Potenti e Mutanti. La scalata del gruppo Franza, dagli albori ai giorni nostri
È la DYNASTY dello Stretto. È la storia di un gruppo da 180 miliardi, interessi nella navigazione, nel turismo, nell’edilizia e nell’industria, poi il gran salto in Borsa e nella finanza, oggi la scalata ad un sostanziale pacchetto della Banca Commerciale. È la leggenda di una famiglia, quella dei Franza, anzi la leggenda di tre famiglie unite da amicizia e da matrimoni, i Franza, i Genovese e i Mondello. Neanche tanto nell’ombra la sapiente regia del Ministro buono per tutte le salse e tutte le stagioni, il “compianto” on. Gullotti, la sorella Angelina andata in sposa al sen. Luigi Genovese e nei consigli della holding. Scenografo l’ing. Pino Merlino, Sindaco ai tempi dell’irresistibile ascesa dei Franza & Soci. Intorno, le schiere dei soliti potenti, nobili e borghesi, gli Stagno d’Alcontres, i Rodriquez, i Colonna, i Russotti. Poi i principi dello scudocrociato, i Germanà, i Perrone, i Galipò, gli Astone, i Santalco e i vassalli delle Giunte dell’ultimo ventennio, Andò, Naro e Bonsignore.
I Franza, Dc Doc certamente,
ma temuti e rispettati dal grande partito trasversale. E così, a tributare
l’estremo saluto a Giuseppe il Grande, ecco gli uomini della prima e della
seconda Repubblica, i Ricevuto, i D’Acquino, i Martino, i Ragno, i Natoli.
Grande senso degli affari, sagge amicizie
e solidi legami familiari, la formula del successo. La saga inizia nella
Sicilia del dopoguerra, quando a nonno Vincenzo toccano i lavori di riforestazione. Gestione patriarcale quella
di casa Franza. Sorte delle figlie il matrimonio, Katia in sposa all’illustre
geriatra Vittorio Nicita Mauro, Antonella al colonnello della Forestale Giorgio
Caputo. Ai figli Giuseppe e Paolo il destino d’imprenditori. È la laurea in
ingegneria del primogenito a diversificare le attività economiche della
famiglia. Sono gli anni della ricostruzione e a Messina c’è fame di mattoni.
Poi il lampo di genio, e Giuseppe coglie la ricchezza del mare, il
traghettamento. Infine il colpo di fulmine, quello per l’affascinante Olga
Mondello, l’ultima rappresentante di una rispettata famiglia della borghesia
locale, nota per un antico saponificio e per lo zio Mario ambasciatore
d’Italia.
A fine anni settanta
Giuseppe è un potente, anzi, è un pezzo di potere. Feste, banchetti, consegne
di premi e borse studio, ogni occasione è buona per farsi fotografare accanto
al nuovo Re Mida dello Stretto. Lo amano frequentare gli industriali alla
Versaci e alla Cassiano. Gli ingegneri alla Turi Rizzo e alla Navarra
Tramontana, avvocati di grido e finanche prefetti e magistrati. Giuseppe F.,
insignito del titolo di “consigliere” della Banca d’Italia, gode della piena
fiducia degli Istituti di credito e dei suoi dirigenti: la Banca del Sud del
buon Merlino, la Cassa di Risparmio dell’onorevole Stagno D’alcontres, il Banco
di Sicilia di Rocco Robberto e Sigismondo Saetta. A tesserne le lodi sulla
stampa le migliori firme locali. Qualche giornalista del resto è tra le note
spese, magari sotto forma di pubblicità redazionale o di “mediazione vendita
appartamenti”. Averlo testimone alle proprie nozze è un onore, meglio ancora se
in compagnia della Messina che più conta. Così al matrimonio dei figli dei
Troja e dei Pulejo, Giuseppe Franza è accanto al sen. Uberto Bonino e
all’allora sindaco Antonio Andò. Amicizie tante, eppure non sempre digeste.
Come quella per Tony Boemi, l’editore di Telespazio, in odor di ‘ndrangheta con
i Molè-Piromalli di Gioia Tauro o quella con Italo Giacoppo, già capogruppo
Psdi al Comune, arrestato nell’83 con l’accusa di estorsione.
Sembrava che l’impero dovesse
crollare con le improvvise morti dell’ingegnere e di Gullotti, ma ecco scendere
in campo l’energica Olga e i figli Vincenzo, Helga e Pietro e per il gruppo
Franza è un’iniezione di fresca managerialità. Le risorse dei traghetti e delle
società edili vengono reinvestiti in
nuove finanziarie create nella Roma Capitale. La controllata “Cofimer” arriva a
rastrellare ben 4 milioni di titoli Comit e il 15% della “Marathon holding” sigla
esordiente nella gestioni patrimoniali e un azionista cresciuto a fianco di
Raul Gardini, quel Sergio Cragnotti indagato a Ravenna per false comunicazioni
sociali e associazione a delinquere. “Ci siamo fatti da soli” amano ripetere
madre e figli a tutti coloro che restano abbagliati da sì tanto splendore. “E
abbiamo sempre evitato con cura gli appalti pubblici”.
I RE MIDA DEI TRAGHETTI
Da una sponda l’orribile
Caronte traghettatore degli inferi, il Caronte di Amedeo Matacena, finanziatore
a Reggio della rivolta nera dei “boia chi molla”. Dall’altra la Tourist Ferry
Boat del quadrunvirato Franza-Genovese-Gullotti-Mondello, vera e propria
gallina dalle uova d’oro con un consiglio d’amministrazione rigorosamente
riservato a casalinghe, pensionati e studenti. Un patto d’acciaio per spartirsi
il flusso da e verso la Sicilia, quasi tre milioni di camion e auto nel solo
’93. Vent’anni fa pubblico e privati si dividevano metà e metà oneri e
profitti. Oggi alle Ferrovie dello Stato non spetta più del 10% del fatturato
dello Stretto: l’assenza di regole, le unità navali “pesanti” difficilmente
manovrabili e spesso “fuori uso”, le lunghe attese all’imbarco, gli “errori”
nella programmazione dei manager FS, hanno nei fatti regalato ai Franza e ai
Matacena il totale controllo dei traghetti.
Eppure il tutto non era
cominciato nel migliore dei modi. Nel 1967 il Consiglio di Stato aveva
affermato l’impossibilità della compresenza dei privati nella stessa area
dell’azienda pubblica. Quattro anni più tardi, però, ministro Gioia, veniva
sancita la fine del monopolio statale per i trasporti dello Stretto. Passano
gli anni e arriva un altro ostacolo: c’è in programma la realizzazione dello
svincolo autostradale all’Annunziata e qualcuno propone di unificare gli
approdi pubblici e privati alla foce del torrente. Sarebbe una iattura per
Franza e Matacena, ma un provvidenziale incontro a Roma tra il sottosegretario
Dc ai Trasporti Sinesio e i messinesi Merlino, Campione, Perrone e Santalco
stabiliva che delle invasature già progettate e finanziate non si sarebbe fatto
più nulla.
Ottimi regali anche dall’altra
parte dello Stretto: una frettolosa variante del PRG di Villa S. Giovanni
convertiva una vasta area destinata a verde attrezzato in terminal per la
Caronte e la Tourist. Relatore della variante l’assessore Salvatore Delfino,
sindaco Antonio Aragona. Un’occhiata ai necrologi per notare che i due nomi non
mancano mai nel testimoniare il cordoglio ai “fraterni amici” dei Franza. Via
via che si varano le nuove unità dei privati, padrini e madrine Gullotti e
Merlino e rispettive consorti, aumentano anche i bisogni di spazio all’imbarco.
E così che un bel giorno l’ingegnere Giuseppe scrive al Sindaco Andò e gli
propone un affare: “Dateci l’area dell’ex gasometro. In una parte facciamo un
parcheggio e nell’altra realizziamo una scuola e un asilo immersi nel verde. Il
tutto a nostre spese”. Il verde non si è visto, nel frattempo, però, “in via
sperimentale e transitoria” il Comune dà nel 1983 l’autorizzazione al cosiddetto
“Serpentone”. Qualche spicciolo in cambio dell’eterno caos dei camion che
intasano il Boccetta e il Viale della Libertà.
Certo i progetti alternativi
non mancano. Quasi due miliardi sarebbero stati elargiti per un progetto di
approdo nella zona Sud all’equipe Carrozza-Cutrufelli. Si potrebbe vietare ai
tir di circolare in città nelle ore di punta o magari di notte, ma c’è pronto
l’assessore Ziino, merliniano, a stroncare le velleità degli ambientalisti. Il Serpentone
è sempre lì e la città muore. Intanto c’è chi afferma di aver visto l’erede dei
Franza, Vincenzo, dal dottor Providenti lo stesso giorno che il Sindaco aveva
dichiarato alla stampa di voler trasferire nella Zona Falcata l’imbarcadero
privato.
I GESUITI LA STANDA E IL
BALLO DEL MATTONE
C’era una volta nell’is.222
di Piazza Cairoli l’istituto Sant’Ignazio dei padri gesuiti. All’istituto era
annessa la piccola chiesa di S. Maria della Scala. Il meglio del primo
novecento secondo urbanisti e cultori d’arte. Costruzione di “nessun valore”
sentenziò invece Biagio Belfiore sulla Gazzetta
del Sud. I gesuiti avevano bisogno di soldi e decisero di alienare chiesa e
collegio. Offrirono il tutto per un miliardo e settecento milioni prima
all’Università e poi al Comune. Il consiglio d’amministrazione dell’ateneo
declinò l’invito dopo l’intervento contrario del Sindaco Merlino, membro di
diritto del Cda. A Palazzo Zanca erano invece in molti a volerne evitare
l’abbattimento e chiesero a Merlino di prodigarsi per acquisire il
Sant’Ignazio. “Mi dispiace, è troppo caro” rispose Merlino. “Meglio ampliare
l’is. 88 di proprietà dell’ente locale. C’è già il progetto pronto”. L’is.88,
tanto per capire, è quello degli affitti paragratuiti a imprese e privati. Fu
così allora che si fece avanti la Fra.Im, di Franza. Offrì mezzo miliardo in
meno e ottenne il collegio. I lavori partirono presto. L’impresa era la Siceas,
altra controllata dal gruppo. “Realizzerò un teatro ed altre strutture di
utilizzazione pubblica”, promise l’ingegnere. Intanto però firmava una
convenzione miliardaria con la Montedison che sceglieva l’area per trasferirvi
i magazzini Standa. Franza, come i tanti costruttori rampanti degli anni
settanta, aveva beneficiato di una delibera del Comune che aveva triplicato
l’indice di edificabilità di buona parte della città. Addio teatro allora, e
tra i ruderi del Sant’Ignazio sorsero i grandi magazzini.
Non tutto andò liscio però.
Nell’affare ci mise il naso l’allora pretore Romano che ravvisò una serie di
presunte irregolarità nella realizzazione dell’edificio. Romano stava
combattendo una battaglia contro chi aveva messo le mani sul Piano Borzì
“rivisitato” a favore dei signori del cemento. Era però un magistrato prestato
transitoriamente al penale, fu così che la pratica gli fu sottratta e assegnata
per “sorteggio” ad altro giudice. Il caso si chiuse favorevolmente per Franza,
come furono archiviate le denunce sul parcheggio sotterraneo alla Standa,
realizzato presumibilmente in violazione alle normative vigenti. Il costruttore
andò poi all’assalto del vecchio albergo Reale dove realizzava il Royal e un
palazzo in buona parte venduto al Ministero del Tesoro o affittato
all’Università degli Studi. L’Opera Universitaria preferiva i Franza anche per
i locali di via Lenzi dove “inventava” un’improbabile Casa della Studentessa.
Con fidi bancari che nel ’74 erano superiori ai 4 miliardi, le società edili
del gruppo non ebbero certo difficoltà ad aprire altri più redditizi cantieri.
Scattò l’ora della cementificazione selvaggia delle colline, l’ora del “Park
Palace”, delle ville di S. Agata e del “Residence dei laghi” a Ganzirri. Fu
l’ora di un altro grande affare targato Montedison, la vendita di un
supermarket a Pistunina alla Cassa pensionale del Ministero del Tesoro. Si
racconta che la Cassa affittò lo stabile alla So.S.Me di Franza che poi lo
rigirò alla società Sigros, proprietà fifty fifty della Montedison e della
Sivad del catanese Salvatore Conservo “caro amico” dell’ingegnere.
LA MISTERIOSA SI.CA. DI
GIAMMORO
“Ci siamo fatti da soli e
abbiamo evitato con cura gli appalti pubblici”, è la solfa ripetuta fino alla
noia dai protagonisti della Franza Dynasty. Nell’attesa di capire cosa è
pubblico e cosa è privato dalla famiglia tanto a cuore all’iperliberista
Antonio Martino, chiuderemo il racconto con i misteri di una società realizzata
quindici anni fa a Giammoro. Era la Si.Ca. - Siciliana Cavi, voluta per operare
nella produzione dei cavi elettrici telefonici. Con appena sessanta milioni
Franza ottenne dall’ASI del dottor Giuseppe D’Angelo un terreno di 40,500 mq a
Giammoro. Realizzato lo stabilimento e assicurata l’assunzione di una
settantina di addetti, la Si.Ca. ottenne nel ’78 un contributo di oltre un
miliardo e trecento milioni dalla Cassa per il Mezzogiorno. Il settore cavi è però
in crisi e l’impianto non parte. È così che quattro anni più tardi il
settimanale Il Soldo scopre che alla
Si.Ca. sono appena tre gli addetti in busta paga. Non importa. Dio vuole che a
Messina scoppi la bomba IMSA, centinaia
di operai di una società che la Rodriguez ha deciso di chiudere. Si offre l’EFIM
a rilevare l’industria ma c’è bisogno di un area. L’ASI non riesce a soddisfare
la richiesta. È così che qualcuno suggerisce all’EFIM l’impianto della Si.Ca.
Il tempo è poco, c’è il
rischio che si superi il limite della cassa integrazione: il sindacato e
l’allora ministro del Mezzogiorno Nicola Capria danno lo “sta bene” al
trasferimento all’ente di Stato dello stabilimento di Franza, riassorbendo così
le maestranze dell’ex IMSA. Prezzo pattuito due miliardi e settecentocinquanta
milioni più una postilla in calce al contratto: “rimane inteso che sarà data
precedenza alla spettante SISM spa per l’affidamento dei lavori necessari all’ampliamento e all’adattamento dello
stabilimento”. Inutile dire che amministratore unico della spett. SISM spa era
l’onnipresente ingegnere Giuseppe Franza.
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