Ponte sullo Stretto. Un modello da lasciarsi alle spalle
Le tattiche dei media sono fondamentalmente due. Il “nemico” non esiste, va
ignorato, seppellito sotto tonnellate di spot, tele-show, dichiarazioni di
figuranti della politica da Palazzo. Altrimenti, deve essere vilipeso, irriso,
etichettato, isolato.
Decine di migliaia di persone, tra cui molta gente ormai disabituata ai
cortei ed altra del tutto nuova, sono scese in piazza negli ultimi anni da Nord
a Sud per difendere il territorio e la propria esistenza dall’ingordigia
distruttrice di un falso modello di sviluppo.
Anziché capirne le ragioni o cercare il dialogo, sono stati bollati come
terroristi e “no-global” dai politici, sbeffeggiati dai media come retrogradi
ed egoisti, e talvolta – come in Val Susa - colpiti senza misericordia dai
manganelli delle “forze dell’ordine”, desiderose di aprire la strada alle ruspe
portatrici della modernità.
L’isteria delle reazioni nasconde certamente l’irritazione, lo stupore, la
meraviglia, lo straniamento dei Berlusconidi
ormai convinti di confrontarsi esclusivamente con una tele-platea narcotizzata
ed intontita dalle frasi ad effetto studiate dai geni del marketing.
Ed invece si sono trovati di fronte a gente che esce, protesta, pensa e
dice e scrive parole che non avevano trovato cittadinanza in televisione.
Piccole minoranze, nel corso del tempo, hanno saputo spiegare le proprie
ragioni – concrete e non ideologiche -
guadagnandosi il consenso di chi – al di là dell’appartenenza politica –
pagherà comunque sulla propria pelle la presenza di mega-cantieri, discariche
radioattive o impianti inquinanti.
A tutto questo, alle ferite immediate, vanno aggiunti i danni letali ai
conti pubblici, la politica della privatizzazione che arricchisce pochi ed
impoverisce tutti gli altri, l’inefficienza senza rimedio e la lentezza
infinita delle troppe opere mai completate che nessuno spot elettorale potrà
mai coprire.
Processo
alla classe dirigente
Un sistema inefficiente e parassitario che impiega più di trent’anni per
pochi chilometri d’autostrada, che ammette orgoglioso la “convivenza” con il
crimine organizzato, che è incapace di mantenere l’esistente (si pensi agli
incidenti sulle linee ferroviarie ed alla strage quotidiana sulle strade
italiane) si candida alla progettazione della “mega-opera” più impegnativa mai
realizzata dall’uomo.
Uno scenario surreale reso possibile dalle campagne stampa di media
asserviti, secondo cui i veri nemici del progresso sono cittadini che non
vogliono vivere in un eterno, immenso cantiere.
Il panorama delle opere pubbliche negli ultimi anni è deprimente: non solo
lavori interminabili, ma anche parodistiche inaugurazioni pre-elettorali,
annullamenti di regole e controlli, cantieri che diventano corpo del reato e
vengono sequestrati dalla magistratura ed infine la fortissima privatizzazione
degli utili e l’altrettanto pesante socializzazione dei costi.
Lo Stato, perennemente disprezzato (a parole) dalle imprese, lo Stato dei
“lacci e lacciuoli”, l’elefante malato di burocrazia che tutti vogliono
trasparente, leggero o assente è in realtà da sempre lo strumento più comodo ed
ambito per ottenere profitti altrimenti irrealizzabili.
La “Legge Obiettivo” è stata il mezzo per creare un disastro sociale, un
colpo mortale alla fiducia dei cittadini nelle istituzioni ed una ferita forse
decisiva ai conti pubblici.
Nel dicembre 2001 il governo Berlusconi ha avviato il primo Programma delle
Infrastrutture strategiche in cui elencava 117 opere per un costo valutato
originariamente in 125,8 miliardi di euro, senza tuttavia indicare esattamente
le risorse né tanto meno la loro provenienza.
Nel 2004 il numero delle Grandi Opere era salito a 228, per un importo di
231,8 miliardi di euro e nel 2005 è arrivato a 235 interventi, per 264,3
miliardi di euro. Dopo quattro anni il costo complessivo del programma risulta
dunque raddoppiato.
Poiché nella scorsa legislatura il debito pubblico è tornato
pericolosamente a crescere, fino a superare il 106% del Pil, “stiamo
maneggiando una bomba a orologeria che minaccia di compromettere ulteriormente
il bilancio già dissestato dello Stato italiano” (La Repubblica, 2 marzo 2006).
Il panorama comprende Grandi Opere dal forte impatto
ambientale come il Mose, vicende grottesche come l’Alta velocità ferroviaria,
così come piccoli lavori di nessuna difficoltà mai completati dopo decenni.
Dal Grande Raccordo Anulare di Roma fino alla metropolitana di Napoli,
dalla variante di Mestre fino alla Salerno -Reggio Calabria (all’attuale ritmo
i lavori richiederanno 36 anni), l’Italia appare un paese che non riesce a
completare neanche le infrastrutture più semplici e banali (tra le “Grandi
opere” di Berlusconi figura la Olbia-Nuoro, 23 chilometri di statale).
Significativo l’episodio della Palermo – Messina, 36 anni di lavori, che
viene “inaugurata” poco prima delle elezioni da Cuffaro, presidente della
Regione, e Berlusconi, presidente del Consiglio, e poi subito chiusa per i
necessari lavori di completamento, con
sei mesi di ulteriore ritardo sul completamento finale.
La Tav, di cui i media si sono occupati solo dopo le sacrosante proteste
degli abitanti della Val Susa accusati di “antimodernismo”, è in realtà una
vicenda che risale al 1991, che ha già fatto immensi danni ambientali, che ha
celebrato a Perugia il processo “Tangentopoli 2” per l’assegnazione degli
appalti, che ha visto lievitare enormemente i costi a carico dello Stato
(nonostante le reiterate bugie che escludevano oneri per le casse pubbliche) e
che pongono già oggi pesanti ipoteche sul debito pubblico italiano, dopo anni
di Finanziarie “lacrime e sangue” pagate da pensionati e lavoratori.
Con quale perverso coraggio la classe politica ed imprenditoriale italiana
può accusare ambientalisti e popolazioni locali di “fermare il progresso”?
Come si può non ricordare questo contesto, perdere ogni riferimento anche
al recente passato, dimenticare la politica dei partiti e dei media legati alla
“lobby del cemento” che vive parassitariamente coi suoi cantieri eterni,
succhiando il sangue di tutti dalle casse dello Stato?
Il movimento contro le Grandi Opere ha denunciato tutto da tempo:
“Visti da vicino ed analizzati con competenza critica, i mega-interventi
proposti rivelano tutt’altro volto: si tratta di progetti spesso obsoleti, da
tempo nei cassetti o con ostinazione sostenuti da potenti lobby
economico-imprenditoriali, solitamente con forti intrecci - ed in maniera
purtroppo trasversale - con la politica istituzionale;
prevedono costi elevatissimi, destinati a crescere in corso d’opera e,
contrariamente alla declamata retorica del project
financing, quasi per intero a carico della finanza pubblica, sostenibili
solo sottraendo risorse cospicue a investimenti di grande utilità sociale;
comportano impatti ambientali pesantissimi, devastanti per i territori
attraversati e, spesso, anche nocivi per la salute delle popolazioni
interessate.
Per realizzare queste opere nell’interesse di pochi si stanno facendo carte
false…” (cit. “Grandi Opere? Grandi
bidoni!”, comunicato approvato a Venezia a conclusione dell’assemblea dei
Movimenti No Mose, No Ponte sullo Stretto, No TAV , 11 febbraio 2006).
Negli ultimi decenni abbiamo assistito ad una retorica della
privatizzazione, ad un attacco frontale allo Stato ed ad ogni forma di presenza
pubblica in economia che oggi può essere letto in maniera diversa.
Lo Stato è rimasto stazione appaltante ed assicura alle imprese private
profitti al riparo dalla concorrenza, rischi di mercato, verifiche di
efficienza.
I rischi, le perdite, i ritardi, sono tutti a carico della collettività, o
almeno di quella parte che paga le tasse e per questo è stata quasi
sbeffeggiata dal premier Berlusconi.
L’arretramento dello Stato, lungi dall’assicurare efficienza, ha
significato riduzione di regole e controlli, discrezionalità dei “General Contractor” nell’assegnazione di
subappalti o nella gestione privatistica di fondi e voci di bilancio, con
perdita di rilevanza penale di comportamenti dannosi per la società.
Ha significato nei fatti maggiore spazio per la criminalità, l’annullamento
dei diritti dei lavoratori, l’allontanamento di imprese che non accettano
tavolini di spartizione, la penalizzazione della qualità e dell’efficienza.
Un totale rovesciamento del buon senso, una giungla senza legge che fa
apparire grotteschi i richiami ai tanti “volani dello sviluppo” in un Paese
arraffone, truffaldino, autolesionista nella distruzione del proprio patrimonio
paesaggistico e delle reti sociali di fiducia e progettazione.
Un Paese che non riesce più a fare neanche l’essenziale e che somiglia al
giocatore d’azzardo ad un passo dalla rovina che decide di rilanciare con la
faraonica super-opera, il mega-specchio per le tele-allodole, un Ponte sulla
cui utilità appare ormai anche poco proficuo discutere.
Un Ponte che diventa il simbolo tragicomico di qualcosa che comunque
dovremo lasciarci alle spalle.
Critica all’economia
e razionalizzazione
Molti pensosi opinionisti hanno accusato i movimenti contro le grandi opere
di essere portatori di interessi ed egoismo locali, agitatori di battaglie del
“non-nel-mio-giardinetto” ed incapaci di aprirsi a visioni più ampie.
In realtà, è vero l’opposto. Il movimento ha nel suo DNA una visione
globale dei problemi aperti.
“Alla logica delle Grandi Opere si contrappone dovunque non certo una
chiusura localistica, ma la difesa del territorio come prezioso bene comune, di
tutti e non solo delle comunità che vi risiedono.
Ecco allora che la difesa di un territorio, della sua storia e della sua
identità, della qualità della vita e del tessuto di relazioni sociali che su
quel territorio sono cresciute, diventano rivendicazioni, locali e globali
insieme, portatrici di una critica radicale ad un modello di sviluppo che si
alimenta di decisioni prese altrove, da poteri forti e opachi, in nome
dell’interesse superiore del profitto e della depredazione dei beni comuni.
In tutte queste lotte è decisivo il riemergere del valore della dimensione
comunitaria e municipale, come spazio praticabile per l’invenzione di nuove
forme di democrazia e di autogoverno, anche qui senza alcun ‘localismo’, ma
nella continua ricerca di una relazione aperta con l’altro.
Ed in questo passaggio prende corpo un’altra, diversa idea di ‘sviluppo’
possibile, centrata sui bisogni reali di un territorio e della sua popolazione,
sulla cura dei beni comuni, sulla crescita di relazioni solidali” (“Grandi Opere? Grandi bidoni!”, cit.).
Molte grandi opere sono il frutto dell’azione di lobbying di soggetti che
nel corso del quaderno ricorreranno
spesso. Nulla più, e come tali vanno considerate. Ma la “sovrastruttura” che
viene creata, il modello di un industrialismo ottocentesco fatto di cemento e
ferro, di grandezza e grandiosità è del tutto superato; così come il delirio
della velocità, l’assurdo rapporto costi/benefici che vede lo sperpero di
miliardi di euro per recuperare pochi minuti su una tratta ferroviaria.
Se esiste una parola chiave possibile – utile almeno quanto il concetto di decrescita - questa è razionalizzazione. Un nuovo illuminismo
che ci porti a rifiutare le merci che viaggiano inconcludenti da un punto
all’altro dei continenti, i treni superveloci per i top manager e le carrozze
con le zecche per i pendolari, la sovrapproduzione che produce disoccupati,
rifiuti da smaltire, bisogni indotti, insoddisfazioni.
Forse questo sistema non può essere stravolto in tempi rapidi, certamente
può e deve essere razionalizzato.
No. E
poi?
Dicono gli economisti che la fiducia è un bene economico prezioso, Ciampi
ad esempio centrò su questo concetto il discorso di fine anno del 2003, dai
Nobel ai ricercatori di periferia tutti gli economisti ritengono la fiducia una
materia prima fondamentale. Nell’Italia del terzo millennio la fiducia è
diventata una risorsa inesistente, ridotta al minimo come una falda acquifera
nel deserto.
Nel Mezzogiorno d’Italia, la crisi economica è un ottimo motivo per
riproporre il fatalismo storico che ammorba troppe coscienze.
“Tanto il Ponte non lo faranno mai”,
si sente dire spesso. Se questo dovesse diventare realtà, cioè se apriranno i
cantieri senza chiuderli mai, la fiducia, questa preziosa risorsa sarà
definitivamente prosciugata per un numero indefinibile di generazioni.
D’altra parte, potrebbe prevalere un “No al Ponte” di pura conservazione,
un non fare che non prevede un altro
mondo possibile né un nuovo modello di sviluppo ma è solo generica voglia di
immobilismo.
Il “No ponte” non può essere né una questione tecnico-ingegneristica, né il
prodotto della sfiducia e del fatalismo.
La mancata costruzione dell’opera sarebbe una vittoria di Pirro in mancanza
di un modello alternativo, che dia risposte vere ad una crisi socio-economica
strutturale dalle conseguenze ancora imprevedibili.
I movimenti non possono fare da soli ciò che la politica e la cultura non
riescono a fare. Sono stati però un momento forse decisivo in cui si è detto
“alt”, in cui si è tentato di impedire, con sforzi spesso eroici, l’ingresso in
una strada senza uscita.
Il no
razionale
Il quaderno raccoglie in sette
punti le ragioni del No al Ponte.
Partito come opinione nettamente di minoranza, il No ha conquistato con la
forza delle argomentazioni vaste aree della popolazione locale, come
testimoniato dalle manifestazioni di massa, e dell’opinione pubblica nazionale.
Si inizia con la lobby del cemento,
il club delle grandi opere legato trasversalmente alle forze politiche ed
abituato alle spartizioni, alle presenze incrociate che annullano controlli e concorrenza,
alla depredazione delle risorse.
Si prosegue con uno studio sull’impatto sociale dell’opera, in un
territorio fragilissimo dal punto di vista socio-economico: i cantieri e la
vita quotidiana, l’inquinamento, la salute delle popolazioni, gli espropri.
Ancora, il ruolo delle mafie sotto un duplice aspetto: l’inserimento della
criminalità locale che controlla il territorio nei subappalti ed il tentativo
già avvenuto della grande mafia internazionale di finanziare direttamente
l’opera.
Fondamentale e trascurato, l’impatto sui conti pubblici. Chi pagherà alla
fine? Quanto è davvero utile il Ponte? Vedremo che sono stati sovrastimati i
vantaggi e gli utili e sottostimati i costi.
Assolutamente gonfiato anche l’impatto occupazionale: il Ponte non dà lavoro,
probabilmente ne toglie.
Si analizza poi l’impatto ambientale dell’opera su un paesaggio dal valore
unico, già deturpato da abusivismo ed incuria e che oggi si trova al bivio tra
l’affossamento definitivo ed un possibile rilancio.
Infine il capitolo sulle ancora troppo poco conosciute convergenze tra gli
“amici del ponte” e i conflitti che insanguinano il pianeta. Il Ponte stesso
genererà nuovi processi di militarizzazione nell’area dello Stretto, come se
non dovessero già bastare le servitù di basi e infrastrutture convenzionali e
nucleari che soffocano il Mezzogiorno d’Italia.
I mesi successivi alle politiche del 2006 sono decisivi per il Movimento
che si oppone all’ecomostro dello Stretto. La risicata maggioranza di
centrosinistra uscita dalle elezioni non lascia presagire l’adozione di scelte
definitive e radicali in tema di Grandi Opere. Sarà necessario intensificare le
campagne di mobilitazione, adottare nuovi strumenti di lotta nonviolenti,
sostenere le azioni di boicottaggio economico delle imprese “amiche” del Ponte.
Sarà necessaria un’opera di inchiesta sui mille punti oscuri che hanno
caratterizzato l’iter progettuale del Ponte sullo Stretto. Terrelibere.org ha
chiesto alle forze politiche di farsi promotrici di una commissione parlamentare
d’indagine sugli interessi mafiosi nell’opera e sulle modalità di gestione e
spesa della Società pubblica concessionaria.
Una doverosa ricerca di verità che faccia seguito alla sospensione e alla
revoca di tutti i procedimenti pro-Ponte.
Perché di Ecomostri nello Stretto non se ne senta parlare più.
Introduzione del volume di Antonello Mangano e Antonio Mazzeo, Il mostro sullo Stretto. Sette ottimi motivi
per non costruire il Ponte, Sicilia Punto L / Terrelibere.org, Ragusa,
giugno 2006.
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