Boicottare le armi di Israele. Una potente industria bellica
Un laboratorio per la sperimentazione delle più avanzate e disumanizzate dottrine d’intervento militare e delle politiche di controllo sicuritario ed apartheid. Israele, vetrina della “democrazia parlamentare” in Medio Oriente, si è affermata come il modello di Stato nell’era della guerra globale e permanente, capace di fronteggiare ogni forma di minaccia e di nemico, esterno ed interno. Uno Stato in cui vengono cancellati diritti e garanzie sociali in nome del pensiero unico neoliberista e dove a governare sono le ristrette élite a capo del complesso militare-finanziario-industriale-scientifico, forse il più segreto e tra i più potenti a livello mondiale.
La penetrazione massiva nel mercato
internazionale dei sistemi di guerra progettati e prodotti può forse spiegare
il livello d’impunità pressoché totale di cui gode Israele nonostante gli
innumerevoli crimini compiuti contro la popolazione palestinese, le aggressioni
in Libano e Siria e le violazioni di decine di risoluzioni delle Nazioni Unite.
E’ da diversi anni che il paese si posiziona tra i primi dieci esportatori di
armi al mondo. Nel 2019 le oltre cento aziende nazionali che operano in questo
settore hanno totalizzato complessivamente 7,2 miliardi di dollari di vendite
all’estero. Il 41% delle esportazioni ha interessato il continente asiatico; il
25% l’Europa; un altro 25% il Nord America, mentre Africa e America Latina sono
state destinatarie del restante 8% dell’export.
La produzione di elettronica avanzata e sistemi radar genera
da sola il 17% delle vendite nel mercato internazionale, mentre quella di
sistemi elettro-ottici un altro 12%. Israele si
pone all’avanguardia anche nella realizzazione e commercializzazione di
componenti missilistiche, in
particolare con i recentissimi sistemi di difesa
aerea “Iron Dome”, “Arrow-2” e “Arrow-3” prodotti dall’holding Israel Aerospace Industries - IAI
congiuntamente ai colossi statunitensi Boeing, Lockheed Martin e Raytheon. Israele controlla inoltre il 10% del mercato mondiale
riservato alle tecnologie per le guerre cibernetiche e nella città di Be’er Sheva,
nel deserto del Negev, sta sorgendo un enorme polo strategico per la
cibernetica e lo sviluppo delle nanotecnologie. Contestualmente le forze armate
israeliane stanno trasferendo a Be’er Sheva i reparti d’élite che fanno uso
delle tecnologie d’intelligence più sofisticate, nonché realizzando una nuova
mega-infrastruttura militare dal costo di 6,4 miliardi di dollari. Essa
ospiterà entro il 2023 oltre 35.000 soldati e il Comando generale delle forze
Sud a cui è affidata la pianificazione e direzione delle operazioni di guerra
nella Striscia di Gaza. Nell’installazione sorgerà pure un centro cyber e C4I (Command, control, communications, computers
and intelligence) e il nuovo quartier generale di Unit 8200, l’unità che opera in stretto
contatto con gli enti spionistici statunitensi come la National Security Agency
(NSA).
Altro settore in cui le imprese israeliane hanno assunto una
vera e propria leadership a livello internazionale è quello degli UAV/UCAV, gli
aeromobili senza pilota o droni. Israele è stato uno dei primi paesi a
sperimentare e utilizzare velivoli da guerra a pilotaggio remoto: le operazioni
risalgono alla guerra in Libano nel 1982 e successivamente l’impiego si è
esteso dai velivoli-spia ed intelligence a quelli “killer” che sganciano
missili aria-terra contro obiettivi civili e militari. Le forze armate e di polizia utilizzano
sistematicamente i droni nella “sorveglianza” a distanza di tutto il territorio
palestinese e per reprimere le manifestazioni e le azioni di resistenza
popolare contro l’occupazione israeliana. I “gioielli” della produzione nel
campo dei velivoli aerei senza pilota sono gli “Hermes” e gli “Heron”, acquistati da numerosi paesi
europei e africani. Essi sono pure entrati a far parte del dispositivo militare
anti-migranti schierato nel Mediterraneo dalle agenzie dell’Unione Europea
preposte al “controllo” delle frontiere esterne UE (Frontex, EMSA, ecc.).
Tra i prodotti ed i servizi forniti dall’industria israeliana per la
“sicurezza interna” ci sono poi le barriere ad alta tecnologia, i sistemi
d’identificazione biometrica, gli strumenti di sorveglianza audio e video, i
sistemi di schedatura dei passeggeri dei voli aerei e di interrogatorio dei
prigionieri. Si tratta in buona parte di tecnologie di identificazione e sorveglianza utilizzate nei
checkpoint e lungo il muro dell’Apartheid a Gaza e in West Bank per controllare
e/o impedire il movimento della popolazione palestinese. Il loro “successo” ha
fatto sì che oggi siano impiegati da numerosi clienti esteri nella gestione
dell’ordine pubblico, la repressione delle manifestazioni di protesta, la
ipermilitarizzazione delle frontiere. Sono israeliane le aziende che hanno fornito agli Stati Uniti d’America i sistemi antri-intrusione e i sensori
elettro-ottici installati in Arizona al confine con il Messico o gli stessi
sofisticatissimi radar per intercettare le imbarcazioni dei migranti che la
Guardia di finanza ha dislocato qualche anno fa in Puglia, Sicilia e Sardegna.
Se il Dipartimento della Difesa e le onnipotenti holding statunitensi
continuano ad essere i principali partner finanziari d’Israele, un contributo crescente
alla progettazione e produzione dei sistemi di morte israeliani è assicurato
dall’Unione europea soprattutto grazie ai finanziamenti per i piani di ricerca
pluriannuali. L’FP7, il programma della Commissione europea a promozione delle
attività scientifiche per il periodo 2007-2013, ha stanziato 876 milioni di
euro a favore di enti e aziende israeliane. Con “Horizon 2020” - il programma Ue a sostegno della
ricerca per il 2014-2020 - Israele ha ottenuto finanziamenti per 1.216 progetti
per complessivi 872 milioni di euro.
Un ruolo chiave nella ricerca e
sperimentazione di nuove armi è ricoperto da quasi tutte le università
israeliane, pubbliche e private. Le istituzioni accademiche costituiscono uno
dei tre pilastri
fondamentali del sistema politico-militare-sicuritario di Israele, accanto a quello
rappresentato dalle forze armate e dai molteplici apparti dei servizi segreti e
a quello del complesso industriale e finanziario. Sin dalla fondazione dello
Stato d’Israele, scuole, istituti, centri di ricerca e laboratori scientifici
hanno contribuito inoltre alla costruzione delle basi culturali e ideologiche
del sionismo e dell’apartheid del popolo palestinese.
Per promuovere e diffondere anche nel nostro paese la
campagna di embargo delle armi e dei sistemi di sicurezza israeliani, la
sezione italiana di BDS (il movimento internazionale di boicottaggio, disinvestimento
e sanzioni d’Israele), ha pubblicato nei giorni scorsi un dossier che raccoglie
saggi ed interventi di alcuni dei maggiori esperti della realtà politico-militare
del paese (Giorgio Beretta, Filippo Bianchetti, Rossana De Simone, Olivia
Ferguglia, Ugo Giannangeli, Loretta Mussi, Raffaele Spiga, Angelo Stefanini,
ecc.). Il volume descrive la consistenza della forza militare di Israele, le sempre
più strette relazioni dell’establishment nazionale con le istituzioni e i governi
europei, il ruolo degli istituti di ricerca e delle università israeliane nello
sviluppo di armi e tecnologie di controllo e security. Un ampio capitolo è riservato alla consolidata
partnership tra Italia e Israele a ai diversi accordi sottoscritti nel campo
della cooperazione industriale-militare, aero-spaziale e delle politiche di
sicurezza e di polizia interna (solo in ambito inter-accademico la banca dati
curata dal MIUR e dal Ministero degli Affari Esteri elenca ben 130 programmi di
collaborazione e ricerca tra le università italiane e quelle israeliane).
Nel dossier di BDS Italia si parla pure dell’arsenale
nucleare israeliano: nonostante sul tema Tel Aviv imponga la massima
segretezza, i ricercatori indipendenti stimano l’esistenza di non meno di 90
testate nucleari, forse anche 200 secondo la valutazione del plutonio che può
avere prodotto dal reattore nucleare di Dimona nel Negev. “L’obiettivo della
pubblicazione è quello di sollecitare le forze politiche perché si attui
l’embargo militare bidirezionale nei confronti di Israele, come previsto dalle
convenzioni internazionali”, spiega BDS Italia. “La società civile palestinese
chiede da tempo l’embargo militare per porre fine a alle complicità
internazionali e per rendere manifesta la responsabilità dei governanti
israeliani per i loro crimini. Come avvenne ai tempi della Apartheid in Sud
Africa nei primi anni ’80, la mobilitazione internazionale può contribuire a
rovesciare il sistema coloniale ed il regime che Israele impone ai Palestinesi,
anche con sanzioni e disinvestimenti. E’ urgente attuare l’embargo militare
totale fino a quando Israele non riconoscerà uguali diritti a tutti i cittadini
che abitano la Palestina storica, si ritirerà da tutti i territori arabi
occupati, consentirà il ritorno dei profughi e libererà i prigionieri politici”.
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