Sequestro Caronte e Tourist SpA. E se la Montagna avesse partorito un Topolino?
Sei mesi di amministrazione giudiziaria per rimuovere le zone d’ombra e le criticità che hanno favorito l’infiltrazione criminale all’interno di una delle maggiori società di navigazione in Italia. E’ quanto disposto il 21 gennaio 2021 dalla Sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Reggio Calabria (presidente Ornella Pastore) nei confronti della Caronte & Tourist S.p.A., l’holding delle famiglie Franza e Matacena che ha assunto il controllo monopolistico del traghettamento di auto, camion e tir nello Stretto di Messina. L’amministrazione giudiziaria era stata richiesta quasi un anno prima – il 24 aprile 2020 – dal Procuratore della Repubblica di Reggio Calabria dopo una complessa indagine del Centro Operativo della Direzione Investigativa Antimafia che ha ipotizzato “l’esistenza di un rapporto di stabile ed oggettiva agevolazione tra l’esercizio delle attività economiche riferibili alla struttura imprenditoriale della Caronte & Tourist operanti in questa provincia ed esponenti della ‘ndrangheta o collusi con questa”.
Il Tribunale reggino ha nominato
la dottoressa Maria Concetta Tripodi e l’avvocata Rosa Isgrò quali
amministratori giudiziari della SpA, disponendo un carico di lavoro più che
gravoso: la presenza costante delle
due professioniste negli incontri e nelle riunioni con il management e il
personale direttivo della società; l’esame dei bilanci, del modello
organizzativo e gestionale e delle iniziative assunte a seguito del
provvedimento di prevenzione; la verifica dei servizi svolti dagli appaltatori,
dai fornitori e dai committenti; il controllo degli atti di acquisto e
pagamento effettuati, ecc., ecc.. Misure sufficienti a riportare ordine e legalità
all’interno del grande gruppo aziendale in un lasso di tempo di appena 180
giorni? Ne sono ovviamente convinti i giudici calabresi che nel decreto che
dispone l’amministrazione giudiziaria della Caronte & Tourist, chiariscono
i presupposti giuridici e le ragioni socio-economiche di questo strumento
antimafia innovativo e alternativo.
“L’applicazione della misura è prevista
dall’art. 34 D.Lgs. 159/2011, come sostituita dalla L. 161/2017”, esordisce la
Sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Reggio Calabria. “L’istituto si
colloca nell’alveo delle disposizioni del Codice Antimafia ispirate alla
necessità di guardare alla legislazione antimafia patrimoniale, non più e non solo come strumento di contrasto da
attuarsi attraverso il sequestro finalizzato alla successiva confisca, ma anche
attraverso strumenti alternativi di controllo che non necessariamente devono
evolvere nell’ablazione del bene, mirando, invece, ove ne ricorrono i
presupposti, alla bonifica e alla successiva restituzione dell’azienda al suo
titolare e ciò in adesione al principio di proporzionalità tra situazione
concretamente accertata e applicazione della misura patrimoniale, principio
ribadito dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 24 del 27 febbraio 2019”.
“Si tratta di una disposizione
che ricalca quella di cui agli artt. 3 quater
e 3 quinquies della L. 575/1965 e che
disegna un istituto che ha presupposti radicalmente differenti rispetto a
quello del sequestro funzionale alla confisca di prevenzione di cui agli artt.
20 e ss del Dlgs 159/2011. Infatti, mentre la misura del sequestro presuppone
l’accertamento incidentale che il soggetto che abbia la disponibilità del bene
oggetto della richiesta rientri nel genius
dei soggetti socialmente pericolosi, la misura in esame ha ad oggetto attività
economiche che non sono riconducibili neppure indirettamente (la
sottolineatura è nel dispositivo del Tribunale, NdA) a soggetti socialmente pericolosi”. Una misura temporanea,
quella dell’amministrazione giudiziaria, che viene imposta “in funzione
preventiva poiché mira a scongiurare il rischio che un’impresa sana e per la
quale, dunque, non sussisterebbero i presupposti per disporne il sequestro di
prevenzione possa essere, in qualche modo, infiltrata da soggetti legati a
organizzazione di stampo mafioso”. Un provvedimento di tutela, dunque,
riservato ad aziende “sane” anche se “infiltrate”. Principio ribadito in un altro
passaggio del decreto dei giudici reggini, riprodotto integralmente dal
pronunciamento del Tribunale di Milano del 23 giugno 2016: “l’istituto
dell’amministrazione giudiziaria mira proprio ad intervenire in quella zona grigia di rapporti tra mafia (o
altre gravi forme di criminalità) ed imprese, i cui i classici istituti di prevenzione non trovano facile applicazione,
ed ha finalità di contrasto al fenomeno di contaminazione di attività
economico-imprenditoriali che sane
all’origine, risultino però nel tempo essere state condizionate o quantomeno
infiltrate dal crimine organizzato che a tali attività si appoggia come
efficace strumento di penetrazione nel mercato e di controllo del territorio”.
Prendendo a riferimento la pronuncia
della Corte Costituzionale n. 487 del 1995, i giudici calabresi spiegano come
l’amministrazione giudiziaria risponda alla “necessità di impedire che una
determinata attività economica che presenti connotazioni agevolative del fenomeno
mafioso, e dunque operi (…) in posizione di contiguità rispetto a soggetti
indiziati di appartenere a pericolose cosche locali, realizzi o possa comunque
contribuire a realizzare un utile strumento di appoggio per l’attività di quei
sodalizi, sia sul piano strettamente economico, sia su quello di un più agevole
controllo del territorio e del mercato, con inevitabili riflessi espansivi
della infiltrazione mafiosa in settori ed attività in sé leciti”.
“In una simile prospettiva –
aggiungono i giudici - ci si avvede agevolmente di come i titolari di quelle
attività non possono affatto ritenersi terzi
rispetto alla realizzazione di quegli interessi, considerato che è proprio
attraverso la libera gestione dei loro beni che viene ineluttabilmente a
realizzarsi quel circuito e commistione di posizioni dominanti e rendite che
contribuisce a rafforzare la presenza, anche economica, delle cosche sul
territorio”. Per applicare l’istituto dell’amministrazione giudiziaria, dunque,
è necessario innanzitutto che il titolare dell’attività economica sia “necessariamente
terzo” rispetto al soggetto ritenuto socialmente pericoloso. Un imprenditore
che non può certo fungere da “prestanome” ma che pone in essere “condotte
agevolative censurabili su un piano quantomeno di rimproverabilità colposa (ben potendo le dette misure adottarsi
anche nei casi in cui l’imprenditore agevoli consapevolmente il soggetto pericoloso), diversamente legittimandosi
l’ablazione dell’azienda laddove si ravvisi una volontaria e stabile collusione
mafiosa con insanabile commistione e sovrapposizione tra interessi criminali e
imprenditoriali”.
Il Tribunale di Reggio Calabria
aggiunge altresì come l’amministrazione giudiziaria miri al “recupero delle
imprese infiltrate dalle organizzazioni criminali attraverso un’equilibrata
ponderazione dei contrapposti valori costituzionali in gioco, da una parte, la
libertà d’impresa e, dall’altra, il perseguimento e la salvaguardia della
legalità delle attività economiche e può quindi ritenersi applicabile solo ove
vi siano sufficienti indizi per ritenere tale pericolo di intimidazione ed
infiltrazione ancora in atto al momento della richiesta”. “Il legislatore –
osservano ancora i giudici - ha inteso quindi graduare l’incisività
dell’intervento giudiziale, avuto riguardo alle variegate forme di
infiltrazione mafiosa o comunque di influenza criminale astrattamente possibili
nell’ambito delle attività imprenditoriali…”.
Nelle conclusioni, la Sezione
Misure di Prevenzione del Tribunale presieduta dalla dottoressa Ornella Pastore
spiega che ai fini dell’applicazione dell’amministrazione giudiziaria debba
essere accertata dunque, alternativamente, la “sussistenza di una condizione di
intimidazione o assoggettamento dell’operatore economico rispetto ad una
associazione di stampo mafioso ovvero rispetto a singoli esponenti di essa” o una
situazione in cui l’operatore economico “possa comunque agevolare” l’attività di
persone preposte per l’applicazione di una misura di prevenzione o sottoposte a
procedimento penale per i delitti indicati dalle norme vigenti. “La misura ha
natura temporanea, potendo essere adottata per un periodo non superiore a un
anno, prorogabile di ulteriori sei mesi per una durata comunque non superiore
complessivamente a due anni (…) a seguito di relazione dell’amministratore
giudiziario che evidenzi la necessità di completare il programma di sostegno e
di aiuto alle imprese amministrate e la rimozione delle situazioni di fatto e
di diritto che avevano determinato la misura”, scrivono i giudici. “Da ciò
emerge un ulteriore requisito implicito della misura, costituito dall’attualità
dell’agevolazione mafiosa o del pericolo della stessa, atteso che un programma
di sostegno e bonifica dell’impresa ha senso solo in presenza di una
infiltrazione attuale che l’istituto dell’amministrazione giudiziaria mira a rimuovere”.
Sintetizzando, il provvedimento soft imposto alla Caronte & Tourist
SpA, risponde alla necessità di sostenere
e bonificare un’azienda sana, le cui attività economiche non sono riconducibili neppure
indirettamente a soggetti criminali, anche se risultano essere state condizionate o quantomeno infiltrate da appartenenti ad
organizzazioni mafiose. Il tutto in nome della libertà d’impresa, quest’ultima ritenuta dal legislatore (e
dall’autorità giudiziaria), un valore
costituzionale da proteggere. In verità, la Carta Costituzionale, agli
artt. 41 e 43, prevede altro. Se infatti l’iniziativa
economica privata è libera, essa comunque non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da
recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. Inoltre ai fini di utilità generale la legge può
riservare originariamente o trasferire (…) allo Stato, ad enti pubblici o a
comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese, che si riferiscano a
servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed
abbiano carattere di preminente interesse generale. Inoltre - ma questa è
una nostra valutazione personale – così come appare rappresentata, la misura
dell’amministrazione giudiziaria sembra eccedere in garantismo pro aziende e capitali specie se la si mette a confronto
con certi provvedimenti assai restrittivi delle libertà personali e di diritti
soggettivi fondamentali (sempre in ambito di contrasto alle mafie, si veda ad
esempio il regime del carcere duro - 41bis – riservato agli appartenenti o
presunti tali di organizzazioni criminali).
Legittimo nutrire poi più di un
dubbio sulla reale incidenza e sulla ridottissima limitazione temporale del
provvedimento del Tribunale specie dopo un’attenta lettura delle motivazioni
contenute nel decreto e delle gravi risultanze delle indagini della Direzione
Investigativa Antimafia. Come si evince dagli atti, la Procura della Repubblica
ha proposto la misura giudiziaria nei confronti della Caronte & Tourist
S.p.A., avendo ritenuto che “esponenti ed imprese riferibili alla cosca
Buda-Imerti, organica alla ‘ndrangheta calabrese ed operante all’interno del
territorio urbano di Villa San Giovanni, Fiumara di Muro e nelle aree limitrofe,
siano stati reiteratamente e colpevolmente agevolati (…) attraverso
l’assegnazione di ruoli aziendali di governo di comparti operativi; del ruolo
di reclutatori di personale da assumere; della possibilità di disporre a favore
di terzi di agevolazioni per la concessione di titoli di viaggio”. Alle
“imprese espressione diretta o indiretta di esponenti della ‘ndrangheta”, la
società di navigazione ha inoltre affidato i servizi dell’indotto (ad esempio
somministrazione di cibi e bevande sulle imbarcazioni; pulizie; gestione della
biglietteria; manutenzione), “accessori al servizio di traghettamento che
costituisce il core business aziendale”. E ancora – stigmatizza la Procura -
“non può poi certamente ritenersi frutto di una mera casualità il fatto che
numerosi dipendenti, collaboratori, fornitori e partner appartenessero alle
famiglie di ‘ndrangheta di Villa San Giovanni, tante volte assurte agli onori
della cronaca giudiziaria”.
A rincarare la dose è la stessa
Sezione Misure di Prevenzione del Tribunale che nell’accogliere la richiesta
della Procura scrive che “dalle complessive risultanze sin qui esposte,
sussistono più che sufficienti indizi
della permeabilità della società Caronte & Tourist SpA, rispetto ad
infiltrazioni della criminalità organizzata. A corroborare l’impianto
accusatorio le “numerose” conversazioni intercettate dagli inquirenti, nonché
le “convergenti” dichiarazioni di due collaboratori di giustizia, Giuseppe Liuzzo
(già appartenente alla potente cosca dei Rosmini di Reggio Calabria) e Vincenzo
Cristiano, i quali hanno espressamente riferito dell’infiltrazione dell’azienda
da parte delle ‘ndrine. “Sulla base dei suddetti elementi e di quelli già
emersi in precedenza – scrivono i giudici - è possibile affermare che nel corso
degli anni i vertici della società Caronte & Tourist SpA abbiano sempre
trovato un equilibrio con le suddette
cosche nonché con altre consorterie operanti in tutte le zone della provincia
reggina, ove le dette società svolgono il proprio servizio”.
Dalle dichiarazioni rese dal Liuzzo
nel corso dell’interrogatorio del 28 novembre 2019, i magistrati reggini hanno
potuto dedurre che “i favori e le assunzioni che la società Caronte elargiva
alle cosche si inserivano in dinamiche non sussumibili, semplicemente, nel
classico scema dell’estorsione mafiosa”. Il collaboratore, in particolare, ha
fatto notare come l’allora co-titolare della società di navigazione, Amedeo
Matacena junior (ex parlamentare di Forza Italia), “intrattenesse rapporti di
amichevole convivialità con i massimi esponenti della ‘Ndrangheta della
provincia reggina; rapporti che mal si conciliavano con l’idea
dell’imprenditore vittima, ma che
apparivano – piuttosto – espressione di una compiacente contiguità ed erano
finalizzati anche a soddisfare le ambizioni elettorali del predetto”. Sempre Giuseppe
Liuzzo ha riferito agli inquirenti che “sia il cavaliere Amedeo Matacena che
l’omonimo figlio avevano avuto sempre un debole per la cosca Imerti, mentre
l’amministratore delegato Antonino Repaci prediligeva la cosca Zito-Bertuca”.
Emerge quindi dalle dichiarazioni del collaboratore “come i vertici della
società, definita la gallina dalle uova
d’oro, abbiano favorito prima alcuni esponenti delle cosche reggine e in
seguito esponenti delle cosche operanti nel territorio di Villa San Giovanni”.
Pur precisando che le sue
conoscenze delle vicende riguardanti il settore della navigazione nello Stretto
di Messina si riferivano alla gestione Matacena antecedente alla fusione di
Caronte SpA con il gruppo messinese Tourist Ferry Boat SpA, Liuzzo ha espresso
ai giudici la convinzione che “anche dopo la fuoriuscita di Amedeo Matacena e
l’ingresso dei nuovi soci, i legami con le ‘ndrine non erano stati recisi e ciò
in quanto, nonostante il nuovo assetto societario, nessuno tra gli esponenti
della locale ‘Ndrangheta aveva espresso lamentele, potendo evidentemente
contare sul mantenimento degli equilibri
esistenti”. A riprova di ciò, annotano i magistrati, “anche nella nuova fase al
vertice dirigenziale della società era rimasto Antonino Repaci, quale segno di
continuità della precedente gestione”.
D.I.A. e Procura di Reggio
Calabria hanno individuato principalmente in due soggetti i portatori degli interessi della ‘ndrangheta
agevolati da Caronte & Tourist SpA: Domenico Passalacqua e Massimo
Buda. Passalacqua è stato assunto dalla Tourist Ferry Boat del gruppo
Franza-Genovese l’1 agosto 1990; poi è stato dipendente della Caronte &
Tourist sino al maggio 2018, quando è stato collocato in pensione. Destinatario
di una misura di prevenzione personale e patrimoniale, Passalacqua è stato
condannato in via definitiva nel processo Meta
quale esponente del gruppo criminale Buda-Imerti, in quanto “imprenditore al
servizio della cosca, operante non secondo logiche di libero mercato, ma nel rispetto
delle dinamiche oligopolistiche di tipo mafioso tipiche degli imprenditori
intranei ai circuiti mafiosi”.
“Nella società di navigazione, Mimmo
Passalacqua faceva la biglietteria che non è un posto così”, ha raccontato ai
giudici Giuseppe Liuzzo, lasciando chiaramente intendere – come riportano gli
inquirenti – che la biglietteria “era una sorta di front office del vettore marittimo, ove i membri delle cosche
potevano relazionarsi con i clienti amici,
ai quali elargivano piccole cortesie”. Secondo quanto affermato da un altro
collaboratore di giustizia, Rocco Buda, Passalacqua era stato assunto presso la
Caronte S.p.A. grazie all’intercessione di Giuseppe Stracuzza, ex sindaco di
Fiumara, il quale era un pezzo grosso
della società, occupandosi del controllo delle biglietterie, nonché molto vicino alla famiglia Matacena. “Lo
Stracuzza si preoccupava di consegnare al boss Nino Imerti somme di denaro
quantificabili in dieci milioni di lire a volta per conto della società
Caronte”, ha riferito Buda.
Anche Vincenzo Cristiano ha
indicato Domenico Passalacqua come il “referente” degli imertiani in seno alla società di navigazione, aggiungendo che il
predetto, anche dopo il coinvolgimento nel processo Meta, “era in grado di interloquire con Antonino Repaci, principale
dirigente della società”. Sempre secondo il collaboratore, Passalacqua faceva
anche da collegamento con gli esponenti della famiglia Zito, tanto da essere risultato determinante per
l’assunzione di Giuseppe Zito, figlio di Vincenzo capo dell’omonima ‘ndrina ed
era progressivamente entrato a far parte della società impegnata nella gestione
dei bar sui traghetti, “con la finalità di riciclaggio dei capitali provenienti
dal gruppo criminale”.
“Nei confronti di Passalacqua
l’agevolazione garantita da Caronte & Tourist SpA si è manifestata sulla
sua persona, in relazione alla sua assunzione e alla successiva conservazione
del rapporto di dipendenza, nonostante dapprima la latitanza, quindi
l’applicazione della misura cautelare e, all’esito, la sorveglianza speciale di
Pubblica Sicurezza”, scrivono i giudici di Reggio Calabria. “L’agevolazione è
giunta sino al punto di garantirgli la retribuzione, senza farlo lavorare e si
è palesata, in termini di contributo al consolidamento della sua fama
socialcriminale, con la benedizione pubblica del suo ruolo e del rapporto
agevolato, sacralizzato dall’abbraccio concessogli dal dirigente della Caronte
& Tourist SpA, Antonino Repaci sul piazzale degli imbarcaderi, in esito
alla sua scarcerazione, per come riferito dal collaboratore di giustizia
Cristiano”.
“E’ evidente che la società
Caronte & Tourist S.p.A., in conseguenza delle pesanti accuse mosse al
Passalacqua nel processo Meta che
avevano portato in primo grado alla condanna del predetto alla pena di 16 anni
di reclusione, avrebbe certamente potuto invocare la giusta causa per
l’immediato licenziamento”, annotano gli inquirenti. “Viceversa la società
decideva di non interrompere il rapporto di lavoro con Passalacqua e, anzi gli
assicurava un trattamento di favore, con la creazione di un apposito turno di
lavoro che andasse incontro alle sue esigenze. Ed infatti il 16 marzo 2016
Domenico Passalacqua si recava presso gli uffici messinesi di Caronte &
Tourist e dopo un colloquio con il dirigente dell’azienda, il dottor Tiziano
Minuti, otteneva la riassunzione”.
L’atteggiamento di favore da
parte della società di navigazione non mutava neanche dopo che il Tribunale di
Reggio Calabria, il 13 settembre 2017, sottoponeva Domenico Passalacqua alla
sorveglianza speciale di Pubblica Sicurezza, con l’obbligo di soggiorno nel
comune di residenza. Il Passalacqua non si presentava più sul posto di lavoro,
né tanto meno forniva alcuna comunicazione all’azienda, tuttavia i dirigenti
della Caronte & Tourist, invece di adottare i provvedimenti sospensivi previsti
da contratto, decidevano di corrispondergli l’intera retribuzione sino alla
data di pensionamento. “Emerge quindi come la Caronte & Tourist si sia a
più riprese adoperata per consentire al Passalacqua di proseguire il rapporto
lavorativo, nonostante le gravissime disavventure giudiziarie che nel corso
degli anni lo hanno visto protagonista”, annotano i giudici.
Al Passalacqua venivano
“garantiti” anche rilevanti interessi economici attraverso i servizi di
somministrazione di cibi e bevande sugli imbarcaderi che la Caronte &
Tourist SpA ha affidato alla CAAP Service S.r.l. di Villa San Giovanni, nonché
attraverso i servizi di pulizia, disinfezione, disinfestazione, derattizzazione
e sanificazione delle unità della società di navigazione, da parte della V.E.P.
Services Soc. Coop., anch’essa con sede a Villa. Della CAAP Service sono
risultati soci lo stesso Domenico Passalacqua, Filippo e Antonino Aquila
(fratelli di Giuseppe Aquila, ex barista a bordo delle navi della Caronte SpA e
condannato per il reato di associazione mafiosa quale “esponente della potente
cosca Rosmini e che in tale veste aveva svolto un ruolo di collegamento tra
Caronte SpA e la criminalità organizzata”) e Giuseppe Campolo, figlio del
defunto esponente della ‘ndrangheta reggina Bruno Campolo, “già collaboratore
del cavaliere Amedeo Matacena”. Per la cronaca, la CAAP Service ha mantenuto la
sua partnership economica con la Caronte & Tourist sino alla fine del marzo
2020, nonostante un periodo lungo quattro anni in cui la ditta risultava essere
stata sequestrata e infine confiscata; il contratto di affidamento del servizio
bar-ristorazione è stato invece risolto con una “sostanziosa” liquidazione a
titolo di indennizzo per lucro cessante e danni emergenti di 400.000 euro.
La V.E.P. Services Soc. Coop. è stata
invece amministrata da Domenico Passalacqua, nipote omonimo dell’ex impiegato di
Caronte & Tourist, mentre nel consiglio d’amministrazione compariva Salvatore
Rocco Versace, nipote di Antonino Cotroneo, quest’ultimo condannato nell’ambito
del procedimento penale denominato ‘Ndranghete
Banking a 8 anni di reclusione per associazione mafiosa e usura. La società
di servizi era subentrata nel 2012 alla Griverpas Service Soc. Coop. in cui
ricoprivano cariche sociali, tra gli altri, Pasquale Passalacqua (nipote di
Domenico Passalacqua) e Antonino Versace, fratello di Salvatore Rocco Versace.
“L’identificazione dei gestori della Cooperativa nei Passalacqua e le dinamiche
di forze criminali (…) fanno chiaramente intendere come la titolarità della
V.E.P. Services fosse riferibile a Domenico Passalacqua, che la gestiva tramite
i suoi parenti, secondo quel sistema di passaggi di consegna interni alle famiglie
che avevano garantito la prosecuzione dei sistemi di infiltrazione mafiosa di
Caronte & Tourist S.p.A. e delle imprese del suo indotto”, spiegano gli
inquirenti. “La vicenda accertata, infatti, costituisce un paradigmatico
esempio di come la tollerante indifferenza - palesata dall’alta dirigenza e
dalla proprietà della SpA, in ordine alle dinamiche di infiltrazione della
‘ndrangheta nei suoi sistemi interni e a quelle predatorie nei settori
esternalizzati – li avesse ridotti a campi di battaglia tra gli esponenti della
‘ndrangheta, che se li contendevano in base alle rispettive capacità di
intimidazione ed assoggettamento, ovvero con il tipico metodo mafioso”.
Sul secondo presunto portatore degli interessi della ‘ndrangheta
agevolati da Caronte & Tourist SpA, Massimo Buda, il Tribunale di
Reggio Calabria scrive che lo stesso “può rientrare tra i soggetti destinatari
di misura di prevenzione personale in quanto indiziato di appartenenza alla
cosca Buda-Imerti”. “Dalle indagini emerge chiaramente come Massimo Buda si sia
prestato a realizzare incontri e trasmettere messaggi funzionali alla migliore
operatività del’organizzazione e al controllo del territorio che questa
esprimeva, anche grazie alle alleanze consolidate con le altre cosche del
reggino”, proseguono i giudici. “In particolare è emerso come lo stesso,
sebbene sostanzialmente incensurato, sia stato a totale disposizione del padre
Santo Buda (cugino del boss Antonino Imerti, detto Nano feroce) al fine del raggiungimento di comuni obiettivi
criminali, essendosi attivato peraltro per organizzare un incontro riservato
tra il genitore e il boss Pasquale Bertuca entrambi condannati con il ruolo di
dirigenti della ‘ndrangheta sul territorio villese, nei procedimenti denominati
Meta e Sansone ed avendo mantenuto con il Bertuca rapporti diretti, per
come risulta dall’informativa del Commissariato di Villa San Giovanni del 14
luglio 2009”. Gli inquirenti calabresi ritengono come anche lo stesso Santo Buda
“avesse una capacità di infiltrazione nelle strutture aziendali e produttive
della Caronte & Tourist e delle imprese che gestivano i rapporti
esternalizzati dalla SpA, capacità che egli era in grado di porre in essere
attraverso il figlio Massimo”. Stando inoltre a quanto riferito dal
collaboratore di giustizia Cosimo Virgiglio, i Buda padre e figlio facevano
parte della loggia massonica di Sant’Eufemia d’Aspromonte e “i loro referenti
erano i fratelli Fedele, da identificarsi verosimilmente in Luigi e Giovanni
Fedele, il primo ex Presidente del Consiglio Regionale Calabrese e il secondo
ex sindaco del Comune di Sant’Eufemia”.
Massimo Buda risulta essere ancora
oggi dipendente della Caronte & Tourist, dopo aver lavorato con altre
società del gruppo (la Ulisse Shipping S.r.l. negli anni 1999-2000, la Tourist
Ferry Boat S.p.A. dal 2001 al 2004, la Servizi Norimberga Scpa dal 2004 al 2006
e poi la New TTTLines S.r.l. che cura il traghettamento di veicoli e passeggeri
sulla tratta Catania-Napoli). “Nei confronti del Buda l’agevolazione da parte
della Caronte & Tourist SpA si è manifestata con la sua assunzione, con la
rapida e brillante progressione in carriera, con la capacità di promuovere e
gestire le nuove assunzioni e con la delega conferitagli per la risoluzione
delle controversie tra dipendenti o con i fornitori e con la concessione di
biglietti omaggio da gestire per alimentare la percezione sociale del suo ruolo
dominante nella SpA.”, riportano i giudici. “Alla luce delle numerosissime
conversazioni intercettate emerge come nel corso del tempo Massimo Buda abbia
acquisito all’interno del gruppo societario un ruolo sempre più di maggiore
spessore arrivando a diventare il numero
uno della Caronte”.
“Devono altresì ritenersi
significativi una serie di episodi, univocamente sintomatici della sua
appartenenza alla ‘Ndrangheta: le modalità intimidatorie (financo con l’uso di
armi da fuoco) di esercizio delle sue mansioni di piazzalista, per conto della
società, per come emerso nella conversazione ambientale, registrata dagli
inquirenti il 23 agosto 2008 (parlando
con il comandante Rosario Donato, uno dei dirigenti, ancora oggi, della società
di navigazione, Buda raccontava di come avesse minacciato un camionista – reo
di non voler pagare il biglietto per il traghettamento – prospettando persino
il ricorso ad una pistola che deteneva illegalmente); la sua stabile ed
ancora attuale individuazione, da parte dei funzionari e dirigenti della
Caronte & Tourist SpA, quale soggetto in grado di prevenire e tacitare -
grazie alla forza d’intimidazione che la sua persona evocava – ogni
controversia incorsa tra i dipendenti o con la clientela”.
Il Buda avrebbe inoltre fatto da punto di riferimento della comunità di
Villa San Giovanni per la risoluzione dei problemi di “qualsivoglia natura”
verificatisi con l’azienda Caronte & Tourist. “Essendo notorio il suo peso all’interno della società, i suoi
concittadini a lui si rivolgevano quando erano necessari interventi per
dirimere controversie o per accomodare criticità di vario genere”, si legge nel
decreto del Tribunale di Reggio Calabria. “Nel maggio 2016 era Rocco Cassone,
ex sindaco della cittadina a chiedere a Buda l’intercessione in favore di un
marittimo, entrato in contrasto con il proprio comandante”.
Un’ulteriore conferma del ruolo
di primo piano di Massimo Buda all’interno
del gruppo armatoriale calabro-peloritano è giunta dai colloqui telefonici
intercettati nel dicembre 2016: emerge infatti come il dipendente era stato
designato dai vertici amministrativi della Caronte & Tourit per selezionare
il personale della Nicober Service S.r.l., azienda catanese colpita da una
grave crisi finanziaria, al fine di suddividerlo tra la nota società di
navigazione Tirrenia e la stessa Caronte & Tourist. “Gli interessi
economici di Massimo Buda, invece, sono stati agevolati in relazione alla
fornitura dei servizi di disinfestazione e derattizzazione alla Caronte &
Tourist SpA da parte della Carist di Cristiano Teodoro con sede a Catona (RC),
nonché alla fornitura dei servizi di prenotazione per l’imbarco degli
autotrasportatori, garantiti dalla Caronte & Tourist alla CAM Service
S.r.l. di Villa San Giovanni”, aggiungono gli inquirenti che ritengono come Carist
e CAM Service fossero imprese “fittiziamente intestate a terzi”, ma di fatto
nella disponibilità di Buda. In particolare, la prima società risultava
amministrata da Teodoro Cristiano, cognato di Massimo Buda che esercitava in
prima persona le funzioni di effettivo titolare, dettava le strategie
imprenditoriali e procurava le commesse “grazie alle sue entrature presso i dirigenti del gruppo di navigazione”.
Ancora più rilevanti gli introiti
economici della seconda società in mano al Buda, la CAM Service. Con un capitale
sociale di soli 10.000 euro e due dipendenti (tra cui Sonia Maria Cristina
Versace, moglie di Massimo Buda) la società riusciva a fatturare 2.809.904 euro
nel 2014, 3.728.444 euro nel 2015 e 4.183.719 euro nel 2016. “Anche in tal caso
Massimo Buda sino ad epoca recentissima ha gestito l’azienda, pur formalmente intestata
a terzi, ricavandone ingenti guadagni grazie alla partnership con Caronte &
Tourist, avvalendosi in tal caso della collaborazione di un cognato, Alberto
Carlo, per schermare il suo diretto coinvolgimento nell’iniziativa
imprenditoriale”, scrivono gli inquirenti.
“In realtà, l’agevolazione degli
interessi di Passalacqua e del Buda non è che il riflesso specifico di una
complessiva strumentalizzazione dell’impresa agli interessi della ‘Ndrangheta di
cui anche i due citati sono portatori (…) Si tratta di infiltrazione da
ritenersi attuale, atteso che, non appare pienamente convincente il percorso
seguito dalla società né possono essere positivamente valutate le terapie
interne, adottate dall’impresa, al fine di contenere il pericolo di reiterazione
nelle precedenti condotte agevolative”.
In verità alle fallimentari terapie di contenimento
dell’infiltrazione criminale all’interno della vita aziendale, il management
era giunto solo dopo alcune gravi vicende giudiziarie che avevano investito la Caronte
& Tourist e alcuni dei suoi più importanti rappresentanti. Come ricorda la
stessa Sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Reggio Calabria, nell’aprile
2019, l’amministratore delegato della SpA, l’ingegnere Vincenzo Franza,
rinveniva a bordo della sua autovettura le microspie collocate dalla Polizia
giudiziaria nell’ambito di un’indagine avviata dalla Procura della Repubblica
di Messina. “Avendo così acquisto contezza di essere sottoposto ad indagini,
chiedeva – per il tramite del suo difensore - di essere sottoposto ad
interrogatorio, che aveva luogo il 21 maggio 2019, a seguito del quale Vincenzo
Franza apprendeva la contestazione a suo carico – tra l’altro – del reato di
cui all’art. 416 bis. c.p e l’oggetto delle investigazioni”.
Nel dicembre del 2019 la Caronte
& Tourist era oggetto di un’operazione giudiziaria (Cenide), con l’esecuzione della misura cautelare nei confronti del suo
presidente Antonino Repaci e di uno degli amministratori delegati, Calogero
Famiani, per il reato di corruzione commesso unitamente all’ex direttore dell’Ufficio
tecnico del Comune di Villa San Giovanni, Francesco Morabito, contestualmente
accusato di concorso esterno in associazione mafiosa. Nello specifico i
magistrati reggini contestavano al Morabito di aver consentito alla Caronte
& Tourist di realizzare “in assenza di idoneo titolo abitativo ed in
violazione alla legge” opere edili per la riorganizzazione della viabilità e la
realizzazione di un nuovo impianto di biglietteria nell’area “Villa Agip” di
Villa San Giovanni, già adibita allo stoccaggio degli automezzi diretti in
Sicilia. “Quale controprestazione, Antonino Repaci e Calogero Famiani
promettevano (nell’ambito di più ampie e pluriennali relazioni caratterizzate
da favori, utilità e sovvenzioni a funzionari e amministratori locali del
comune di Villa San Giovanni, l’assunzione a tempo indeterminato presso la
società Caronte & Tourist del figlio di Giancarlo Trunfio, altro dipendente
del Settore tecnico del Comune”, si legge nell’ordinanza emessa dai magistrati.
Il 19 marzo 2020 il difensore
dell’ing. Vincenzo Franza richiedeva agli inquirenti peloritani l’archiviazione
del proprio assistito, spiegando come la società di navigazione avesse intanto modificato
il management aziendale dopo le dimissioni di Repaci e Famiani con la
contestuale assunzione dei ruoli di responsabilità di esponenti delle famiglie
Franza e Matacena, titolari dei pacchetti di maggioranza. Il legale specificava
inoltre che la Caronte & Tourist aveva avviato la “ristrutturazione della
policy aziendale”, anche grazie “all’intenzione del nuovo Cda della SpA di
procedere alla creazione di un comitato interno di controllo” e all’adesione del
protocollo di legalità, istituito tra
Ministero dell’Interno e Confindustria. Infine il gruppo rendeva nota l’istituzione
di una rigida procedura di selezione e
assunzione del personale e l’attivazione di un attento monitoraggio dei partner e dei fornitori locali, nonché l’individuazione
di un “soggetto terzo”, nella persona del dott. Santi Giuffrè, “già prefetto e
questore anche in questo distretto, a cui affidare un incarico di consulenza,
finalizzato alla verifica ed implementazione del citato protocollo di legalità”. Nome pesante quello del neo consulente:
vicedirettore del Centro Operativo della Direzione Investigativa Antimafia di
Palermo a partire del 1992, Santi Giuffrè ha poi ricoperto l’incarico di
questore a Caltanissetta nell’anno 2000; a Messina nel 2005 (dove – come si legge nel curriculum
vitae - ha gestito servizi di ordine
pubblico nel nuovo Stadio di Messina, all’epoca in serie A – la FC Messina
del gruppo Franza, NdA); a Reggio
Calabria nel 2008; a Napoli l’anno successivo. Nel 2014 Giuffrè è stato
nominato dalla Presidenza del Consiglio, Commissario Straordinario del Governo
per il coordinamento delle iniziative antiracket e antiusura.
Le tardive operazioni di bonifica non hanno però convinto gli
inquirenti. Con una nota del 3 settembre 2020, la D.I.A. di Reggio Calabria ha rilevato
infatti che “la catena di comando dei servizi operativi del gruppo Caronte
& Tourist nello Stretto di Messina, è tuttora invariato rispetto alle
precedenti acquisizioni investigative, poiché le direttive impartite da
Calogero Famiani giungono, per il tramite di Placido Restuccia e Rosario
Donato, a Massimo Buda, che oggi ha un incarico superiore rispetto a quello del
recente passato. Ne consegue che nulla di significativo è intervenuto rispetto
al passato e pertanto la società non ha inteso adottare le misure necessarie
per contenere aspettative delle cosche che, per più di un trentennio, hanno
beneficiato di tali rapporti con la società”.
Ancora più netto il giudizio dei
magistrati calabresi sulla nomina a consulente dell’ex questore ed ex prefetto
Santi Giuffrè. “Quanto poi alla attribuzione del ruolo di garante della
legalità al dott. Giuffrè, si osserva innanzitutto che il predetto è già stato
componente del Cda di Caronte & Tourist SpA sin dal giugno 2017 (in verità già
alla fine del 2016 lo stesso compare tra i membri del Comitato tecnico
scientifico della neo-costituita Fondazione “Giuseppe Franza – Elio Matacena”, NdA), nelle fasi in cui le scelte
societarie risultavano del tutto inidonee a scongiurare le infiltrazioni
mafiose. Inoltre appare significativo il fatto che il Giuffrè sia stato
cooptato nella sfera dirigenziale di Caronte & Tourist proprio da Antonino
Repaci, ovvero da colui che è stato il regista delle strategie aziendali per
più di un trentennio, essendosi dimesso soltanto a seguito della sottoposizione
alla misura cautelare per il reato di corruzione nel dicembre 2019”.
I magistrati definiscono di
“estrema confidenza” i rapporti esistenti tra il neo-consulente e l’ex
amministratore delegato e nel decreto che ordina l’amministrazione giudiziaria
della Caronte & Tourist riproducono gli stralci di una imbarazzante conversazione
telefonica intercorsa tra i due (già riportata nella nota della D.I.A. del 10
novembre 2020), allorché Repaci preannuncia al Giuffrè l’imminente designazione
quale consigliere di amministrazione della società, “rappresentandogli come il
suo ruolo, al di là della formale investitura e della cospicua retribuzione,
non avrebbe comportato alcuna effettiva responsabilità operativa (che
evidentemente rimaneva, invece, in mano ad altri)”. Antonino Repaci: Tu sarai nominato, eh, eh, consigliere
d’amministrazione della società. Non devi fare nulla. Soltanto accettare. Se
vuoi o non vuoi. Tutto qui…. Santi Giuffrè: Ma queste cose poi che cosa comportano? Repaci: Nulla. Una presenza… diciamo”. Giuffrè: Ah… Ci sono incontri? Repaci: Almeno due… due, tre volte l’anno. Insomma,
ecco. Una cosa di queste. Giuffré: Ecco.
Okay. Va bene. Repaci: C’è un
compenso stabilito dall’assemblea, ovviamente, che… che non guasta mai e qui
mentre quell’altro…. Giuffrè: Ma perché,
è a seduta? Repaci: No, no, no. E’
compenso annuo. Penso che saranno 50 mila euro l’anno. Questo sarà, più o meno….
Giuffrè: E senza offesa…. va bene allora…
No, certo che non guasta mai, anzi… Perché le cose pubbliche sono solo a titolo
onorifico… Noi così facciamo, forma e sostanza. Va bene!
“Deve ritenersi l’inadeguatezza
delle misure fino ad ora adottate dall’impresa, essendo basate sull’adozione di
protocolli e procedure nonché sull’individuazione di soggetti, ritenuti
meritori di considerazione, certamente, ma incapaci di attuare un’autentica
verifica delle debolezze aziendali che hanno consentito l’infiltrazione mafiosa”,
aggiungono i giudici calabresi. “E’ evidente infatti che se fosse sufficiente
l’adesione al protocollo di legalità e/o l’allegazione di procedure e sistemi
di controllo cartolari e generici, il modello organizzativo predisposto dalla
SpA e vigente all’epoca dei rapporti di agevolazione, sarebbe stato idoneo e
sufficiente al fine di contrastare l’imponente infiltrazione mafiosa aziendale,
accertata dall’indagine”. Il Tribunale lamenta infine come ancora non sia stato
fatto riferimento da parte degli organi societari ad un possibile avvio di
attività investigativa interna all’azienda, volta a comprendere quali strutture,
organismi o persone “non abbiano adeguatamente svolto il loro compito ovvero
abbiano deliberatamente agevolato gli interessi di soggetti pericolosi e sulla
eventuale sostituzione dei soggetti responsabili”.
Commenti
Posta un commento