Emiri e sovrani d’Arabia, il terrorismo “islamico” e il Ponte di Messina
Proclami
di guerra contro il “terrorismo islamico”; Ue, Usa, Russia e Nato tutti insieme
contro il Califfato in partnership con Arabia Saudita. Emirati, Qatar e Kuwait.
Tutti insieme, come già in Afghanistan e Iraq: le “vittime” dell’Occidente e i sostenitori-finanziatori
dei “carnefici” del Medio oriente. In attesa dei bombardamenti italiani, utile
riportare alla memoria quanto scrivevo sull’Arabian Connection, più di 5 anni
fa nel volume “I Padrini del Ponte”.
Avrebbe avuto legami con le
organizzazioni dell’estremismo religioso Sheikh Kalifa Bin Zayed Al Nahyan,
l’emiro di Abu Dhabi (morto nel 2006). Affascinato dal misticismo islamico e
credente nel destino divino della propria famiglia, negli anni Sessanta Sheikh
Kalifa Bin Zayed visitò il Beluchistan pakistano sotto la protezione di un
anziano funzionario dei servizi segreti di quel paese, tale “Awan”, che lo mise
in contatto con molti dervisci e mistici locali. Fu proprio grazie a questi contatti
che l’emiro di Abu Dhabi incontrò in Pakistan l’uomo d’affari Agha Hassan
Abedi, divenendone grande amico e collaboratore finanziario. Abedi è il
fondatore della Bcci, la Bank of Credit and Commerce International, più nota
come Criminal Bank, per diversi anni il più importante centro di
“lavaggio” del denaro proveniente dal narcotraffico, utilizzata dalla Cia per
la conduzione di operazioni clandestine a favore dell’ex alleato Saddam
Hussein, del dittatore pakistano Mohammed Zia, della Contra nicaraguese e della
resistenza islamica all’occupazione sovietica dell’Afghanistan. Grazie all’amicizia
con il potente emiro Zayed Al Nahyan, che la Bcci ebbe la possibilità di aprire
tre filiali negli Emirati Arabi Uniti, una delle quali proprio ad Abu Dhabi.
Il pakistano Agha Hasan
Abedi è, a sua volta, uno dei più importanti soci del miliardario saudita Adnan
Khashoggi, noto mercante d’armi e, nei primi anni Ottanta, intermediario per
conto dell’amministrazione Usa del trasferimento di strumenti di guerra a
favore del governo “nemico” di Khomeiny. Il rapporto del Senato sull’affaire
Bcci, lo definisce letteralmente come “uno dei contatti chiave per
l’intelligence degli Stati Uniti in Medio Oriente”. Oliver North, il tenente
colonnello dei marines che coordinava le forniture d’armi clandestine, si
avvalse nel 1986 di Khashoggi per far giungere componenti missilistiche alle
forze armate iraniane. Determinante fu il ruolo del saudita nelle vendite di
armi all’Argentina, orchestrate negli anni della dittatura militare dal
cosiddetto “Comitato di Montecarlo”, vera e propria filiale internazionale
della loggia P2. Ma Adnan Khashoggi è stato pure ritenuto dall’Interpol come
uno dei principali terminali internazionali delle organizzazioni che gestiscono
i traffici di droga, l’investimento delle tangenti e delle estorsioni, lo
spionaggio. Nella sua inchiesta su armi e droga, il giudice Carlo Palermo aveva
ricostruito i legami affaristici tra il miliardario saudita, il faccendiere
piduista Francesco Pazienza, il finanziere socialista Ferdinando Mach di
Palmstein e l’imprenditore palermitano Maurizio Mazzotta, poi implicato nella
vicenda Calvi-Banco Ambrosiano.
Dati i legami con
l’entourage della famiglia reale saudita, gli affari migliori di Khashoggi sono
consistiti nel trasferimento di tecnologie militari occidentali agli Stati
arabi del Golfo. Vicini a lui erano il cognato di re Faisal d’Arabia, Kamal
Adham, ex direttore della Bcci ed uomo di vertice dei servizi segreti sauditi,
e Gaith Pharaon, consigliere del sovrano e fondatore con Assan Abedi della Criminal
Bank. Anche Gaith Pharaon è un personaggio noto in Italia: a fine anni
Ottanta, dopo essere stato implicato in un presunto trasferimento di componenti
nucleari alla Libia, acquisì una consistente quota del pacchetto azionario
dell’allora Montedison diretta dal socialista Mario Schimberni. Quest’ultimo
aveva accumulato fondi neri per un valore di mille miliardi di lire presso
società con sede a Curaçao, Antille olandesi.
Importante partner del
regime dell’Arabia Saudita, perlomeno sino agli attentati terroristici dell’11
settembre 2001, era il Saudi Binladin Group (Sbg), il colosso finanziario della
famiglia bin Laden operante nei settori delle costruzioni, della distribuzione,
delle telecomunicazioni e dell’editoria. Fu grazie all’amicizia personale con
il re Abdulaziz Al Saud, fondatore del regno saudita, che fu accumulato un
immenso patrimonio finanziario da Mohammad bin Laden, il patriarca della famiglia
morto negli Stati Uniti in uno strano incidente aereo. Amico personale di re
Fahd (recentemente scomparso) era pure il primogenito Salem bin Laden,
succeduto al padre nella conduzione della holding, ed anch’egli vittima nel
1988 di un incidente aereo in Texas, dove si era recato per trattare affari con
George Bush senior.
Amministrato da Bakr bin
Laden, fratello del più noto Osama, il Saudi Binladin Group è stato per lungo
tempo il principale cliente della famiglia regnante dell’Arabia Saudita per la
costruzione e l’amministrazione dei luoghi santi del mondo islamico. La
controversa famiglia bin Laden ha aderito al “wahhabismo”, il movimento
rigorista sunnita diffusosi in Medio oriente nel XVIII secolo e rilanciato dai
regnanti sauditi nel Novecento. A partire dagli anni Settanta, l’Arabia Saudita
ha investito somme notevoli per l’esportazione del pensiero wahhabita, dando
vita a una pluralità di movimenti islamisti radicali nell’area afghano-pakistana,
in Caucaso ed Asia centrale e nel Sud-est asiatico.
I bin Laden sono stati tra i
principali investitori della Al-Shamal Islamic Bank, utilizzata dal principe
Mohamed Al-Faisal Al-Saud per finanziare i principali movimenti wahhabiti
internazionali. I bin Laden sono pure azionisti di un altro istituto bancario
filoradicale, la Dubai Islamic Bank di Mohamed Khalfan ben Kharbarsh, ministro
delle finanze saudita.
Nonostante la forte
connotazione pro-islamica, il Saudi Binladin Group si è affermato nei maggiori
mercati azionari mondiali, conseguendo partecipazioni in imprese statunitensi,
canadesi ed europee, come ad esempio General Electric, Motorola, Nortel
Networks, Iridium, Unilever, Quaker e Cadbury Schweppes. La holding dei bin Laden
ha ottenuto il controllo della Forship Ltd, una delle maggiori società mondiali
per i trasporti a nolo, operativa in Gran Bretagna, Francia, Egitto e Canada.
Rilevanti infine i vincoli
con alcuni dei maggiori gruppi finanziari transnazionali: il Saudi Binladin
Group ha infatti operato congiuntamente con Goldman & Sachs, Citigroup,
Deutsche Bank ed Abn Amro. Goldman & Sachs, a seguito dell’uscita di Gemina
da Impregilo, ha acquisito il 2,84% della società di Sesto San Giovanni;
inoltre controlla l’8% circa dell’holding finanziaria Sintonia Sa, il cui
azionista principale è Edizione Srl della famiglia Benetton, tra gli azionisti
di rilievo della società general contractor del Ponte sullo Stretto. Abn Amro,
dopo essersi offerta di finanziare la realizzazione del Ponte, nel gennaio 2008
ha accettato la richiesta di Igli (la finanziaria di controllo d’Impregilo, formata
dai gruppi Benetton, Gavio e Ligresti) di rastrellare sul mercato il 3% delle
azioni della società di costruzioni. Igli si è riservata l’opzione di acquisire
questo pacchetto; in caso contrario Abn Amro deciderà se restare nella società
oppure trasferire a terzi le azioni. La banca olandese, proprietà di una
holding che vede la partecipazione, tra gli altri, del Banco Santander Central
Hispano S.A. e della Royal Bank of Scotland, è pure azionista di Unicredit
(1,9%), che detiene, a sua volta, poco meno del 2% del pacchetto azionario di
Impregilo. Coincidenza vuole che nel luglio 1993 la filiale Abn Amro in Italia
sia finita sotto i riflettori degli ispettori della Banca d’Italia per una
serie di finanziamenti “non corretti sotto il profilo degli adempimenti
previsti dalla normativa antiriciclaggio e bancaria italiana”. I finanziamenti
erano finalizzati alla copertura assicurativa delle attività imprenditoriali
estere di Rosario Spadaro e Vincenzo Bertucci, prima fra tutte la sfortunata
realizzazione dell’aeroporto di Sint Maarten.
Kabul-Messina la rotta dei
capi dei servizi segreti
Ci sono però ben altre
vicende in cui gli interessi dei congiunti dell’uomo più ricercato del pianeta
s’incrociano con le operazioni speculative dei signori del Ponte. Yeslam bin
Laden, altro fratello di Osama, compare alla guida della Saudi Investment
Company (Sico), società finanziaria creata nel maggio 1980 a Zurigo con lo
scopo di amministrare una parte dei profitti del Saudi Binladin Group. Grazie alla
Sico i bin Laden hanno eseguito i lavori di ristrutturazione delle moschee
della Mecca e Medina, e costruito aeroporti, autostrade, centrali elettriche e palazzi
in Arabia Saudita, Cipro, Giordania e l’immancabile Canada. Una sezione
periferica della Sico ha sede a Curaçao, isola delle Antille olandesi dove Saro
Spadaro e il socio italoamericano Edward Goffredo Cellini si sono occupati
della gestione di alcuni hotel con annessi casinò.
La Saudi Investment Company
è pure una delle società sospettate di essere stata utilizzata dalla Cia per
finanziare la resistenza afghana, quando l’ancora giovane Osama bin Laden era
il fedele alleato di Washington nella lotta contro gli occupanti sovietici. Da
comandante dei mujahidin in Afghanistan, bin Laden aveva ottenuto ingenti
finanziamenti da re Fahd e dai servizi segreti pakistani. Il suo diretto
referente era al tempo il principe Turki bin Faisal al-Saud (uno dei figli di
re Faisal nonché nipote dello stesso re Fahd), per oltre vent’anni a capo dei
servizi segreti sauditi, da cui venne misteriosamente esautorato il 31 agosto
2001, undici giorni prima cioè dell’offensiva terroristica contro l’America. Sarebbe
stato proprio il suo antico e solido legame di amicizia con Osama bin Laden la
causa dell’improvvisa uscita di scena di Turki bin Faisal, su pressione degli
Stati Uniti. Eppure il principe si era costruito una solida reputazione di
professionalità ed efficienza nella conduzione dell’intelligence saudita.
Considerato uno dei più brillanti strateghi politico-militari della famiglia
regnante, dal 1977 era stato il principale anello di congiunzione tra i servizi
segreti arabi filo-occidentali e gli omologhi di Stati Uniti, Francia e Gran
Bretagna. Fu così che Turki bin Faisal divenne “l’uomo di contatto” per le
operazioni saudite (e statunitensi) in Afghanistan e nell’Asia Centrale dopo
l’invasione sovietica del 1979. Nel corso degli anni Ottanta, il capo dei
servizi segreti incontrò più volte Osama bin Laden per convincerlo a sostenere
la lotta contro l’occupazione sovietica. Nel 1993 il principe Turki fece
persino da mediatore tra le differenti fazioni in guerra in Afghanistan.
Stando a Turki bin Faisal,
le sue relazioni con Osama bin Laden si sarebbero interrotte nel momento in cui
quest’ultimo fu dichiarato “nemico pubblico” di Riyadh e gli fu cancellata la
cittadinanza saudita. Sembra invece che il principe Turki visitasse
regolarmente il quartier generale di Kandahar dove vivevano Mullah Mohammed Omar
e Osama bin Laden almeno fino al 1996, anno in cui i Talibani conquistarono
Kabul. Secondo il periodico francese Paris Match, i servizi segreti
sauditi sarebbero però rimasti in contatto con i leader di Al Qaeda sino al
fatidico 11 settembre 2001. Presso l’ambasciata saudita a Kabul funzionava
infatti un servizio di logistica destinato ai combattenti di Al Qaeda. A
occuparsene, la fondazione al-Haramain, promossa e finanziata da ambienti
wahhabiti e dalla famiglia reale saudita. Per tutto questo i familiari delle
vittime dell’attentato alle Torri Gemelle hanno promosso una causa civile
contro Turki bin Faisal ed il principe Sultan bin Abdul Aziz al-Saud, ministro
della difesa saudita, richiedendo un risarcimento multimilionario per aver “finanziato
direttamente, con banche e associazioni caritative, i terroristi coinvolti
negli attacchi”. Nonostante i suoi discutibili trascorsi, l’ex capo dei servizi
è stato nominato nel 2005 ambasciatore dell’Arabia Saudita a Washington.
Ancora più incredibile
invece la storia dell’uomo chiamato a sostituire Turki bin Feisal ai vertici
dell’intelligence saudita, undici giorni prima, ripetiamo, dell’attacco aereo
ai grattacieli di New York. Si tratta del principe Nawaf bin Abdul Aziz Al
Saud, zio del suo precedessore, figlio di re Abd al-Aziz e fratello del
principe Abdullah, oggi sovrano d’Arabia. Fresco di nomina, Nawaf bin Abdul
Aziz partecipava il 19 settembre 2001, in compagnia di Abdullah, ad un summit a
Riyadh con i vertici dei servizi segreti pakistani rientrati da una missione in
Afghanistan finalizzata a “neutralizzare” Osama bin Laden e “disfarsi” del
regime dei Talibani. Il summit seguiva una misteriosa visita lampo che il
principe Abdullah aveva effettuato in Pakistan il 22 agosto 2001. Secondo
l’accreditato periodico Asia Times, il saudita, in compagnia dei capi
dei servizi segreti pakistani, si sarebbe incontrato con il leader Mullah Omar
per “tentare di convincerlo che gli Stati Uniti erano prossimi a sferrare un
attacco in Afghanistan”; era pertanto opportuno che bin Laden raggiungesse
l’Arabia Saudita “dove sarebbe stato tenuto in custodia senza possibilità di
essere consegnato a paesi terzi”. Sempre secondo Asia Times, Abdullah,
definito un “segreto supporter di bin Laden”, si sarebbe mosso proprio con l’obiettivo
di salvare il leader di Al Qaeda. La proposta sarebbe stata tuttavia rifiutata
da Mullah Omar.
L’epilogo è noto. Dopo aver
sostituito il pluridecennale capo dei servizi segreti con un congiunto senza
alcuna esperienza d’intelligence, l’Arabia Saudita è divenuta una fedele
partner degli Stati Uniti nella lotta a bin Laden e nella caccia agli
estremisti islamici. Un ruolo pagato caro, dato che il Paese si è trasformato
in uno dei bersagli privilegiati del terrorismo di marca islamica. Nel solo
biennio 2003-2004 l’Arabia Saudita è stata vittima di ventidue attentati nei
quali sono stati uccisi novanta civili e trentanove poliziotti.
Ricordate gli “amici” arabi
che dovevano intervenire a soccorso di mister Zappia per contribuire al
finanziamento del Ponte sullo Stretto di Messina? Interrogato dai magistrati
romani, l’ingegnere italo canadese ha fatto riferimento ad un misterioso
principe saudita. Per Il Giornale si tratterebbe di Bin Nawaf bin
Abdulaziz Al Saud, uno dei nipoti di re Fahd d’Arabia. Se non fosse per un bin
di troppo e una leggera difformità nella trascrizione del nome, si potrebbe
giurare che si tratti dello stesso Nawaf bin Abdul Aziz Al Saud assunto a capo
dei servizi segreti sauditi alla vigilia dell’11 settembre. O, eventualmente, di
uno dei suoi più stretti congiunti. Un altro strettissimo familiare del “principe”,
Mohammed bin Nawaf bin Abdul Aziz Al Saud, ha ricoperto dal 1995 al 2005
l’incarico di ambasciatore dell’Arabia Saudita in Italia e Malta. Nel settembre
1997 Mohammed bin Nawaf coordinò la visita ufficiale in Italia dell’allora vice
primo ministro e capo del dicastero della difesa e dell’aviazione saudita,
principe Sultan bin Abdul Aziz Al Saud. Premier Romano Prodi, l’Arabia Saudita
si affermò in quell’anno come il principale destinatario dell’export di armi
“made in Italy”. Successivamente il diplomatico è stato destinato a rappresentare
il regime arabo in Gran Bretagna ed Irlanda, sostituendo proprio l’ex capo dei
servizi segreti Turki ben Al Feisal.
Da “I Padrini del Ponte. Affari di mafia sullo
Stretto di Messina”, Alegre edizioni, Roma, 2010
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