L’omicidio del prof. Bottari. La pista alternativa
Quindici anni fa assassinarono Matteo Bottari, noto gastroenterologo
e docente del Policlinico universitario di Messina. Un omicidio eccellente, il
secondo terremoto nello Stretto, quello mafioso. Le indagini non hanno ancora rivelato
il movente né il volto degli esecutori e dei mandanti. Ma il Comandante dei
Vigili Urbani, Calogero Ferlisi, al tempo alla Capitaneria di porto di Messina,
esprime un timore: “Quel giorno, forse, potevo essere io l’obiettivo dei killer”.
Il prossimo 15 gennaio
saranno trascorsi già quindici anni da quella maledetta sera in cui fu
assassinato a Messina il professore Matteo Bottari, stimato gastroenterologo
del policlinico universitario. Tre lustri, un tempo immenso. Un delitto
efferato che stordì una città permeata di silenzi, omertà, luoghi comuni. A
partire da quello di essere esente da qualsivoglia condizionamento della
criminalità organizzata. I silenzi, le omertà e i luoghi comuni persistono come
allora. E al povero professore Bottari continua ad essere negata memoria e
giustizia. Perché Messina ha metabolizzato il sangue e ha scelto di continuare
a vivere sotto il dominio della borghesia mafiosa. E perché gli inquirenti è
come se avessero gettato la spugna, sconfitti, dopo aver brancolato quindici
anni nel buio senza riuscire ad individuare i moventi, i mandanti, neanche
l’ombra dei prezzolati angeli della morte del professionista.
Poco dopo le 21 del 15
gennaio 1998, il professore Bottari si era messo alla guida della propria auto,
un’Audi 100 di colore nero a trazione integrale. Giunto all’incrocio tra il viale
Regina Elena e il torrente Annunziata, nella zona residenziale a nord della
città, l’auto rallentò, forse per il rosso del semaforo, forse per lo squillo
del cellulare. Bottari era tallonato da un pezzo ma non si accorse di nulla. Superato
il semaforo, la sua Audi venne raggiunta e affiancata da una moto. Scattò
l’agguato. Uno dei killer imbracciava una lupara caricata a pallettoni calibro
45, quelli usati per la caccia al cinghiale. Erano rivestiti di rame. Rinforzati,
indeformabili, per non dare scampo alla vittima. Poggiata l’arma sul finestrino
della fiancata destra, fu fatto esplodere il caricatore. I proiettili devastarono
la testa del professionista, che si accasciò agonizzante sul volante. L’auto,
invece, finì contro un marciapiede del lungo stradone della Panoramica.
Titolare della cattedra di
diagnostica e chirurgia endoscopica dell’Università e docente di numerose
scuole di specializzazione della facoltà di Medicina, Matteo Bottari svolgeva l’attività
chirurgica anche presso cliniche private della città di Messina e della
Calabria. La sua non era però una vita confinata tra le aule universitarie e le
sale operatorie. Genero dell’ex rettore dell’Ateneo Guglielmo Stagno d’Alcontres,
antiche radici nobiliari nella penisola iberica, Bottari frequentava i circoli
esclusivi della borghesia peloritana. Vantava pure un’affiliazione dal 1990
alla prestigiosa loggia “Giordano Bruno” del Grande Oriente d’Italia, quella
frequentata dai docenti di punta dell’ateneo, compreso il futuro rettore Diego
Cuzzocrea. Ed era membro del Rotary Club di Taormina insieme all’imprenditore
Dino Cuzzocrea, il fratello di Diego, anch’egli massone e contitolare della
clinica privata “Cappellani” presso cui il Bottari stesso operava da quattro
mesi, due pomeriggi la settimana. Da quella clinica il gastroenterologo si era allontanato
per raggiungere la propria abitazione la sera che venne assassinato.
Per trovare una spiegazione
o un indizio, la polizia indagò a 360 gradi sulla vita e le relazioni umane e
professionali della vittima. Scartata la pista dell’omicidio d’onore che avrebbe
potuto fare le fortune dei rotocalchi rosa, si puntò il dito sugli inevitabili
contrasti nel mondo accademico e sulle gelosie di qualche collega in
competizione per una cattedra. Era scoppiata da poco l’inchiesta sulle
megaforniture di farmaci e apparecchiature in campo sanitario, amici e colleghi
del Bottari c’erano implicati fino al collo, ma anche questa pista si arenò per
l’assenza di plausibili riscontri. Poi ci s’indirizzò inutilmente sugli appalti
miliardari per la ristrutturazione e l’ampliamento del policlinico che avevano
fomentato gli appetiti di avvoltoi e sciacalli. S’ipotizzò persino che il
gastroenterologo fosse stato vittima di una vendetta trasversale, magari per
uno sgarbo commesso dal potente congiunto. O che si fosse trattato di un
tragico e imperdonabile “errore di persona”: lo suggeriva qualche cronista
locale e l’allora direttore amministrativo del policlinico Salvatore Leonardi,
ex presidente della provincia ed ex sindaco di Messina. “Un delitto di mafia,
ma anche di soldi, tanti soldi e di affari”, spiegò l’allora superprocuratore
antimafia Pierluigi Vigna, consentendo così che si accendessero finalmente i
riflettori dei media nazionali sulla città
babba, quella che in tanti credevano essere l’isola felice risparmiata
dall’occupazione mafiosa. Dopo una lunga indagine della Commissione
parlamentare antimafia, il suo vicepresidente, l’on. Nichi Vendola, l’etichettò
invece come la “città verminaio”.
Oggi a quel delitto la
stramaggioranza dei messinesi non ci pensa più e l’impunità non turba i sogni
di amministratori e pubblici funzionari. Tutti, tranne il comandante del Corpo
di polizia municipale, Calogero Ferlisi, che alla sera del 15 gennaio di
quindici anni fa ci pensa spesso e con inquietudine. “Forse ero io, quel giorno,
la vittima designata dalla criminalità mafiosa”, afferma Ferlisi. Pure lui teme
che Matteo Bottari sia scomparso per un errore di persona. La sua persona.
Nell’ottobre 2010, Calogero
Ferlisi ha deciso di presentare un esposto al procuratore della Repubblica e al
prefetto di Messina per esporre i propri dubbi e timori, quelle oggettive
“coincidenze” che lo legherebbero all’efferato delitto in cui Messina perse la
sua equivoca innocenza. C’era innanzitutto la sua sorprendente somiglianza
fisica con il professore Bottari e il possesso, al tempo, di un’autovettura
Audi 100 di colore scuro, lo stesso modello cioè di quella in cui viaggiava il
professionista quando fu raggiunto dai killer. E nel gennaio 1998 erano appena cinque
le Audi 100 circolanti in tutta la città.
Il comandante del corpo di
polizia municipale ha raccontato agli inquirenti che in quei mesi era solito percorrere
quotidianamente il tragitto compreso tra la propria abitazione e quella della
madre ubicata sulla Panoramica. Qualche tempo prima del delitto, inoltre, la
sua autovettura era stata danneggiata ad opera di ignoti dopo essere stata
parcheggiata sotto casa. “Il possibile scambio di persona da parte degli
assassini potrebbe essere stato facilitato dal fatto che il luogo del delitto
era poco illuminato e la visibilità era ulteriormente ridotta a causa di un
acquazzone”, ha ricordato Ferlisi. “La vittima stava inoltre utilizzando un
cellulare che potrebbe avergli coperto parzialmente il volto”.
Per il pubblico ufficiale,
la criminalità organizzata aveva più di un buon motivo per decidere di
liberarsi di lui con la violenza. Nel gennaio 1998, Ferlisi aveva 39 anni (10
in meno di Bottari), era capitano di corvetta della Marina militare e prestava
servizio presso l’Ufficio demanio della Capitaneria di porto di Messina con
l’incarico di responsabile della sezione demanio-contenzioso. Il reparto di
Ferlisi si caratterizzò allora per l’instancabile e rilevantissima attività
repressiva, concretizzatasi in particolare con la demolizione e il sequestro di
casupole, piscine, esercizi commerciali, ristoranti, alberghi, ecc., insistenti
sul demanio marittimo.
Nella sua relazione sull’attività
di polizia giudiziaria svolta dall’1 luglio 1998 al 30 giugno 1999, la
Capitaneria di porto di Messina segnalava di aver comunicato 192 notizie di
reato per “violazione di norme in materia di demanio marittimo, polizia dei
porti, sicurezza della navigazione, pesca e inquinamento marino”. Erano stati sottoscritti
704 verbali di accertamento per violazioni amministrative e ordinato il
sequestro di 129 aree con relativi manufatti abusivi, 11 automezzi impiegati
per discariche abusive, 56 reti ed attrezzature di pesca e un’imbarcazione da
diporto. Nonostante l’esito favorevole delle operazioni, la Capitaneria
lamentava tuttavia “la non tempestiva collaborazione” degli organi tecnici
preposti all’elaborazione della documentazione tecnica necessaria per l’appalto
dei lavori di demolizione ordinati.
Il reparto diretto da
Calogero Ferlisi, nello specifico, si era messo in luce per l’azione di monitoraggio
degli scarichi abusivi, per la mappatura di alcune chiusure abusive
sull’accesso al mare e per le indagini sulle occupazioni abusive nelle spiagge della
zona di Mortelle-Tono, tra le più belle dal punto di vista paesaggistico. Per
occupazione abusiva di suolo demaniale era stata denunciata perfino l’Enel ed
erano state aperte indagini sull’utilizzo dei padiglioni della Fiera di Messina
per le feste private di facoltosi cittadini e sulle violazioni alle norme sulla
sicurezza della navigazione nello Stretto, corridoio marittimo superaffollato e
ad alto rischio di collisione. Erano stati avviati controlli a tappeto sulle
attività degli stabilimenti balneari e sulla localizzazione dell’inceneritore
di san Ranieri (oggi dismesso) all’interno delle strutture superstiti della
cittadella-fortezza del seicento, nella centralissima zona falcata di Messina. A
riprova della serietà dell’impegno nel contrasto alle illegalità, la
Capitaneria di porto aveva pure istituito una sezione “ambiente” con compiti di
tutela e valorizzazione della fascia costiera e aveva firmato un protocollo
d’intesa con l’associazione Legambiente
per una collaborazione nel controllo ambientale.
I provvedimenti emessi della
Capitaneria generarono un introito record, per gli indennizzi, di circa 5
miliardi di vecchie lire, prelevati in parte dalle tasche della Messina bene,
professionisti, imprenditori e persino elementi di spicco della criminalità
mafiosa. Tra i manufatti attenzionati ci fu pure, in
contrada Marmora-Rodia, la megavilla di 2.085 metri quadri con tanto di parco, piscina
olimpionica e campi da tennis di proprietà di Michelangelo Alfano, ritenuto sino
al suo misterioso “suicidio”, nel 2005, come l’“anello di congiunzione tra Cosa
Nostra e la mafia messinese”. Nell’immobile si sarebbe nascosto per qualche
tempo il superboss Totò Riina e dopo la recente confisca è entrato a far parte
del patrimonio comunale. Fu lo stesso Calogero Ferlisi a guidare, nel 1998,
i militari che effettuarono il sopralluogo alla villa che ricadeva
in parte sul demanio marittimo. “Ci fece entrare il buttafuori dalla spiaggia e
ci accolsero quasi gentilmente”, ricorda il comandante dei vigili. “Alfano era
con alcuni suoi familiari e amici nella sauna. Ci ricevette lì, nella sauna
stessa, ma noi eravamo in divisa. Andammo via madidi di sudore ma sequestrammo
la parte della villa abusiva”.
Durante la campagna
anti-abusivismo, Calogero Ferlisi ricorda pure di aver monitorato gli immobili di
proprietà del presidente di sezione del Tribunale
civile di Messina, Giuseppe Savoca, del costruttore Salvatore Siracusano e dell’ex
sottosegretario al Tesoro, on. Santino Pagano. I tre vennero successivamente
indagati (e prosciolti) nell’ambito dell’inchiesta Gioco d’azzardo su una presunta associazione mafiosa
internazionale dedita al traffico di armi e riciclaggio di denaro sporco. “Trovandomi
a leggere sulla stampa alcuni passi dell’ordinanza di custodia cautelare emessa
dai magistrati - racconta Ferlisi - mi sono imbattuto su un’intercettazione
ambientale, avvenuta in un bar del centro di Messina nell’estate del 2001, in
cui il dottore Savoca e il costruttore Siracusano si soffermavano sull’omicidio
Bottari. Per gli interlocutori si sarebbe potuto trattare di un errore
nell’individuazione della vittima. Proprio ciò che penso e temo di più”.
Ma, dopo che gli ha sparato gli ha detto: ma
non credete che avete sbagliato vittima,
direbbe il Siracusano nell’intercettazione. Loro
erano andati ad ammazzarlo a domicilio - onestamente visto che non c’era
nessuna possibilità di scelta, loro non sono andati, la replica di Savoca. Ci sono i figli di Bottari. Gli feriscono un
figlio. Si sono accorti di una macchina della Polizia. Poi le voci si accavallano.
No, se ne è accorto lui, spiega un “altro
soggetto non individuabile”, come scrivono gli inquirenti. Poi è ancora
Siracusano: Lui gli ha detto c’è ne
andiamo sul sicuro. Allora hanno deciso che gli conveniva di farlo quando stava
fuori, in mezzo alla strada. Ora è Lui che comanda. Per la cronaca, il
magistrato e il costruttore hanno contestato la veridicità delle trascrizioni,
accusando gli uomini della Direzione investigativa antimafia di
averne manipolato il contenuto. Dopo una serie di perizie e
controperizie, nel luglio 2011 il Giudice per le indagini preliminari di Lecco aveva
messo un punto alla querelle emettendo la sentenza di
proscioglimento nei confronti degli investigatori, ma la Cassazione l’ha
annullata rinviando il fascicolo al Gip.
A rendere ancora più
complessa la vicenda è quanto avvenuto un anno e mezzo dopo il delitto Bottari.
Il 30 settembre 1999, Calogero Ferlisi fu improvvisamente trasferito da parte
del comando generale delle Capitanerie di porto alla Capitaneria di Crotone.
Dopo essersi inutilmente opposto all’anomalo provvedimento, il successivo 2
ottobre Ferlisi decise di rassegnare le proprie dimissioni dal corpo militare. Lo
scalpore fu enorme e ci furono attestati di solidarietà da parte di
associazioni e forze politiche peloritane. Il 7 ottobre 1999 fu presentata un’interrogazione
da parte del sen. Giovanni Russo Spena (Prc). “Lo spostamento senza preavviso
(di norma trascorrono quattro mesi) desta sconcerto per i tempi e i modi con i
quali si è mosso il comando generale delle capitanerie di porto”, scrisse il parlamentare.
“Si coglie il capo sezione nel pieno di un attacco senza precedenti contro
l’illegalità che da decenni ha invaso e deturpato il patrimonio demaniale del
Messinese. Chiediamo pertanto di sapere quali reali motivi abbiano spinto ad
agire il Ministero della difesa, su cui gravano legittimi sospetti di aver
voluto bloccare l’opera moralizzatrice, altamente meritoria, del Ferlisi”.
L’11 ottobre del 2001 fu il
deputato leghista Dario Galli a presentare un’interrogazione al ministro delle
infrastrutture e dei trasporti. La risposta, scritta, arrivò il 4 marzo
successivo con la firma del sottosegretario Nino Sospiri. “Le motivazioni che
hanno indotto il comando generale delle capitanerie di porto ad adottare il
provvedimento di trasferimento sono state dettate dalla necessità di tutelare
l’ufficiale, atteso che la presenza dello stesso nella sede di Messina, per sua
stessa ammissione, aveva fatto emergere ipotesi di incompatibilità ambientale”.
Tutelare. Da cosa e da chi? Questo il
governo non lo ha spiegato, come non ha spiegato le ragioni di una supposta
incompatibilità ambientale del Ferlisi. Che però a Messina c’è rimasto sino ad
oggi in qualità di comandante del Corpo di polizia municipale.
“Ci siamo incrociati con il Ferlisi in occasione
della campagna di Legambiente
Messina contro le chiusure abusive degli accessi
in spiaggia nella zona di Torre Faro-Mortelle”,
ricorda Daniele Ialacqua, animatore della Rete No Ponte ed ex presidente del
circolo ambientalista. “La Capitaneria era già intervenuta in passato, nel
quadro di una serie d’interventi contro l’abusivismo costiero, ma grazie a Ferlisi l’azione questa volta fu più incisiva, arrivando a
mettere in discussione anche la legittimità di una serie di ville di vip. La
notizia del suo inopportuno e sospetto
trasferimento d’ufficio in Calabria, in piena ed
efficace azione repressiva delle varie illegalità perpetrate a danno del
demanio marittimo, ci spinse ad una dura presa di posizione nei confronti dei
vertici marittimi e a dar vita ad una campagna di solidarietà con sit-in,
comunicati stampa e l’invio di lettere di protesta al Ministero.
A tal riguardo ricordo che inaspettatamente quest’ultimo ci rispose respingendo
le nostre accuse e adducendo motivazioni al trasferimento che sorpresero lo
stesso Ferlisi quando lo mettemmo al corrente della risposta”.
Le vere ragioni di
quell’allontanamento restano ancora ignote. E altrettanto ignote e
inspiegabili, restano le ragioni che hanno spinto Cosa nostra ad uccidere,
selvaggiamente, uno dei più quotati docenti dell’ateneo peloritano.
L’inchiesta è stata pubblicata con Enrico Di
Giacomo in I Sicilia giovani, n. 9,
ottobre 2012.
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