Generazione Comiso. I ragazzi degli Anni Ottanta
“Renato A. e Renato C., Angelo, Alfredo, Turi, la piccola Giovannella,
Alfredo, Angelo, Patrizia, Pippo, Enrico. E Alfonso da Catania e Teresa da
Enna, e Tore e Morishita e Antonella. E Franz, Giuseppe e Giacomo e tu,
Jochen...”
Mi ero proprio rotto. Due giorni a fare su e giù, Comiso-aeroporto,
aeroporto-Comiso. Una Fiat 127 blu tutta ammaccata, scarrozzando inviati Rai e
corrispondenti annoiati, persino tre grigi inviati della Pravda e di chissà quale altro quotidiano dell’URSS. Tutti gli
altri, davanti ai cancelli, a cantare, giocare, ballare, condividere l’utopia
che avremmo fermato i lavori, i missili. Così, la sera in assemblea, dissi che
l’8, ultimo giorno di blocco, non avrei più fatto l’addetto stampa e che mi
sarei unito ai siciliani in sit-in all’ingresso principale. Avvenne tutto in un
attimo: il comandante dei CC col frustino, i suoi insulti, poi le sirene, i
bengala, i lacrimogeni e gli assalti davanti e di dietro. Botte da orbi, il
dolore pungente sulle spalle, il sangue, la fuga in un’immensa nube di polvere tra
i vigneti. Insieme a Tullio che mi aveva raccontato, felice, che sarebbe presto
andato in Nicaragua da cooperante. E quel maledetto elicottero che c’inseguiva,
dappertutto, l’agente bastardo che rideva e fingeva di spararci addosso.
Riuscimmo a tornare all’IMAC. I primi soccorsi, un punto di
sutura, a pulirci il fango, anestetizzando le lacerazioni dell’anima. Quella
notte fu l’inferno. Ardevo di dolore e rabbia. Poi il crollo in un oceano
d’incubi. Le immagini della carica in moviola, i volti di quei criminali che ci
avevano rubato l’innocenza, la gioia, la speranza. E i manganelli. Ancora quel
frustino. I bastoni di legno. Orrore a orrore. Infine, grazie al mixer di
antidolorifici e vino, un insperato torpore, un senso di pace fatto di ricordi,
flash back con loro, sorelle e fratelli di un anno di convivenza e lotte nel
Campo internazionale della pace di Comiso.
La festa della luna piena con Marianne, narratore clown di un
villaggio trasformato in industria di morte ma che come in tutte le fiabe, alla
fine, prima del vissero tutti felici e contenti, il missile a multipla testata
nucleare esplodeva in bon-bon e caramelle. Le pazienti lezioni di giornalismo
di Marina, due anni negli States come stagista. “Hai talento, ma ti perdi in
inutili fronzoli. Vai subito al sodo, sii anglosassone!”. Antonio, disoccupato,
che aveva respinto a muso duro l’unica offerta di lavoro che gli avevano fatto.
Quella di fare da muratore all’interno della base. L’incontenibile gioia di
Iano di Avola, obiettore di coscienza in servizio civile, quando lo informammo
che sarebbe andato a parlare di noi, una settimana, tra i metalmeccanici di
Milano e di Varese. Le processioni a piedi scalzi di Turi, dietro il Vescovo
che benedì nel nome di Cristo la prima pietra della chiesa all’interno del
complesso atomico. Ed Enrico, sardo cocciuto e ribelle, sempre più capace di
noi a tessere, abilmente, legami politici impossibili. La forza di Tore per
continuare a vedere le cose belle della vita, leggere, scrivere, studiare,
anche quando gli occhi ti hanno vigliaccamente tradito. L’incomparabile
dolcezza di Antonella che aveva ammansito con una carezza i cani lupo che ci
avevano scagliato contro i tutori dell’ordine di Sigonella. E le ballate a
Sacco e Vanzetti e Pio La Torre, Give
peace a change e Al Magliocco al Magliocco,
tutti a fare il coro, stonati, di Fortunato cantastorie di Barcellona Pozzo di
Gotto. La santità del reverendo Morishita, irraggiungibile nella sua
imperturbabile pace interiore e proprio per questo intimamente nostro. Nostro
davvero e di tutta Comiso. L’attesa, una settimana sì e una no, del furgone dei
nonviolenti messinesi, Renato A e Renato C, la piccola Giovannella, Alfredo,
Angelo, Patrizia, Pippo. E Alfonso da Catania e Teresa da Enna, l’amore che ha
generato Irene, la pace. E quell’uomo spuntato chissà come e da dove, barba
incolta e bastone. “Sono un giornalista di un mensile che verrà, parlatemi di
voi pacifisti che voglio scrivere un pezzo”. Fui diffidente, quasi maleducato.
Vedevo spie dappertutto e un giornalista di un giornale mai nato era
sicuramente uno sbirro. Invece era Riccardo e quell’inchiesta sui giovani di
Comiso uscì sul primo numero de I
Siciliani. Missili e mafia, mafia e missili. Erano stati il pallino di Pio,
lo sarebbero stati per il direttore-scrittore Fava, anche lui martire
sacrificato all’altare dei Principi della morte.
Con Giuseppe se ne sono andati via prima Giacomo, l’ex
sindaco che sfidò il Partito, il suo Partito, che lo aveva lasciato solo contro
gli Americani. Poi Franz dei comitati popolari veneti, che in una settimana
aveva trasformato un terreno incolto in un camping autosufficiente per i mille
compagni di tutta Europa, i protagonisti di quella splendida estate dell’83.
L’anno scorso te, Jochen. Ti ricordi quando c’incapriolammo, caddi e mi spezzai
il polso e ti dovetti abbracciare perché piangevi come un bambino, splendido
nei tuoi lunghi capelli biondi e il volto d’angelo? Non ti ho più visto da quel
maledetto giorno che ti arrestarono come un bandito. Gli facevi paura.
Invincibile. Ma so che ci sei. E ci sarai.
Picchiarono
e picchiarono, con quei bastoni di cuoio, sopra teste, schiene nude, braccia
dei ragazzi, chiusi, serrati fra due schiere… Vincenzo Consolo, Comiso, l’Unità, 7 settembre 1985.
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