx
(6) https://www.analisidifesa.it/2021/04/i-carabinieri-addestrano-le-compagnie-darawish-della-polizia-somala/#:~:text=Le%20Darawish%20sono%20le%20Unit%C3%A0,la%20tutela%20dell’Ordine%20e
(7)https://www.difesa.it/OperazioniMilitari/op_intern_corso/Somalia_MIADIT_/notizie_teatro/Pagine/MIADIT_Somalia_14_esercitazione_sull_uso_progressivo_della_forza.aspx
(8) https://www.limesonline.com/rubrica/somalia-un-incubo-senza-fine
(9) https://unsdg.un.org/sites/default/files/2020-06/UN-Country-Results-Report-2019.pdf
(10) https://collections.unu.edu/eserv/UNU:7631/HybridConflictFullReport.pdf
Commenti
Posta un commento