Il movimento che dice «no» alla militarizzazione della scuola
L’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università è il riferimento contro chi vuole imporre la cultura militarista
“La scuola va alla guerra” è il titolo di un volume
uscito a gennaio di quest’anno per Manifestolibri. L’autore è Antonio Mazzeo,
giornalista e peace researcher, che da anni scrive articoli e saggi, realizza
inchieste, raccoglie documentazione, partecipa a incontri ed eventi in
tutt’Italia per denunciare il rischio della militarizzazione dell’istruzione.
«È un processo – spiega Mazzeo, che insegna educazione fisica alle medie a
Messina – che non ha risparmiato nessuna fascia generazionale».
Quando ha iniziato a occuparsi di
militarismo?
Con il movimento per la pace. Sin
dall’adolescenza, quando seguii la lotta contro l’installazione dei missili
nucleari Cruise nella base di Comiso. Come ricercatore e giornalista ho seguito
innanzitutto i processi di militarizzazione in Sicilia, poi in tutto il Paese.
Come ha capito che era un fenomeno
di portata nazionale?
Credevo si trattasse di anomalie
legate a singole scuole che, subendo la pressione di territori particolarmente
militarizzati, aprivano l’istituzione scolastica alla presenza delle forze
armate: eventi sporadici, spesso dedicati a temi non prettamente militari, che
però registravano una presenza crescente di rappresentanti delle forze armate.
Poi, raccogliendo documentazione e segnalazioni, ho preso coscienza che non era
così: c’era dietro un preciso progetto.
Come ha preso forma il tentativo di
militarizzare la scuola?
Si è sviluppato negli ultimi 15-20
anni, anche se per molto tempo se n’è parlato poco. Ha interessato tutta la scuola,
da quella dell’infanzia a quella secondaria di secondo grado, fino ormai
all’università. Sono stati firmati protocolli, il primo a livello nazionale è
del 2014, e definiti accordi quadro tra i ministeri dell’Istruzione e della
Difesa. A volte è stato coinvolto anche il ministero del Lavoro, ad esempio per
i percorsi di alternanza scuola-lavoro, oggi PCTO, che prevedevano la presenza
degli studenti in basi e infrastrutture militari, anche dentro le maggiori
aziende del comparto militare-industriale.
Perché si vuole “invadere” la
scuola?
L’obiettivo strategico è affermare
la cultura della difesa e della sicurezza, espressione che si trova ormai in
tutti i documenti strategici delle forze armate. Si vuole il consenso delle
nuove generazioni su un modello di forze armate che intervengono a 360°: sia
all’estero, nelle varie missioni internazionali, sia all’interno, in sfere una
volta non di loro competenza.
Lei è stato fra i protagonisti del
lancio dell’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle
università. Com’è nata l’idea?
Su invito di centri di formazione
per insegnanti, come il Centro Studi per la Scuola Pubblica (Cesp), o di
organizzazioni come Pax Christi, ho iniziato a tenere un po’ in tutt’Italia
corsi di formazione per il personale scolastico sulla militarizzazione del
mondo dell’istruzione. È emersa così l’esigenza, da parte di insegnanti,
intellettuali, sindacalisti, di strutturarsi. Sia per organizzare meglio la
raccolta e sistematizzazione di documentazione, sia per costruire momenti di
opposizione concreta.
A marzo 2023 alla Camera dei
Deputati è stato lanciato un appello, firmato da un centinaio tra docenti di
scuola pubblica e universitari, da cui è nato l’Osservatorio. Che oggi è un
punto di riferimento per il mondo della scuola ma anche per quel mondo politico
e sociale più impegnato contro i processi di militarizzazione e riarmo e contro
la guerra. L’Osservatorio organizza anche campagne, come quella dello scorso
anno contro Giochi Preziosi che voleva proporre zainetti per la scuola con i
loghi degli apparati d’élite delle forze armate. O la campagna per chiedere le
dimissioni dei rettori delle università pubbliche italiane aderenti alla
Fondazione Med-Or legata a Leonardo, principale azienda italiana produttrice di armi.
Che strumenti ha a disposizione il
singolo insegnante o genitore per dire «no»?
L’Osservatorio ha prodotto un vademecum che indica gli strumenti giuridici
utilizzabili per opporsi concretamente ad attività quali una
visita scolastica a una base militare. Iniziative del genere non possono essere
imposte da circolari ministeriali o uffici scolastici e tanto meno da dirigenti
scolastici, ma devono essere discusse dagli organi collegiali. Altrimenti sono
attività in violazione di norme nazionali, a partire dalla libertà
d’insegnamento sancita in Costituzione, di disposizioni contrattuali e di norme
internazionali che regolamentano le funzioni del sistema educativo. E ci si può
opporre, ad esempio con la diffida. L’esperienza dell’Osservatorio comunque ci
ha insegnato che l’impatto maggiore si ottiene con la denuncia mediatica.
La militarizzazione della scuola sta
vincendo?
Solo 3-4 anni fa, se parlavi di
questi argomenti eri visto come un alieno. Mentre oggi c’è un’enorme presa di
coscienza in insegnanti, genitori e studenti. Anche perché questi anni sono
stati segnati da una guerra costante, dal conflitto in Ucraina al genocidio
del popolo palestinese, al rischio di una guerra globale. Questa
“pressione bellica” credo abbia imposto di assumere l’enorme pericolosità del
militarismo come un pericolo per la sicurezza di ognuno di noi. Perché è
funzionale a un modello di guerra permanente. Per cui sono ottimista perché,
nonostante l’apparato militare-industriale-finanziario abbia investito enormi
risorse, non ha “conquistato le menti” delle nuove generazioni. Che anzi, come
la stragrande maggioranza della popolazione, rifiutano la guerra. Per essere
più precisi, come dice la Costituzione, la ripudiano.
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