Il principe nero del Duemila
Mafia, eversione nera, contatti coi servizi deviati; cannoni fra Svizzera e Arabia, Santapaola, armi per gli attentati... Di tutto questo si parla quando si parla di Rosario Cattafi, il “boss dei boss” con capitale Barcellona
“Una figura inquietante, quanto mai sfuggente ed enigmatica, dotata di
sorprendenti attitudini relazionali e di non comuni abilità. Un soggetto che,
anche a cagione della sua qualità professionale di avvocato ed uomo d’affari,
nonché dell’ampia e di certo ambigua rete relazionale sviluppata, si è
attivato, con manifesta sistematicità, a tutela delle istanze criminali del
sodalizio di appartenenza (la “famiglia” barcellonese) e delle congreghe mafiose
alleate…”.
I magistrati della Direzione
distrettuale antimafia hanno le idee chiare sullo spessore dell’uomo-guida
della più potente delle organizzazioni criminali della provincia di Messina. Rosario
Pio Cattafi, l’avvocato imprenditore proprietario terriero investitore
finanziario e astuto riciclatore della mafia di Barcellona Pozzo di Pozzo, la
più nera e stragista, in costante
contatto con i vertici di Cosa nostra catanese e palermitana.
L’operazione-blitz delle
forze dell’ordine “Gotha 3” e per Cattafi si sono (ri)aperti i cancelli del
carcere, frantumando sapienti accordi politico-istituzionali e lucrosissimi
affari, discariche di inerti e rifiuti a Mazzarrà Sant’Andrea, prestigiosi
hotel a cinque stelle a Portorosa di Furnari, un megaparco commerciale nella
città del Longano, chissà quale altro ecomostro ancora a Milazzo. Sembrava
intoccabile. Invincibile. Innominabile. Oggi appare come un patriarca
sconfitto, piegato, smascherato, tradito. Il re-boss, forse, è nudo. E
Barcellona torna a respirare. Finalmente.
Numerosi i collaboratori di
giustizia e i testimoni che hanno delineato le caratteristiche e le funzioni di quello che è stato per anni dominus
incontrastato della mafia messinese. “Cattafi è il cassiere della “famiglia”
barcellonese”, ha raccontato l’ex affiliato al clan catanese Alfio Giuseppe
Castro. “Era la persona di assoluta fiducia che aveva il compito di
ricevere tutti i proventi delle attività illecite. Mi si fece capire come
quella persona che si presentava così distinta ed apparentemente al di fuori di
ogni sospetto in realtà gestiva l’intera organizzazione…”.
“Nino Santapaola, fratello
di Benedetto, mi disse che Saro Cattafi si era interessato con la sua famiglia
a delle operazioni di smaltimento di rifiuti tossici che dovevano essere
interrati”, ha rivelato Eugenio Sturiale, altro collaboratore etneo. “Mi disse
esplicitamente che il barcellonese era per l’organizzazione un veicolo per
riciclare denaro sporco. I Santapaola guadagnavano una montagna di soldi
provento delle loro attività illecite. Consideravano Cattafi non organico alla
loro famiglia dal momento che non vi era stata una formale affiliazione, ma in
ogni caso per loro era un soggetto su cui potevano contare al 100%, altrimenti
non gli avrebbero mai affidato i loro soldi. Nino Santapaola mi disse anche che
Saro Cattafi era in ottimi rapporti con la famiglia Madonia di Caltanissetta e
che stava bene con i palermitani ed in particolare con i Corleonesi, quindi con
Vitale e Bagarella”.
Per Carmelo Bisognano, già
ai vertici della “famiglia” criminale dei cosiddetti mazzarroti, Cattafi è il “numero
uno” dell’organizzazione barcellonese
ed è “il contatto diretto con le
istituzioni deviate, la politica, la pubblica amministrazione, la magistratura
e le forze dell’ordine”. Un cassiere-riciclatore in grado di agganciare le
istituzioni e i potentati politici, giudiziari ed imprenditoriali, la borghesia
mafiosa siciliana e quella con salde radici nel nord Italia. Una specie di
jolly, lo ha definito Eugenio Sturiale, forte dei “suoi rapporti con i
servizi segreti” e gli apparati deviati dello Stato e appunto per questo stimato
e riverito dai fratelli Santapaola e dal loro fedele alleato a Catania, Aldo
Ercolano.
A riferire delle contiguità
del boss barcellonese con i Servizi, ci aveva già pensato molti anni prima il
collaboratore Maurizio Avola, già spietato killer delle “famiglie” etnee. In un’intervista rilasciata al settimanale Sette del Corriere della Sera nel maggio 1998, Avola si era soffermato
sugli incontri al vertice che Cosa nostra teneva settimanalmente in un
autogrill dell’autostrada Catania-Palermo alla vigilia delle stragi di Capaci e
via d’Amelio. “C’erano i rappresentanti delle varie province”, ha raccontato.
“E c’era Cattafi che era uno molto
potente, per noi era più importante degli altri uomini d’onore perché eravamo
convinti che fosse legato ai servizi segreti e anche alla massoneria. Rappresentava
l’anello di congiunzione tra la mafia e il potere occulto”.
Due mesi più tardi, Avola
ritornò sull’argomento nel corso di un interrogatorio con la sostituta
procuratrice di Barcellona, Silvia Bonardi, e il commissario Paolo Sirna. “So,
per quello che mi ha detto Calogero Campanella, che Cattafi apparteneva ai
servizi segreti, che scambiava favori con personaggi dei servizi”, ha
dichiarato Avola. “Ci faceva dei favori, degli omicidi e loro ci facevano
passare della droga, coprivano i reati diciamo. I favori li faceva ai servizi
segreti. E loro in compenso, se lui passava delle armi o grossi quantitativi di
droga, non lo arrestavano. Davano il passaggio libero”.
Bisogna fare ancora qualche
passo indietro nel tempo per comprendere come, quando e perché il rampollo di
una delle più onorate famiglie della borghesia barcellonese decise di varcare
il limes tra il lecito e l’illecito,
il legale e l’illegale, il Bene e il Male. La zona d’ombra risale ai primi anni
’70, quando Cattafi si muoveva con disinvoltura all’interno del variegato
arcipelago neofascista e neonazista che mise sotto scacco la vita dell’Ateneo
di Messina tessendo diaboliche alleanze con gli affiliati alle ‘ndrine
calabresi, le prime “famiglie” del messinese, i circoli esoterici più
reazionari e i doppi e tripli agenti segreti delle cellule militari e
paramilitari filo-atlantiche. Rosario Cattafi, al tempo studente di giurisprudenza
e militante
della destra eversiva, fu protagonista di azioni squadriste, pestaggi di
giovani di sinistra, risse aggravate e danneggiamenti.
La prima denuncia nei suoi confronti risale al 7
dicembre 1971: insieme ad alcuni camerati barcellonesi appartenenti ad Ordine
nuovo, ai calabresi Pasquale Cristiano (vicesindaco di Ferruzzano e presidente
del Fuan di Messina, l’organizzazione universitaria del Msi-Dn) e Francesco
Prota (vicino agli ambienti di Avanguardia Nazionale e del Fronte nazionale di
Junio Valerio Borghese), al mistrettese Pietro Rampulla (oggi all’ergastolo
quale artificiere della strage di Capaci), Cattafi fu accusato dell’aggressione
di cinque studenti innanzi alla Facoltà di lettere. Otto mesi di reclusione
(pena sospesa) la condanna emessa dal Tribunale di Messina per aver cagionato “lesioni
personali e volontarie lievi e continuate”. Il 21 febbraio 1972, Rosario
Cattafi venne denunziato per un altra grave aggressione ai danni di un giovane
universitario. Un anno più tardi, nel corso di una perquisizione notturna della
polizia alla Casa dello studente, il barcellonese fu identificato insieme a Basilio
Pateras, militante delle organizzazioni neofasciste greche Esesi e Quattro Agosto, occupante
abusivo degli alloggi universitari. Il 22 marzo 1973, Cattafi, Pateras, Pietro
Rampulla e un’altra trentina di militanti neri invasero con la forza i locali
del Magistero.
Tollerate e protette dalle
forze dell’ordine e dai vertici accademici, le organizzazioni neofasciste decisero
di radicalizzare i mezzi e le forme di lotta. Dalle spranghe e le catene si
passò alle armi e agli attentati incendiari. Il 27 aprile 1973, Rosario Cattafi
venne coinvolto in una misteriosa sparatoria all’interno della Casa dello studente.
Secondo quanto ricostruito dagli inquirenti, egli si era recato in compagnia del
calabrese Prota nell’alloggio occupato da Pasquale Cristiano per provare un
mitra “Stern” contro alcune suppellettili. Consequenziale una seconda condanna,
un anno e otto mesi di reclusione per detenzione e porto d’arma illegali. Il successivo
3 maggio, durante una perquisizione dell’abitazione di Cattafi fu rinvenuta una
pistola calibro 7,65 di fabbricazione spagnola. Arrestato e processato per
direttissima, ricevette una mitissima ammenda di 200 mila lire.
Le due ultime sentenze di
condanna furono appellate dall’allora procuratore generale della Repubblica,
Aldo Cavallari, che denunciò pubblicamente lo “stato di extraterritorialità” in
cui era caduto l’ateneo di Messina. “C’è una mafia universitaria irriducibile, selvaggia,
ladra, prevaricatrice, che impone la sua volontà e la legge della violenza, che
vive e prospera per l’omertà generale dell’atterrita classe studentesca, dei
dirigenti, degli impiegati amministrativi e anche dei rappresentanti del corpo
accademico”, scrisse il dottor Cavallari. “Le forze che potrebbero porre un
valido argine al dilagare di questo potere mafioso nella Casa dello studente
sarebbero la magistratura e la polizia, ma l’una e l’altra non avvertirono, nei
confronti della classe studentesca, quell’esigenza di repressione e prevenzione
che pure si avverte nei confronti dei delinquenti appartenenti ad altra classe
sociale”. Solo dopo la requisitoria del magistrato, il 27 febbraio 1976, il Senato
accademico decise di sospendere gli studenti coinvolti in episodi di squadrismo,
primo fra tutti il Cattafi che dovrà attendere più di vent’anni per completare
gli studi di giurisprudenza e divenire avvocato.
Lasciate l’università e
Barcellona Pozzo di Gotto, Rosario Cattafi raggiunse prima Milano e poi la
Svizzera, dimostrando un’invidiabile conoscenza delle leggi e dei mercati
finanziari. Ma anche una innata capacità di districarsi tra le differenti
fazioni criminali, tra i vincitori e i vinti, gli astri nascenti e le stelle
cadenti del firmamento di Cosa nostra. Gli inquirenti sospettano che sin dalla
seconda metà degli anni ’70, il barcellonese potrebbe essere stato uno
dei capi di una presunta associazione riconducibile
a Benedetto Santapaola, operante nel capoluogo lombardo e in altre città del
territorio nazionale ed estero, “finalizzata alla commissione di estorsioni,
omicidi, corruzioni, detenzioni di armi da guerra”. Un’organizzazione
che avrebbe pure trafficato in stupefacenti e gestito case da gioco illegali,
autrice finanche del sequestro, nel gennaio 1975, dell’imprenditore Giuseppe
Agrati, rilasciato dopo il pagamento di un riscatto di due miliardi e mezzo di
vecchie lire. Nel maggio 1984, Cattafi e gli altri presunti appartenenti alla
cellula in odor di mafia furono raggiunti da un mandato di cattura firmato dal
pm Francesco Di Maggio, anch’egli originario di Barcellona PG e figlio dell’ex
maresciallo della locale stazione dei Carabinieri.
Cattafi,
al tempo, risiedeva in Svizzera e ciò gli consentì di sfuggire all’ordine di
arresto del Tribunale di Milano. Qualche giorno dopo però fu la Procura di Bellinzona
ad emettere un’ordinanza cautelare nei suoi confronti per reati in materia di
stupefacenti. Ma durante l’inchiesta spuntò pure un documento attestante una
mediazione operata dal Cattafi per la cessione di una partita di cannoni prodotti
dalla “Oerlikon Suisse” all’emirato di Abu Dhabi. La prima grande operazione
d’export di armi da guerra del barcellonese.
Il
successivo 30 maggio, Cattafi fu raggiunto in carcere nel Cantone Ticino dal
giudice Di Maggio. Impossibile sapere, ancora oggi, quali furono le domande e
cosa rispose l’indagato. Il verbale dell’interrogatorio fu trattenuto dalle
autorità elvetiche. Da una relazione di servizio a firma di tale “Oliver” della
Sezione Speciale Anticrimine di Torino, si evince tuttavia che Cattafi ammise
di essere l’intestatario di un conto corrente sospetto aperto tra il ‘77 e il
‘78 presso il Credito Svizzero di Bellinzona, denominato Valentino. Lo
stesso conto di cui aveva parlato ai giudici uno stretto conoscente del
barcellonese, Giovanni De Giorgi, operatore finanziario milanese dedito ai trasferimenti
di valuta da e per l’estero.
“Lavoravo
per conto del signor Shammah e il mio compito era di tenere la contabilità e di
prendere il danaro dai clienti importanti tra i quali c’erano il costruttore
romano Caltagirone e Boatti Petroli”, spiegò De Giorgi. “Io stesso e in
più occasioni, ho prelevato danaro proveniente dalla Svizzera per conto del
Cattafi, che non voleva comparire”. Per effettuare questi prelievi, il
barcellonese telefonava ad un funzionario di banca che prima prelevava le somme
dal conto e poi faceva un bonifico all’operatore milanese. Dopo essere entrato
in possesso del denaro contante, De Giorgi lo consegnava direttamente al
Cattafi. Una parte di esso serviva al periodico mantenimento dei latitanti dei
clan catanesi.
“Cattafi
si recava spesso nei casinò di Saint Vincent e Campione d’Italia e in vacanza
in Costa Azzurra; ben presto mi resi conto di come costui fosse un giovane
appartenente ad organizzazioni di tipo mafioso e che disponeva di amicizie e
denaro della mafia”, ha aggiunto De Giorgi. “Cattafi riferiva tranquillamente,
anzi si vantava, della sua appartenenza al clan mafioso facente capo all’allora
latitante Nitto Santapaola, per il quale svolgeva mansioni di consulente e
operatore finanziario. In pratica si occupava del reinvestimento in attività
pulite del denaro proveniente dai crimini commessi dal Santapaola e dai suoi
affiliati, nonché svolgeva il ruolo di garante in casi in cui l’organizzazione
doveva trattare affari con altre organizzazioni o con qualche soggetto
esterno”. Sempre secondo l’operatore, “Santapaola lo onorava
della sua presenza in Milano, in più occasioni anche da latitante. Si fidava a
tal punto tanto da farsi accompagnare da lui quando doveva fare shopping.
Cattafi mi riferiva della cosa come onore riservato a pochi membri
dell’organizzazione”.
Le
autorità elvetiche concessero l’estradizione in Italia di Rosario Cattafi solo il
18 settembre 1884 e con esclusivo riferimento al reato di concorso nel
sequestro Agrati. Il 30 aprile 1986, il giudice Di Maggio avanzò però richiesta
di sentenza di proscioglimento. Quattro mesi più tardi il giudice istruttore
del Tribunale di Milano, Paolo Arbasino, dichiarò non doversi procedere contro
l’indagato per “insufficienza di prove”.
Francesco Di Maggio e Rosario
Cattafi s’incrociarono ancora durante le indagini sull’efferato omicidio del procuratore
capo di Torino, Bruno Caccia, avvenuto il 26 giugno 1983. Lo ha raccontato al Corriere della sera (8 giugno 1995),
l’allora sostituto procuratore di Barcellona Olindo Canali, condannato in primo
grado a due anni per falsa testimonianza commessa nel corso del processo Mare Nostrum. “Fu Di Maggio ad arrestare
Cattafi nell’85 per l’inchiesta sull’omicidio Caccia a Torino. Fu il giudice
istruttore ad assolverlo, ma rimase dentro per un anno”. In verità,
Cattafi non venne arrestato a
seguito dell’assassinio del magistrato, però
fu interrogato in carcere dai
pubblici ministeri milanesi titolari dell’inchiesta.
È
ancora Giovanni De Giorgi a offrire elementi inediti sull’ambiguo ruolo assunto
da Rosario Cattafi nell’indagine sui mandanti e gli esecutori dell’attentato
mortale al procuratore di Torino. “Ad un certo punto riferii al Cattafi che
Enrico Mezzani, persona che frequentavamo a Milano, era un agente dei servizi e
che da lui in cambio di notizie avremmo potuto ottenere vantaggi”, ha spiegato
l’operatore finanziario. “Inizialmente il Cattafi provò a cavalcare la cosa,
più che altro dando notizie inerenti organizzazioni mafiose avversarie della
sua; è in questo contesto che indicò come autori dell’omicidio del giudice
Caccia i Ferlito”. Informazioni sugli acerrimi nemici di Santapaola dunque, in
cambio di vantaggi e favori, primo fra tutti l’impegno (poi disatteso) del
Mezzani, sedicente agente del Sisde, alla concessione del porto d’armi al
barcellonese. E in piena guerra tra spioni e controspioni, il 17 aprile 1984
Enrico Mezzani rivelò al giudice Di Maggio di aver appreso da Cattafi che il
medesimo nell’estate del 1983 aveva partecipato ad una riunione, “presenti tra
gli altri Nitto Santapaola ed un parlamentare democristiano”, in cui si era
parlato di una fornitura di armi destinate all’esecuzione di un attentato ai
danni dell’allora giudice istruttore Giovanni Falcone.
Secondo
De Giorgi, Cattafi avrebbe informato Mezzani pure su Angelo Epaminonda, il personaggio
di punta della malavita milanese negli anni ’80. Grosso trafficante di stupefacenti,
Epaminonda si era inserito con successo nel controllo delle case da gioco del
nord Italia, alleandosi con le famiglie mafiose siciliane e con i clan aventi
la loro sede operativa nell’autoparco di Milano. Epaminonda fu il primo a descrivere
l’escalation criminale in Lombardia del giovane Cattafi. Interrogato nel dicembre
1984 da Francesco Di Maggio, Epaminonda raccontò che qualche tempo prima si
erano presentati al suo cospetto il catanese Salvatore Cuscunà inteso Turi
Buatta e Rosario “Saro” Cattafi, per proporgli di cogestire un’attività di
cambio assegni presso il casinò di Saint Vincent. “Dopo i primi convenevoli,
nel corso dei quali Saro mi spiegò di essere legato strettamente a Nitto
Santapaola, mi feci indicare i termini del progetto. Saro disse che agiva in società
con altra persona ben introdotta nei casinò. Trattai gli interlocutori con
sufficienza per far intendere che la proposta non era di mio interesse, almeno
nei termini della società tra noi. Rammento ancora che Saro mi disse di essere
in buoni rapporti con la Guardia di finanza, che era stata messa una taglia per
la mia cattura e che avrebbe potuto interferire per avere notizie su come la
Finanza si muoveva. Risposi che la cosa non mi interessava, che la Finanza
avrebbe potuto fare il suo lavoro tranquillamente, anche perché io avevo da
vedermela con altre forze di Polizia. Io temevo che gli emissari del gruppo
Santapaola, e tra questi Saro, tendessero a stringere rapporti con me, per poi
farmi catturare”.
A
Milano, Cattafi poté pure contare sulla fiducia dei rappresentanti delle
‘ndrine (per il collaboratore Franco Brunero il barcellonese era legato ai
calabresi facenti capo ai Ruga, “collegati a loro volta a Santapaola tramite
tale Paolo Aquilino”) e, contestualmente, degli esponenti di punta della vecchia
e nuova mafia palermitana. Sin dai primi anni ’70, il capoluogo lombardo era
stato scelto quale base operativa e finanziaria dai boss Gaetano
Fidanzati, Alfredo e Giuseppe Bono, Gerlando Alberti senior, Enrico e Antonino
Carollo. Milano e la Svizzera erano tappe delle missioni d’oltre Stretto di
Stefano Bontate, il “principe di Villagrazia”, un’ossessione malcelata per la caccia e le macchine di grossa cilindrata,
alla guida della Cupola sino alla sua morte, il 23 aprile 1981, quando
fu assassinato dai Corleonesi di Riina e Provenzano.
Nel
dicembre 1997, il falsario Federico Corniglia ammise davanti ai pubblici
ministeri Alberto Nobili e Antonio Ingroia di essere entrato in contatto con numerosi
esponenti della mafia siciliana. “Conobbi
in particolare il capo mafia Stefano Bontate, al quale consegnai due
false carte d’identità svizzere”, ha raccontato. “In quella stessa occasione notai
che il Bontate era in compagnia di uno studente di Barcellona, che si chiamava
Saro Cattafi. Era un uomo di fiducia del mafioso palermitano, tanto che si occupò di gestire in qualche modo, un grosso debito che tale Gianfranco Ginocchi
aveva contratto nei confronti di quel capo mafia”. Il Ginocchi, ucciso il 15
dicembre 1978, era un agente di cambio con importanti relazioni con gli istituti
di credito svizzeri e aveva compiuto operazioni di riciclaggio per conto della
stesso Bontate. “Ginocchi aveva gli uffici in via Cardinal Federico, proprio
alle spalle della Borsa. Cattafi addirittura, si installò a casa di questo Ginocchi
perché doveva una cifra a Bontate. Non poteva assolvere però a questo debito e
lui era proprietario di una terra edificabile nel comune di Milazzo, dove
adesso è stato edificato un grande albergo, e gli cedettero questa terra, cioè
sotto minacce, ma proprio fu l’uomo che fu mandato… Il Cattafi era uno di quei soggetti che ho visto poi arrivare
delle volte col denaro, nel senso che aveva il compito specifico di trasferire
materialmente i soldi all’estero; si trattava, in sostanza, di uno spallone”.
Gli
inquirenti accertarono che Gianfranco Ginocchi era interessato a due società
finanziarie, la Royal Italia S.p.a. e
l’Euro management Italia S.p.a. -
International Selective, i cui nomi erano emersi nell’ambito delle indagini
sull’omicidio di un altro boss del firmamento di Cosa nostra, Giuseppe Di Cristina,
eseguito a Palermo il 30 maggio 1978. Al momento della morte, Di Cristina era
in possesso di due assegni circolari di 10 milioni di lire ciascuno che erano
stati negoziati sul conto corrente delle predette società assieme ad una
partita di altri assegni circolari per un importo complessivo di tre miliardi
di lire. L’allora giudice di Palermo, Giovanni Falcone, appurò che il denaro
proveniva da un vasto traffico di droga svolto tra Malta, la Sicilia e gli
Stati Uniti d’America dal gruppo mafioso Inzerillo–Spatola-Bontate.
Negli anni del boia chi molla e degli assalti dei
calabro-barcellonesi all’Ateneo e alla Casa dello studente di Messina, Stefano
Bontate e la “famiglia” di Santa Maria del Gesù, così come i Santapaola e gli
Ercolano, erano di casa nella città dello Stretto. Il collaboratore Francesco
Marino Mannoia riferì delle preziose amicizie in loco di Stefano Bontate. Il
padre, don Francesco Paolo Bontate, fu ricoverato dal 22 agosto 1973 al 25
febbraio 1974, data del decesso, presso la divisione di neurologia dell’ospedale
“Regina Margherita” di Messina, di cui era primario il professore Matteo
Vitetta e presso la quale lavorava come tecnico Santo Sfameni, il
mammasantissima di Villafranca Tirrena. Alla masseria di don Santo bivaccava la
borghesia mafiosa peloritana: giudici, docenti universitari, medici,
professionisti, militari, carabinieri, politici del pentapartito, fascisti di
vecchia data e ordinovisti. E pure qualche amico e sodale dell’avvocato Rosario
Pio Cattafi.
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